“Il mio impegno ebraico”
La molla scatta alla fine del liceo, quando insieme ad alcuni amici partecipa alla costituzione e alla costruzione del Kadimah, il circolo ebraico che nei primi anni Sessanta punta a coinvolgere i giovani ebrei romani. Renzo Gattegna non ha particolari aspettative né progetti. Ma l’esperienza si rivela ben presto un vero e proprio punto di svolta.
Insieme a lui, tra i fondatori, vi sono gli amici Sandro Di Castro, Enrico Modigliani, Duccio Levi Mortera, Giuliano e Natan Orvieto e tanti altri: persone che daranno molto al mondo ebraico italiano. Poi arrivano le lezioni di Augusto Segre, dirigente dell’Unione delle Comunità di allora e addetto alle attività culturali, che incontra spesso i ragazzi per proporre approfondimenti e dibattiti di stringente attualità. E a scandire le attività del circolo, infinite occasioni d’incontro e divertimento: le gite al mare, le domeniche d’inverno sulla neve del Terminillo, le feste da ballo. Per il giovane Renzo è l’inizio di un impegno destinato a durare fino a oggi. Da frequentatore del circolo ben presto si trova ad assumere un ruolo nel consiglio direttivo. Si spende con grande energia al tempo della Guerra dei sei giorni, quando la comunità ebraica romana si trova ad accogliere gli ebrei tripolini cacciati dal regime libico. E in modo quasi inevitabile, dopo la laurea in Legge, si trova a transitare dai movimenti giovanili ebraici al mondo delle istituzioni.
Nei primi anni Ottanta è eletto consigliere della Comunità ebraica di Roma, allora retta dal presidente Fernando Piperno e l’incarico si rinnova fra l’89 e il ’93 con la presidenza di Sergio Frassinetti. Nel 2002 fa il suo ingresso all’UCEI, dov’è consigliere per quattro anni, durante la presidenza di Amos Luzzatto. Poi nel 2006 l’elezione a presidente, quasi all’unanimità, un ruolo che gli sarà confermato dal Congresso del dicembre 2010 che sancisce l’avvio del processo di riforma dell’ente. E ora, il primo luglio, il rinnovo dell’incarico che ancora una volta avviene a larghissima maggioranza.
Nei prossimi quattro anni sarà dunque Renzo Gattegna a guidare l’ebraismo italiano nel percorso entusiasmante e complesso che vede l’avvio di meccanismi rappresentativi e operativi del tutto nuovi: primo fra tutti il parlamentino nazionale eletto direttamente dagli iscritti alle Comunità. La consapevolezza dei risultati raggiunti è tangibile nella sua voce, ma non ha nulla di personale. Ad animare l’impegno del rinnovato presidente sono invece il senso di una vicinanza profonda all’ebraismo e la ferma convinzione che il futuro si può costruire solo attraverso un’unità d’intenti.
Renzo Gattegna ripercorre il suo itinerario di vita e d’impegno ebraico in una calda serata dell’estate romana nel silenzio che segue una giornata di lavoro, fra i libri che affollano le pareti del suo studio d’avvocato. Si racconta con tono misurato e schivo. Tanto da chiedere spesso ragione, con sincero stupore, delle domande più personali: “Sono una persona del tutto normale, che interesse possono mai avere per il lettore questi ricordi?”. Eppure immergersi nel suo racconto significa rintracciare le radici e le ragioni di un’intera generazione di ebrei italiani: quelli che, bambini nel dopoguerra, seppero rimboccarsi le maniche e restituire forza, vitalità e nuove prospettive a un mondo che la persecuzione nazifascista aveva colpito con durezza spaventosa.
Le leggi razziste del 1938 hanno segnato un drammatico spartiacque per l’ebraismo italiano. Cos’hanno significato per la sua famiglia?
Negli anni della guerra, come tanti, siamo stati costretti nasconderci. Dapprima in un appartamento in affitto nella zona di piazza Navona. Poi, con mia madre e i miei fratelli Sandro e Bruno, tra la fine del ’43 e giugno ’44 trovammo riparo in un convento di suore in via San Sebastianello. Mio padre in quel periodo si nascose da amici, era senza fissa dimora: una situazione molto pericolosa.
Cosa le è rimasto di quel periodo?
Ero molto piccolo. Mi torna alla memoria una suora che aiutava mia madre a farmi mangiare nascondendo i cibi che non mi attiravano e che rifiutavo, dentro l’insalata. E soprattutto la liberazione di Roma. Un giorno del giugno 1944 uscimmo dal convento e in piazza di Spagna vedemmo sfilare le jeep degli Alleati che a noi bambini regalarono caramelle e cioccolata. È una giornata che mi è rimasta per sempre impressa: per noi era la fine di un incubo.
La sua famiglia era vicina al mondo ebraico?
I miei genitori erano molto legati alla tradizione. Ma il contatto decisivo con la realtà ebraica avvenne per me nei primi anni Sessanta, quando entrai a far parte del circolo Kadimah: dapprima come semplice frequentatore, poi nel consiglio direttivo. Abbandonai l’incarico, per lasciare posto ai più giovani, quando il circolo si spostò dalla vecchia sede di via del Gesù a uno spazio sopra il tempio di via Balbo, dove fino allora era ospitata la scuola ebraica. A quel punto Natan Orvieto e io venimmo chiamati dal presidente della Comunità ebraica, Gianfranco Tedeschi, per riorganizzare il circolo: dopo la Guerra dei sei giorni stavano arrivando a Roma gli ebrei tripolini, bisognava stringere i ranghi e darsi da fare per accoglierli e integrarli.
Cosa significò il loro arrivo?
Cambiarono il volto dell’ebraismo romano. Portarono con sé un nuovo modo di vivere. A Tripoli la loro presenza era numericamente fortissima, non erano abituati a considerarsi una minoranza, erano cosmopoliti, si esprimevano in più lingue. Il loro arrivo fu per noi una grande iniezione di energia rinnovatrice. Ci sentimmo molto rafforzati e al circolo Kadimah riuscimmo a formare un consiglio misto di romani e tripolini e attraverso feste, incontri e altre iniziative, cercammo di coinvolgere quanti più giovani possibile.
Le feste di quegli anni sono ancora un mito nel mondo ebraico italiano. Proprio a uno di questi balli incontrò sua moglie Ilana, che era arrivata da Israele.
Ci siamo conosciuti nel ’69 e sposati cinque anni dopo. Lei era nata nel nordest della Romania e aveva fatto l’aliyah a 12 anni con la sua famiglia. Aveva frequentato liceo di Hadera ed era arrivata in Italia per studiare Medicina. Adesso lavora come angiologa all’ospedale San Giovanni.
Anche tramite Ilana ha potuto sviluppare un rapporto molto stretto di vicinanza con Israele.
Siamo lì più volte l’anno per visitare la famiglia: è chiaro che una frequentazione così serrata e profonda ha contribuito a farmi conoscere e amare ancora meglio quella realtà.
Torniamo a Roma. Al di là della partecipazione ai movimenti giovanili, com’è stato essere ebreo nella Capitale nei primi decenni del dopoguerra?
Non era facile. Negli anni Cinquanta una delle esperienze che ci segnarono di più furono i raid fascisti nel Ghetto. La polizia non interveniva, così noi giovani organizzammo dei turni di guardia nel quartiere. Vi fu qualche scontro abbastanza violento in cui, anche grazie a una buona conoscenza del territorio, riuscimmo ad avere la meglio e le aggressioni si esaurirono.
Lo scontro politico fu forte, anche se di segno diverso, al tempo della Guerra dei sei giorni. Vi furono for- tissime contestazioni a Israele da sinistra e da un giorno all’altro ci trovammo in serie difficoltà in tanti ambienti che eravamo abituati a vivere come vicini e favorevoli.
La storia degli anni successivi ha dimostrato con chiarezza che la situazione e le dinamiche mediorientali sono molto più complesse e non possono essere ricondotte, come allora spesso veniva fatto, a schemi ideologici superficiali e semplicistici.
Com’è avvenuto il suo passaggio dai movimenti giovanili alle istituzioni ebraiche: alla Comunità ebraica di Roma prima e poi all’UCEI?
È stato naturale per tanti di noi. Solo così si possono continuare a seguire i progetti e le iniziative: da fuori è difficile dare il proprio contributo o svolgere un ruolo fattivo e concreto.
Spesso nei suoi interventi pubblici ha sottolineato il valore dell’unità: “Sono il presidente di tutti”, ha ribadito più volte. Perché quest’affermazione?
Il mio obiettivo è quello di coinvolgere tutti nelle scelte e nelle decisioni. Nel mondo ebraico vi è spesso la tendenza ad amplificare la conflittualità e i motivi di dissenso, cosa che porta a una grande dispersione di energie e di risorse. Non si tratta in alcun modo di annullare le differenze d’opinione o la dialettica tra le parti, ma di imparare a mediare così da riuscire a collaborare a progetti di valore.
Tanti progetti in agenda, da dove cominciare in questa nuova stagione?
Il lavoro da compiere è immenso e i programmi delle diverse componenti entrate in Consiglio ne costituiscono una dimostrazione. Fra i tanti temi, credo sia un aspetto fondamentale consolidare il sistema dell’informazione. In questi anni grazie alle testate UCEI – il notiziario quotidiano L’Unione informa, la rassegna stampa, Pagine Ebraiche, Daf- Daf e Italia Ebraica – siamo riusciti a sviluppare un sistema che credo abbia cambiato nel profondo alcune dinamiche del mondo ebraico, garantendo un’opportunità preziosa di comunicare e informarsi.
Vorrei mantenere il buon livello raggiunto, migliorarlo ancora e potenziare le nostre iniziative. Nel mondo di oggi l’informazione è un elemento centrale, restare esclusi da questo processo potrebbe rivelarsi molto rischioso.
Daniela Gross, Pagine Ebraiche luglio 2012