Verso Pesach – Immigrazione e legalità
“(H.) disse ad Avram: Sappi che la tua discendenza sarà straniera in una terra non loro: li asserviranno e li affliggeranno per quattrocento anni. Ma anche del popolo che essi serviranno sarò giudice, dopodiché usciranno con grandi ricchezze” (Bereshit 15, 13-14). È lecito domandarsi che profezia sia questa! Forse che il Patriarca si sarebbe consolato all’idea di un avvenire di schiavitù? È vero: tutto è bene ciò che finisce bene, ma nel frattempo? Ho recentemente udito una spiegazione creativa. H. intese rivelare ad Avram non la benedizione della sua discendenza, bensì la sua missione. Noi Ebrei avremmo sperimentato l’esilio in Egitto al fine di potere testimoniare agli altri, in qualsiasi tempo e luogo, cosa comporta la condizione di stranieri. Nel mondo ci sono più acquisti o vendite? La domanda può essere rilevante in relazione a un versetto che dice: “Acquista la verità invece di venderla” (Mishlè 23,23). I Maestri insegnano che il mondo è come un mercato. C’è chi compera e c’è chi vende. C’è chi si impegna ad acquistare, cioè ad accumulare Torah e meriti e c’è chi vende, ovvero smercia i suoi valori per un guadagno materiale di poco conto: commettendo trasgressioni, cattive azioni e trascurando la legge. Quando i fratelli di Yossef si presentano al Faraone egli raccomandò loro di presentarsi a lui come anshé miqneh (Bereshit 46, 33-34), espressione della stessa radice di qinyan, “acquisto”. “Siamo venuti in Egitto non per vendere, ma per acquistare e far acquistare: condividere con voi i nostri valori e contribuire al progresso della vostra società”. Questa è la distinzione ovunque fra l’immigrazione ebraica e quasi ogni altra immigrazione. A differenza di altri che spesso si rendono responsabili di crimini e pesano sulla società che li ospita, noi abbiamo contato sulle nostre forze gravando sui padroni di casa il meno possibile. Al contrario abbiamo sempre contribuito al bene del paese ospitante nell’economia, nella cultura e nelle arti. Tutto ciò andava detto al Faraone. Verso noi stessi, come giustificare il ruolo dei nostri Padri in Egitto? I nostri Maestri adoperano un linguaggio fiorito: dicono che Male e Bene sono mescolati sempre e dovunque nel mondo noi abbiamo il compito di estrapolare il Bene dal Male. Letteralmente dobbiamo fare salire le scintille di qedushah che si trovano sparse qui e lì anche nei luoghi e nelle situazioni peggiori per recuperarle e risollevare la sede del Male con loro. L’Egitto è luogo di impurità per eccellenza. I nostri Padri scesero in Egitto per risollevarlo spiritualmente. La loro azione è paragonabile a un Qinyan Qiddushin, un matrimonio. La prima Mishnah di Qiddushin recita che la donna si acquisisce in sposa in tre modi: tramite denaro (kessef), tramite un documento scritto (shetar) o tramite la coabitazione (biah, ancorché questa via sia disapprovata). Lo tzaddiq che ha in primis questo compito in Egitto è Yossef. Nel racconto della Torah Yossef attraversa tutti e tre i Qinyanim. Di kessef si parla quando viene venduto dai suoi fratelli (Mekhirat Yossef ). Di biah, significativamente evitata, si parla con la moglie di Potifar. E lo shetar? È implicito nel lungo resoconto degli Egiziani che decidono, rimasti privi di tutto a causa della carestia, di vendere se stessi e le loro terre al Faraone. Non si trattò certamente di un qinyan kessef, perché il verso prima testimonia che avevano già esaurito tutto il denaro. La terza forma di acquisto del terreno, chazaqah (occupazione, parallela alla biah nel matrimonio), non è ancora avvenuta, perché solo al verso dopo la Torah parla di trasferimento degli abitanti. Per esclusione non può che trattarsi di Qinyan Shetar. Gli Egiziani siglarono la rinuncia alla proprietà della terra firmando un documento scritto in cui avranno dichiarato: “il mio terreno é venduto al Faraone”. La Torah allude a questo testo (Bereshit 47, 23- 24). È significativo che il Midrash affermi che in quel momento la carestia cessò, in anticipo sul previsto. Il processo di recupero dell’Egitto era ormai completo: la schiavitù sarà un’altra storia. In termini moderni kessef allude all’onestà nei rapporti commerciali fra singoli. Shetar allude alla fedeltà massima verso lo Stato che ci ospita e le sue leggi. Biah allude alla struttura della famiglia ebraica, che da sempre costituisce un esempio per il resto della società. In qualsiasi tempo e luogo noi Ebrei siamo stati additati positivamente per questi aspetti. La prima volta accadde verosimilmente in Egitto. Comprendiamo a questo punto il Midrash Tehillim quando dice: “Per tre meriti i nostri Padri furono liberati dall’Egitto: non mutarono il loro linguaggio, non mutarono i loro nomi e si tennero lontani dalle unioni coniugali proibite”. “Non mutarono il loro linguaggio” va riferito all’onestà e trasparenza nei rapporti commerciali: la parola data è sempre stata sacra e mai abbiamo cambiato le carte in tavola in un affare. “Non mutarono i loro nomi” significa che mai abbiamo falsificato documenti che avessero un valore ufficiale. È la regola: “la legge dello stato è legge”. Infine, “si tennero lontani dalle unioni proibite” allude alla stabilità dell’istituto famigliare nel nostro ambiente. Se ciò è sempre stato valido fuori da Israele, tanto più dovrà segnare e indirizzare la nostra vita ora che abbiamo meritato una terra e da settant’anni possediamo uno Stato indipendente. Che il S.B. ci aiuti a santificare il Suo Nome comunque e dovunque.
Nell’immagine: James Jacques Joseph Tissot – Joseph Interprets Pharaoh’s Dream
Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, marzo 2018