Oltremare – Luci
Non avere il Natale è una delle cose che da bambini differenziava noi bambini ebrei da tutti gli altri, in diaspora. Ma come, poverina, e quindi niente regali? E niente bambin Gesù? E niente presepe? E niente albero? Eh, no, niente. Mi ricordo che vivevo queste domande con una punta di orgoglio e di vaga superiorità, come se il non avere tutte quelle cose apparentemente bellissime e immancabili mi mettesse su di un piano quasi ascetico, di purezza più alta: no, noi ebrei non abbiam bisogno di tutte quelle cose lì, puro consumismo, tutta apparenza e luci colorate. Insomma, si vede che la scuola ebraica di Torino, tanto bistrattata per educare già allora anche bambini di famiglie non ebraiche, alla fine non aveva fatto tanto male il suo lavoro. La distanza fra me e il Natale descriveva perfettamente la distanza che sentivo da bambina fra il mio ebraismo e il non-ebraismo degli “altri”. Questi “altri” cominciavano dalla mia compagna di banco valdese, e quindi non erano tanto lontani. Passano gli anni, si smette di sentirsi chiedere dal bambino figlio dei vicini di casa con gli occhi sgranati “ma se sei ebrea allora sei nata a Gerusalemme?” (no, guarda, direttamente a Betlemme, in una stalla). E due cose mi hanno riconciliata con le feste natalizie: le vetrine di Macy’s a New York, davanti alle quali si può stare lunghi minuti a guardare girare le macchine teatrali che ogni anno trasformano ogni vetrina in una specie di piccolo mondo magico, e in fondo Natale è solo una scusa; e le Luci d’Artista di Torino, che vestono le vie del centro ciascuna con una piccola opera d’arte e di luce, che ogni anno si vanno a cercare per tutta la città, perché oltre ad essere una meraviglia, le Luci d’Artista fanno una cosa quasi magica: migrano. Ecco, queste due cose si potrebbero tranquillamente importare nelle nostre vite israeliane, nessuno si accorgerebbe che non sono “mi-shelanu” (dei nostri).
Daniela Fubini, Tel Aviv