Usato garantito
Certo che non torna il fascismo. Infatti, non se ne è mai andato. D’altro canto, in poco meno di settant’anni di storia repubblicana, una fetta considerevole di elettori ha dato il suo consenso ad un partito, il Movimento sociale italiano, che ne rappresentava le diverse istanze. Va da sé che mettersi a pensare che il regime mussoliniano possa ripetersi, è una sciocchezza bella e buona. Ma è anche una banalizzazione estrema pensare che il neofascismo – che è cosa diversa dal fascismo storico – abbia esaurito le sue ragioni. Se così le si vuole intendere e chiamare. Non sarà l’alternativa definitiva alle nostre affaticate democrazie ma costituisce un soggetto politico nel cui ambito, sfruttando le occasioni e le circostanze che gli sono offerte, si muove a suo agio. Così come è un errore osservare le dimensioni delle nuove organizzazioni che a vario titolo si rifanno all’eredità del fascio littorio – ad esempio CasaPound e Forza Nuova, oppure il Veneto Fronte Skinheads e Lotta di popolo – per concludere che essendo di contenute dimensioni siano destinate a non lasciare troppi segni del loro passaggio. C’è chi liquida le loro lugubri manifestazioni come un fatto «folcloristico» o l’espressione demenziale di un gruppo di persone che «ignorano la storia». Né l’una né l’altra rassicurazione sono in sé destinate a trovare riscontri. Di folclore pseudostorico, infatti, c’è ben poco, così come di ignoranza. Ci si trova semmai dinanzi a individui, uomini e donne, giovani e anziani, che si sentono fascisti, che ragionano da fascisti, che vivono il nostro tempo da «fascisti del terzo millennio», come alcuni di loro preferiscono definirsi. Essere fascisti non implica fare il clown e neanche il non conoscere la storia. Semmai rimanda a una ferina determinazione, ad una visione conchiusa delle relazioni sociali, ad una rivendicazione sì di storia ma della propria. La forza di questi movimenti riposa nella crescente debolezza delle società democratiche. Non in altro. Ciò facendo, le nuove destre radicali si stanno emancipando da alcuni tratti – oggi divenuti troppo vincolanti, quindi politicamente non premianti – dei regimi e dei movimenti che hanno accompagnato la prima metà del Novecento. Rifiutano la democrazia ma ne sfruttano ogni opportunità per accreditarsi come soggetti di consenso. Non giocano a fare i “sovversivi”, cercando invece di compiere una lunga marcia attraverso le istituzioni (la loro partecipazione ai processi elettorali ne è un chiaro riscontro). L’obiettivo è quello di trasformare gli equilibri politici e culturali a proprio favore. Come piccole organizzazioni, sanno di non bastare a se stesse, ovvero di essere destinate al fallimento qualora non riuscissero a fare alleanze o a creare convergenze con gruppi e partiti ben più grossi. Per questo si presentano come interlocutori disponibili al confronto. Anche la risonanza mediatica che stanno raccogliendo, ben superiore alle loro effettive dimensioni, è parte di questo processo di amplificazione. Non è un gioco d’ombre; piuttosto è il dare alle ombre uno spessore, affinché poi si muovano con gambe proprie. D’altro canto, i movimenti totalitari, di ogni risma e colore, hanno sempre giocato la carta dell’informazione e della rappresentazione pubblica, cercando in tale modo di influenzare gli umori collettivi. Il clima politico europeo gli è favorevole, dinanzi alla dirompenza dei discorsi nazionalisti, sovranisti e identitari. L’impatto dei processi migratori – quand’anche essi siano più figurati che reali, come nel caso di una parte dei paesi del gruppo di Visegrád – li aiuta, laddove una parte cospicua del ceto medio si sente messo in discussione nella sua speranza di un futuro di benessere e di stabilità. Le parole d’ordine correnti, allora, non rimandano alla «moderazione» e alla «mediazione», bensì al radicalismo dell’identità, inteso come un legame non più basato sulla cittadinanza repubblicana ma sull’analogia «di stirpe» e sulla reciprocità etnica. Nel linguaggio delle destre estreme europee la «nazione» è essenzialmente questo e non altro. Inutile illudersi al riguardo, poiché la polemica contro le «minoranze» destabilizzanti è immediatamente dietro l’angolo, pronta ad essere sfoderata non appena si riveli praticabile nell’agone pubblico. Il radicalismo islamista, fino alla sua forma estrema del jihadismo militante e terroristico, è una sorta di reciproco diretto di questo diffuso continente di risentimenti, malumori e rabbiosità, trasfuse in una condotta politica. Tra fondamentalismo islamista e radicalismo neofascista ci sono più punti di contatto che non di differenziazione. Lo dimostra il fatto che spesso si dichiarino vicendevolmente guerra, entrambi nel nome della rappresentanza dello stesso «popolo autentico», che sia quello dei fedeli più ottusi e reazionari o dei secolarizzati più individualisti e incoscienti. Tutti e due dicono di rappresentare la medesima cosa, una «tradizione» di valori così alti ed ispirati da risultare pressoché comprensibili solo attraverso il manganello o la frusta. Se occorre, con le bombe e i mitra. I totalitarismi, nella storia più recente, si sono sempre disputati i medesimi oggetti, poiché per essi la storia è un avvicendarsi non di essere viventi ma di idee reificate. Una galleria degli orrori eletta a proscenio delle proprie ferinità. Poiché il pensare male e l’agire peggio, in ben più di una ricorrenza storica, a certuni sono risultati decisamente motivanti.
Claudio Vercelli