Le false epifanie
Non è che si abbia per forza la fissazione su qualcosa di trascorso. Semmai sono gli altri ad essere fissati al riguardo, ripetendosi con preoccupante costanza. Al punto che nella giornata di ieri, ricorrenza cristiana dell’Epifania così come, più prosaicamente, della «Befana», un quotidiano a tiratura e diffusione nazionale, che già nei giorni scorsi si era adoperato per definire Mussolini «uomo dell’anno», è tornato su temi similari, commemorando con lacrimosa immedesimazione la «befana fascista» (poi detta «del Duce»). Per coloro che non avessero cognizione storica dell’antefatto, basti ricordare che negli anni Trenta il regime garantiva, per la circostanza, la diffusione, a titolo gratuito, di beni donati alle famiglie più povere ed in particolare ai loro figli. L’obiettivo era quello di rafforzare la visibilità e la presenza, attraverso le diramazioni territoriali del Partito nazionale fascista, dell’Opera nazionale del dopolavoro e dei fasci femminili. Così facendo, inoltre, si veicolava, rafforzandola con iniziative di forte richiamo pubblico, l’idea che lo Stato fascista intendesse provvedere alle necessità dei più bisognosi attraverso atti di liberalità. La sottile linea di distinzione tra questi ultimi e quei diritti sociali che il fascismo si guardava bene dal riconoscere e tutelare stava nel fatto che la distribuzione di pacchi dono era essenzialmente una concessione occasionale e temporanea nei confronti dei meno abbienti. Un atto di “generoso” favore, come tale revocabile in qualsiasi momento e comunque sempre a discrezione del cedente, in condizioni di oggettiva superiorità di forze e risorse rispetto ai beneficiari. Nulla mutava, in altre parole, della piramide sociale, di cui il regime era comunque un rigoroso garante. E ancora meno delle ragioni e delle origini di quelle diseguaglianze strutturali che condannavano, in quegli anni, una parte considerevole della popolazione italiana ad una sostanziale marginalità. Eppure, nel medesimo tempo, circolava l’immagine di un regime sì antisocialista ma “sociale” (poiché disposto a donare qualcosa ai “più poveri”), antiliberale ma proclive a prodigarsi in attenzioni verso la condizione di sofferenza dei singoli individui, quindi popolare quand’anche fondato sui continui richiami alle «gerarchie» naturali, spirituali e militaresche: un fascismo “previdente” e provvidente, in altre parole. Se all’epoca quella retorica raccoglieva un certo consenso, rafforzando la fidelizzazione di una parte della società italiana nei riguardi del mussolinismo, soprattutto a fronte delle contraddizioni e delle difficoltà che avevano accompagnato lo sviluppo delle istituzioni liberali nell’Italia unitaria, dopo gli anni della Seconda guerra mondiale la maschera sarebbe definitivamente caduta. Settant’anni e più di storia democratica e costituzionale avrebbero poi dovuto fare definitivamente giustizia dell’equivocità, seducente e pericolosa, che si cela dietro gli atti di occasionale prodigalità delle istituzioni pubbliche. Soprattutto quando sono quelle di un regime monopartitico e liberticida. Poiché, nel qual caso, non si è in presenza del riconoscimento delle legittime tutele della collettività ma, piuttosto, in una dinamica di rafforzamento delle prerogative delle componenti più potenti. Il dono è, in casi come questo, sempre un’arma a doppio taglio, se non altro perché rafforza la dipendenza dei destinatari nei confronti di chi concede qualcosa. I diritti, di qualsiasi genere, non sono mai una “concessione” e ancora meno possono essere confusi con gli atti di favore o le regalie. Siamo su due pianeti completamente diversi, per intenderci. E nessun navigatore nostalgico della storia patria potrà convincerci che le cose stiano altrimenti. Neanche se si muove a cavallo di un manico di scopa, offrendo carbone dolce, come lo sanno essere certi suadenti inganni.
Claudio Vercelli