FILOSOFIA Revisionismo biblico, il primo fu Mosè

goodmanMicah Goodman / L’ULTIMO DISCORSO DI MOSÈ / Giuntina

Mosè, il primo revisionista storico. Ossia, il primo ad aver riscritto la storia dell’uscita dall’Egitto e della rivelazione al Sinai. Per attenuare la tesi, il filosofo israeliano Micah Goodman parla anche di Mosè come il primo commentatore della Bibbia, nel senso che i suoi discorsi nel Deuteronomio, il quinto libro della Torah, a ben leggerli sono dei commenti agli altri quattro, con lo scopo di stabilire le priorità della vita dei figli di Israele una volta giunti a vivere nel luogo della promessa divina, nella terra di Israele. In effetti è così: il Deuteronomio non è una semplice ripetizione delle cose già dette in precedenza, non è una “duplicazione” o una “seconda” Legge, come sembra suggerire il nome greco (in ebraico infatti il nome di questo libro biblico è Devarim, Parole). Persino i Dieci comandamenti, dati una prima volta in Esodo, qui arrivano leggermente modificati. Non li aveva, nelle seconde tavole portate giù dal monte, scritti lui stesso? Come è possibile che non siano identici? E poi, chi ha davvero scritto i primi cinque libri “di Mosè”? Goodman non vuole darci nuove risposte scientifiche né rimanda all’approccio tradizionale dei rabbini. Apre invece una strada diversa, filosofica, e così facendo ci costringe a rileggere la Bibbia, a partire da Deuteronomio, in modo radicalmente nuovo. Ci obbliga a ripensare Mosè. A vent’anni esatti dalla pubblicazione del libro “Mosè l’Egizio” dell’egittologo tedesco Ian Assmann, che riprendeva a sua volta “L’uomo Mosè e il monoteismo di Freud” innescando il più stimolante dibattito culturale recente sulla Bibbia e sul tema della violenza religiosa, questo nuovo studio dal titolo L’ultimo discorso di Mosè (appena pubblicato da Giuntina, pagine 320, euro 20) è forse la più acuta riflessione sull’eredità a un tempo politica e religiosa del condottiero e legislatore biblico, ben custodita dall’intera tradizione talmudica e filosofica ebraica. Deuteronomio, infatti, raccoglie le esortazioni dell’anziano leader, che aveva visto la redenzione divina di Israele dalla schiavitù egiziana e aveva consegnato la Torah al popolo nel deserto, affinché il popolo, una volta entrato nella terra promessa (ma da conquistare), non soccomba alle tentazioni tipiche di ogni forma di sovranità: le tentazioni religiose dell’idolatria e quelle politiche della tirannia. Alla luce dell’esperienza, Mosè è molto preoccupato e pessimista: cosa succederà quando lui non ci sarà più e Israele sarà passato «dalla debolezza alla forza»? E soprattutto che ne sarà del Patto con Dio sigillato al Sinai e poi nel deserto di Moab? Riusciranno i figli di Israele a non imitare né i culti idolatri dei popoli caananiti né l’arroganza e l’amoralità politica dei faraoni? Secondo Goodman, per mettere al riparo Israele da questi “peccati” Mosè compie due rivoluzioni: la prima legata alla nazionalizzazione del Tempio, la cui unicità per il culto è bilanciata dal suo de-potenziamento teologico (ossia: i sacrifici sono meno importanti della giustizia sociale e Dio abita in Cielo). La seconda rivoluzione è l’idea che il potere politico (che prenderà poi la forma di una monarchia) debba essere “limitato”, controllato, e non assoluto, e men che meno un potere teologicamente giustificato. In altri termini, Mosè inventa la separazione tra politica e religione. Il re, il potere statale, non è fonte della Legge, ma le è sottomesso, come chiunque altro, e deve lasciare al sacerdote e al profeta il rapporto del popolo con Dio. Una volta entrati in possesso della terra, i figli di Israele devono evitare gli eccessi di un culto templare che sconfina nella magia e di un potere politico che diviene dispotismo. In altre parole, Deuteronomio anticipa e mette le basi per la predicazione dei profeti contro ogni abuso di potenza e ogni travisamento del culto, e anticipa persino la rivoluzione rabbinica che, a Javne, sostituirà i sacrifici con la preghiera. “L’ultimo discorso di Mosè non è una giustificazione della sovranità ma una valutazione dei suoi pericoli. Più che una giustificazione del potere il libro offre una guida su come salvaguardarsi dai suoi eccessi”. Basterebbe questa rilettura per fare del testo di Goodman la base di un nuovo dibattito europeo sulla matrice biblica della cultura democratica e liberale. Ma c’è di più. Quest’anno lo Stato di Israele compie settant’anni, cifra tonda e simbolica che indica pienezza e maturità. Il libro di Goodman è una rilettura, dall’interno, della stessa impresa sionista dopo il 1948 ma anche dopo il 1967, vista in chiave di continuità con tutta la storia ebraica e dunque anche con la storia biblica. Non è una continuità ingenua: non vi è qui traccia dell’approccio fondamentalista ma neppure dell’approccio secolarista, che rifiuta ogni connessione con il retaggio dell’antica Israele. Si tratta di un modello filosofico, perché si interroga sul senso del racconto biblico e sulla lezione drammatica dell’ultimo Mosè. La Bibbia ebraica, dopo le vicende di patriarchi e matriarche, traccia le vicende di Israele dall’uscita dall’Egitto all’ingresso nella terra con il fedele Giosuè, fino all’apice della gloria di re Salomone (della costruzione del Tempio e del potere politico). Ma da lì la parabola si fa discendente e termina tragicamente con una doppia cacciata dalla terra, verso Babilonia e di nuovo verso l’Egitto. L’insieme narra una storia fallimentare, dice il filosofo israeliano; tuttavia la storia non è finita, perché il Patto con Dio non è mai cessato (l’alleanza non è mai stata revocata, dicono oggi anche i teologi cristiani). Il sionismo è la continuazione di quella storia, è una seconda chance del popolo ebraico dopo i fallimenti biblici. Il Deuteronomio è la strada indicata da Mosè da percorrere, pur con i dubbi e le perplessità e i dilemmi morali che la Bibbia non si cura né di celare né di risolvere. La storia è sempre piena di pericoli e di dilemmi morali. Secondo Micah Goodman “oggi, nella terza generazione dello Stato di Israele, è arrivato il momento del Deuteronomio. Sionismo e Deuteronomio si completano a vicenda. Il sionismo ha dato potere agli ebrei e il Deuteronomio insegna loro come gestire questo potere. L’impresa sionista, che è in corso, cerca di riuscire là dove la Bibbia ha fallito. Il sionismo, quindi, è la seconda occasione della Bibbia”. Tesi da discutere, naturalmente. Ma impossibile da ignorare, sia dal punto di vista religioso ssia dal punto vista politico.

Massimo Giuliani, Avvenire, 11 aprile 2018