Memoria senza ironia

Anna SegreQuest’anno nel mio liceo per il Giorno della Memoria è stato replicato lo spettacolo dell’anno scorso “Espulsi dall’Alfieri” sui 39 ragazzi ebrei che hanno dovuto lasciare la scuola nell’anno scolastico 1938-39 e sul loro destino successivo. Versione leggermente diversa, più teatrale (due o tre scene nuove al posto delle interviste), con l’aggiunta di parti danzate, e naturalmente con altri attori in sostituzione degli ex allievi ormai universitari (ma con la regia e le parti principali ancora affidate ad alcuni di loro). La scelta di replicare uno spettacolo che prende le mosse dalle leggi razziali – che è parsa particolarmente opportuna nell’ottantesimo anniversario – mi pare aver consolidato l’idea che il liceo Alfieri nel Giorno della Memoria non ricorda solo la Shoah in generale, ma prima di tutto i propri allievi espulsi e poi fuggiti, nascosti, deportati, uccisi, una perdita che il preside ha opportunamente definito una ferita non ancora rimarginata. Mi pare che anche in altre scuole stia prendendo piede questa tendenza a concentrarsi su allievi e insegnanti della scuola stessa o su ebrei che abitavano nelle vicinanze. Ritengo che sia un fatto positivo sia perché l’attenzione alle vicende locali trasmette ai ragazzi un’impressione di maggiore concretezza sia perché si tratta di una sorta di assunzione di responsabilità da parte delle scuole stesse. È auspicabile che questa tendenza persista e si rafforzi, anche perché non necessariamente implica ripetizione: ogni anno saltano fuori nuovi documenti, informazioni, testimonianze. Noi, per esempio, a seguito di una recensione pubblicata su Repubblica di un libro per ragazzi che parla proprio di due nostri ex allievi, abbiamo scoperto il quinto deportato ad Auschwitz di cui non ci eravamo accorti per un errore nella grafia del cognome (e mi chiedo con sgomento: quanti fratelli, amici, genitori, figli non saranno riusciti ad avere notizie gli uni degli altri dopo la fine della guerra per colpa di grafie sbagliate?).
La scelta di sostituire le interviste con scene teatrali scritte e interpretate dagli allievi stessi ha senza dubbio aiutato i ragazzi a sentirsi maggiormente coinvolti nella storia, a vivere come proprie le vicende dei loro coetanei di ottant’anni fa. Contemporaneamente, però, ho notato un fatto curioso: nelle loro parole tende a sparire l’ironia. Quell’ironia leggerissima, appena accennata, forse un po’ tipica dei piemontesi, quella patina sottile che ricopre come un velo tutti i racconti e le testimonianze, quella sorta di pudore che porta a raccontare senza enfasi, senza superlativi, senza toni eccessivamente drammatici. La conosciamo bene nei testi di Primo Levi (oserei dire che fa capolino persino in Se questo è un uomo), ma la ritroviamo un po’ in tutte le testimonianze lette o ascoltate: la battuta che stempera la tensione, l’attenzione a un dettaglio curioso e magari un po’ ridicolo, la divagazione garbata. I ragazzi quando trasformano le testimonianze in dialoghi teatrali sono molto più cauti: non osano ironizzare su fatti drammatici, e al contempo tendono a enfatizzare gli elementi patetici. È comprensibile e forse è anche giusto: chi racconta la propria storia si sente più libero, fare ironia sulle vicende altrui potrebbe suonare offensivo. Questo però ci dimostra una volta di più quanto siano preziose le testimonianze registrate o videoregistrate, o per lo meno la memoria di chi ha potuto parlare direttamente con i testimoni.

Anna Segre, insegnante