Narrativa – Una donna dietro il silenzio
Michal Ben-Naftali / L’INSEGNANTE / Mondadori
Senza perifrasi: L’insegnante dell’israeliana Michal Ben-Naftali, magnificamente tradotto da Alessandra Shomroni, è uno dei più bei romanzi pubblicati in questi mesi. E tuttavia, per insipienza, forse per distrazione o per una sorta di diabolico meccanismo resosi ormai autonomo dalla volontà degli umani, l’editore italiano, Mondadori, aveva deciso di farlo uscire in libreria in occasione della Giornata della Memoria e così, una vera perla è finita nella massa di testi, per lo più indistinguibili l’uno dell’altro, tra veri e inventati ricordi dell’Olocausto. Peccato, perché sebbene la Shoah sia presente in L’insegnante, si tratta di un’opera dove lo sterminio degli ebrei per mano dei nazisti è un dispositivo di narrazione importante, per parlare però del rapporto maestra-allieva, della psicosi e paranoia, della solitudine, dell’identità femminile, dei sensi di colpa, della responsabilità personale per le scelte fatte e non fatte, e anche (ma appunto non solo) della condizione dei sopravvissuti alla tragedia europea in Israele. E tutto questo, con una prosa asciutta ed essenziale e che ha un effetto quasi magico: ogni pagina costringe il lettore a continuare La Shoah e Israele, la rinascita e il senso di colpa, la psicoanalisi e la memoria E una professoressa anaffettiva con un passato misterioso È la storia non ordinaria di Elsa Weiss fino alla rivelazione finale, specie di epifania del rapporto tra silenzio e parola. L’autrice, cinquantenne, studiosa del pensiero di Derrida, un maestro della memoria e dell’oblio, mette in scena una specie di indagine dove centrale è la ricostruzione della memoria, appunto. Il pretesto: il suicidio della sua insegnante di inglese al liceo. Lei si chiamava Elsa Weiss e un giorno, si gettò dal balcone di casa. Che cosa la indusse a togliersi la vita e chi era veramente Elsa Weiss? si chiede la scrittrice. Emerge così, nella prima parte del libro, un ritratto di una donna severa, schiva, solitaria, insofferente verso una certa retorica aulica, patriottica, eroica. In apparenza, il suo rapporto con gli allievi — e prima di tutto con le allieve, il libro è scritto tutto al femminile, il lato maschile del mondo sembra assente o nascosto, quasi come il volto di Dio nella teologia della Shoah — è del tutto formale. Arriva in classe, fa la lezione, ma rifiuta ogni complicità, consolazione, qualunque forma di intimità. Donna senza marito e senza figli, severissima con le allieve e con se stessa, è come se Elsa Weiss avesse deciso di privarsi del suo lato materno, come se non avesse voluto curare o avesse voluto trascurare i bisogni umani elementari delle ragazze che la seguono in classe. Il suo comportamento, lo sappiamo fin dalla prima pagina, era improntato a una “gelida brutalità”. E ancora: «Ci riferivamo a lei come alla dea della collera, a un’insegnante-Gorgone». L’insegnante è un romanzo scritto in prima persona. E l’autrice si pone la domanda non solo sulle ragioni del suicidio, ma prima ancora sul motivo per cui lei, la narratrice fosse fatalmente attratta da quella donna così strana e che, ad eccezione di una sola volta e di sfuggita, non le avesse mai concesso un momento di attenzione particolare, per non dire di tenerezza. Non è una domanda banale. Quanti di noi pensano che donna equivale affetto, e che le donne, a differenza dei maschi, non cessano mai di parlare, di chiacchierare tra di loro? Ecco, Ben-Naftali rovescia lo stereotipo; lei è attratta da Elsa Weiss, proprio per la sua ruvidezza, diremmo maschile e per i suoi silenzi, altrettanto maschili. Il sospetto che viene a questo punto al lettore è che la professoressa Weiss con le sue difficoltà relazionali, così come le abitudini ossessive di una vita regolata al secondo abbia subito un trauma. E così? Nella seconda parte del libro Ben-Naftali cerca di ricostruire la vita di Elsa Weiss, prima dell’approdo in Israele. Lo fa, dichiarando subito che le memoria è un’invenzione, ma un’invenzione basata su dati veri. Elsa dunque, ragazza ungherese, fin da adolescente non si sente adeguata alle esigenze della vita. Poi arrivano i nazisti. Lei ha la fortuna di essere una della oltre milleseicento persone che nel 1944, Rudolf Kastner, un attivista sionista locale riuscì, a carissimo prezzo, far salire su un treno che dopo varie traversie (compresa una lunghissima sosta a Bergen Belsen) portò i fortunati passeggeri in Svizzera. Accusato, in Israele, di collaborazionismo da un giornalista, Kastner lo denunciò per diffamazione, ma un giudice stabilì invece che lui Kastner «vendette l’anima al diavolo». Fini ucciso con un colpo di pistola in una strada di Tel Aviv. Ed Elsa Weiss, per tutta la vita, sentì un irrimediabile senso di colpa per essere sopravvissuta, grazie a quell’uomo. E tuttavia, ed è qui che sta la maestria di Ben-Naftali, Elsa non muore perché è reduce della Shoah. Elsa muore, dice l’autrice, perché era una donna che non ha mai voluto esistere, non ha parlato perché voleva star zitta. Una maestra del nulla e del silenzio e quindi vera maestra di vita. Ci vuole coraggio, sapienza, delicatezza, per osare e dirlo, specie quando di mezzo c’è la Shoah.
Wlodek Goldkorn, La Repubblica, 19 febbraio 2018