NEUROBIOLOGIA Ricordiamoci di fare bene

behaveRobert M. Sapolsky / BEHAVE / The Bodley Head Penguin

Perché facciamo ciò che facciamo? Che cosa determina il nostro comportamento? È il tema del vastissimo studio di neurobiologia e neuropsicologia dello scienziato, neurologo e primatologo dell’Università di Stanford Robert Sapolsky. La domanda in termini più concreti: perché l’umanità è capace di fare il male fino a crudeltà orribili, ed è capace di bontà, gentilezza, generosità, empatia, altruismo, senza le quali si sarebbe autodistrutta? Perché a voltegli uomini sono ragionevoli ed altre volte malvagi? Perché la ragione spesso rinforza la tendenza spontanea al male con idee assurde, con strategie e tecnologie a dispetto della legge morale che è in noi? Gli ebrei furono decimati dai nazisti, fra l’indifferenza della popolazione, perché di razza inferiore e pericolosa e con la tecnologia delle camere a gas. Un’idea idiota e criminale ampiamente condivisa e una tecnologia perversa. Si riflette da secoli sul male che l’uomo compie, ma la riflessione non ha modificato la realtà che il pensiero, per riprendere Hannah Arendt, non ferma sempre il male e spesso lo suscita. Non s’intendono solo olocausti, guerre, genocidi e massacri, di cui la storia è piena, ma anche il male nei rapporti personali, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali ed ospizi, negli asili, nelle parrocchie, nelle strade. Solo l’uomo persegue la crudeltà, che è il piacere alla sofferenza degli altri. Chissà se i visitatori del Colosseo sono consapevoli delle tremende sofferenze patite in quel luogo per sollazzare l’imperatore e le folle in estasi? In un universo fisico, Sapolsky cerca le ragioni del comportamento, nel bene e nel male, nel cervello. Parafrasando Bill Clinton, sostiene che it’s just biology after all, people» («Dopo tutto, gente, é solo biologia»). Il cervello umano è il prodotto della selezione naturale di milioni di anni, e Sapolsky ne segue le tracce evolutive nel mondo animale, con il quale c’è una vasta continuità strutturale e funzionale. Con una mole enorme e ben distribuita di ricerche, dati e riflessioni dello scibile biologico e delle scienze sociali, con una verve unica in opere del genere, esplora i meccanismi nervosi del comportamento. Descrive il cervello, le cellule che lo formano e le sinapsi che le uniscono, lo sviluppo a partire dal periodo prenatale, la struttura, il funzionamento, gli ormoni che lo regolano, i disturbi del comportamento quando è leso. Individua e spiega gli organi cerebrali del bene e del male. Circa la genetica del cervello, Sapolsky torna più volte su un concetto che spiega anche altri eventi biologici, come la malattia di Alzheimer. La parte del cervello che fa di noi quel che siamo, i lobi prefrontali, essendo l’ultima a maturare, è meno il prodotto dei geni che di ciò che la vita e l’ambiente in cui si cresce ci mettono davanti, che, con la percezione e la neuroplasticità, modificano la struttura del cervello e quindi la nostra mente e psicologia. «Genes don’t make sense outside the context of environment» («I geni non possono far nulla fuori dal contesto ambientale»). Il peggiore e il migliore comportamento sono il prodotto della neurobiologia, e quindi la libertà dell’arbitrio è un’illusione. Pur essendo un riduzionista rigoroso ammette che una vita senza libera volontà gli sembra impossibile. La conseguenza della contraddizione è intelligente: il senso della libertà dell’arbitrio sarebbe un placebo per far funzionare meglio la società. Anch’esso dunque frutto della selezione naturale a protezione della specie: molte indagini neuropsicologiche hanno mostrato che chi non crede al libero arbitrio è più incline a scorrettezze e delitti. Sapolsky ritiene esemplari dell’antinomia bene-male episodi della prima guerra mondiale. Alla vigilia di Natale 1914 ufficiali di entrambi gli schieramenti sul fronte francese andarono sue giù per le trincee urlando «non sparate». Si incontrarono con ufficiali nemici nella terra di nessuno e pattuirono una tregua per il pranzo di Natale e per seppellire i defunti Soldati nemici si prestarono utensili per scavare le tombe. Dopo le cerimonie funebri comuni, scambiarono cibo, tabacco, bevande, regali, persino elmetti per ricordo. Pregarono e cantarono assieme. Si giocò a calcio con palle improvvisate. Soldati inglesi dissero ai tedeschi che sarebbe stato meglio se insieme avessero combattuto il secolare nemico d’entrambi, la Francia. Sassoni replicarono che insieme avrebbero dovuto mandare al diavolo i prussiani. Si separarono con l’augurio di sopravvivere. In molte trincee, senza accordo esplicito, non si sparava quando il nemico consumava il pranzo e dove si sapeva che c’erano le latrine. Anche nelle circostanze della peggiore ferocia possono esserci eventi di profonda umanità. Pause, e non di più, perché la violenza riprende, inesorabile. Ogni meccanismo nervoso del comportamento è esplorato da Sapolsky in profondità, senza nascondere i limiti della conoscenza. Qualunque cosa si studi e si scopra, si graffia solo la superficie, dice il primatologo Fransde Waal e la letteratura scientifica, incalza Sapolsky, è, nella maggior parte dei casi, disordinata. La spiegazione più convincente della tragica antinomia fra il bene e il male viene dalle scienze che studiano la biologia dell’evoluzione. Grazie alla capacità di fare il male, dovuta a caratteristiche evolutive del cervello trasmesse soprattutto dal sistema limbico, la specie umana ha vinto la lotta per la prevalenza sottomettendo tutte le altre, ad eccezione di virus e batteri. La tendenza al male come comportamento per sopravvivere si è selezionata nei meccanismi del cervello, e per questo, ha ragione Hannah Arendt, fa parte della banalità dell’esistenza: sfugge spesso al controllo della razionalità e del senso morale e non é estirpabile una volta per sempre. «La nostra sola speranza non è di eliminare il male definitivamente, ma tentare di comprenderlo, contenerlo, dominarlo», ha scritto, rassegnato all’evidenza, il filosofo Tzvetan Todorov. A ciò Sapolsky non crede: se l’uomo s’impegna, il futuro sarà migliore. Non spiega perché ciò, fino ad ora, non sia avvenuto. Diceva il filosofo George Santayana che chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo. L’uomo ripete il male senza sentirlo come condanna. Chi si ricorda e si rammarica oggi, ad esempio, dei 300 e più milioni di uomini e donne massacrati durante il colonialismo per far posto agli europei?

Arnaldo Benini, Il Sole 24 Ore Domenica, 4 febbraio 2018