Machshevet Israel – I pregiudizi di Lutero
L’ottobre scorso ricorreva il cinquecentenario di quel gesto – l’affissione da parte di Lutero delle 95 tesi di Wittenberg – che segnava l’inizio della Riforma. Nell’occasione, su suggerimento di un conoscente, decisi di leggere il testo di Tohomas Kaufmann “Gli ebrei di Lutero” (2014), tradotto nel 2016 per Claudiana. Kaufmann affronta di petto il tema dell’antisemitismo e dell’avversione antigiudaica di Lutero. Uso i due sintagmi perché se il primo rimanda all’ “antisemitismo tardomedievale e protomoderno” di cui “Lutero si rese megafono e garante” (p. 135), il secondo permetterà di cogliere gli aspetti teologici, e quindi teorici, del problema. Ora, per come ho compreso il testo – che mi pare prezioso, ma che non è mia intenzione qui recensire – Kaufmann, da storico, pone l’accento sugli aspetti contestuali – i pregiudizi ereditati dalla Chiesa romana, quelli di carattere sociale etc. Tuttavia –ed è questo a mio avviso l’aspetto più interessante – non mi pare che Kaufmann risolva il problema appellandosi alla formula della contestualizzazione nella misura in cui riconosce quanto la ‘svolta’ antigiudaica del Riformatore – che in una prima fase avrebbe espresso apertura e interesse verso il mondo ebraico ma che giungerà infine a redigere il famigerato libello Degli ebrei e delle loro menzogne – fosse intrecciata alle sue riflessioni di carattere teologico. Per Lutero infatti l’ebraismo era “definitivamente superato”, “un cadavere vagante” (p. 182), da cui la distinzione tra ebrei ‘biblici’ ed ebrei ‘rabbinici’, questi ultimi rei di contraffare volutamente attraverso “folli glosse”, o di non riconoscere a causa di “confusione mentale”, la verità del testo biblico. Qualora si faccia astrazione dalle analisi legate al contesto – senza ignorarne l’importanza, ma allo scopo di individuare un altro ambito di problemi – emergerà il tema del rapporto tra ‘fedele’ e ‘testo rivelato’ e, al fondo, quello del rapporto tra lettore e testualità. Nello specifico nel ‘fenomeno’ Lutero ritroviamo l’opposizione tra un rivendicato rapporto diretto al testo (principio di sola scriptura) di contro a quella comprensione mediata del testo biblico consegnata dalla Tradizione – ossia l’incapacità o la non volontà a comprendere la raison d’être della Tora she be al Pe (ma analogamente si potrebbe dire rispetto alla dogmatica di Roma, ed infatti, come segnala Kaufmann, prelati e rabbini si intrecciano nella polemica luterana; cf. p. 77). In certo qual modo, verrebbe da dire, Lutero anticipa l’atteggiamento del soggetto moderno di voler comprendere un qualsivoglia ente (che sia un testo o un oggetto) attraverso un rapporto immediato, diretto – su questo aspetto P. Harrisson, 1998. Emerge così un tema che interessa filosofia e, latamente, pensiero ebraico. In Verità e metodo (1960) Gadamer individua, a partire da formule spesso fraintese, il ruolo di “autorità e tradizione”, ossia dei cosiddetti “pregiudizi”, nel processo di comprensione ermeneutica – che sia del testo biblico, di un dato testo normativo o di un’opera d’arte. Su queste basi David Banon (1987) sottolineerà come nell’ambito della Tradizione non vi sia possibilità di comprensione se non a partire da un rapporto, fatto sì di interlocuzione ma anzitutto di ascolto, ai Maestri. Il che è noto; ma meno scontato è l’individuarvi una condizione di passività, di mediazione, indispensabile alla comprensione – quella mediazione che Lutero, uomo quasi moderno che ambiva a pervenire al ‘nocciolo duro’, alla verità ultima, del testo biblico, non volle riconoscere. Così, mi pare, il problema dell’avversione all’ebraismo in Lutero è tutt’altro che tema solo storiografico. Emergono nodi teoretici – l’ostilità di una parte della modernità a ogni forma di eteronomia, ostilità che talvolta si ritrova nella vis polemica ‘laicista’ contro i monoteismi; e nodi teologici – non sarà un caso che in un altro testo fondativo, quale il Corano, ricorrano passaggi ove agli ebrei è attribuita l’analoga colpa di aver alterato la Torah.
Cosimo Nicolini Coen