Israele, settant’anni
Alla seconda metà degli anni Novanta in Israele si confrontavano due visioni sul futuro. Da una parte quella caldeggiata da Shimon Peres, Mizrah haThikon haHadasha (un «nuovo Medio Oriente»), basata sulla complementarietà tra le economie regionali e sulla sinergia tra capitali di origine petrolifera, tecnologia israeliana e manodopera araba. Anche da ciò, sarebbero derivate quelle condizioni di pacificazione che, al momento, erano invece ancora del tutto assenti. Dall’altra parte quella di Benjamin Netanyahu, per la quale Israele doveva cogliere l’occasione offerta dai processi di avanzata globalizzazione per superare i vincoli dettati dall’asfittico contesto regionale, divenendo interlocutore privilegiato dei paesi a sviluppo avanzato. Si può dire che delle due sia stata la seconda a trovare riscontro. Le priorità alle quali il Paese deve oggi fare fronte rimandano sia ai tradizionali deficit che connotano l’economia nazionale (mancanza di materie prime e, quindi, non autosufficienza in campo energetico; il problema della bilancia dei pagamenti; la debolezza della moneta e la tendenza a vivere periodi di forte inflazione) sia ad una rinnovata questione ecologica legata al rapporto tra scarsità di risorse, antropizzazione degli spazi, vivibilità degli ambienti. Si inserisce in quest’ultimo ordine di considerazioni il tema strategico tra trasformazione demografica e risorse naturali. Le previsioni dicono che l’evoluzione delle popolazioni mediorientali seguirà tassi di crescita estremamente differenziati. In Israele la popolazione dovrebbe mantenere un tasso di crescita annuo intorno all’1,5% fino al 2050. Nello stesso periodo di tempo i Territori palestinesi potrebbero passare da 4.017.000 a 10.265.000 abitanti, con un tasso del 2,6%. Questo a patto che quelle terre rimangano separate da Israele. Nel caso, invece, di un’annessione si calcola che già tra il 2020 e il 2025 la componente araba diverrebbe maggioritaria. Un carico demografico di tale misura è comunque destinato a pesare molto in una regione tendenzialmente scarsa di risorse idriche. Più in generale, la variabile ecologica, intesa in chiave non solo ambientalista ma, più in generale, nell’ottica dell’equilibrio di rapporto tra espansione quantitativa delle popolazioni, uso qualitativo del territorio e natura dei consumi – soprattutto energetici – s’impone già da adesso come dirimente rispetto alle scelte politiche future. Detto questo, rimane l’eredità dei settant’anni trascorsi ma anche di ciò che li ha preceduti, a partire dall’esperienza dell’Yishuv. Del Novecento lo Stato degli ebrei è espressione da molti punti di vista, raccogliendone promesse, speranze ma anche alcune illusioni. La politica israeliana soffre in parte dei mali che attraversano tutte le società occidentali: disaffezione tra gli elettori, autoreferenzialità del ceto politico, crisi della funzione di rappresentanza dell’interesse pubblico, farraginosità dei meccanismi decisionali così come una certa propensione al populismo e al leaderismo carismatico. Il Paese è aperto, per sua natura – avendo fatto già con le diverse immigrazioni di necessità una virtù – agli influssi che derivano dalla globalizzazione. Ne è espressione il riguardo per i diritti civili, a partire dalle politiche di riconoscimento e integrazione delle autorità civili nei confronti degli omosessuali e dei portatori di diversità identitaria. La sua storia, d’altro canto, è intreccio e prodotto dell’incontro consumatosi tra il nazionalismo romantico ottocentesco, le culture politiche dei socialismi europei e di parte del filone liberale, il pensiero del giudaismo laico e la rilettura, in chiave attualizzante, della tradizione ebraica. È una storia di pluralismi in un contesto mediorientale dove ciò invece fatica ad affermarsi. La globalizzazione, tuttavia, per sua stessa natura mette in discussione le identità nazionali, quand’anche esse siano il prodotto di una costante trasformazione. Soprattutto, tende ad erode confini e barriere. La qual cosa, per una paese come Israele, sarebbe quasi una sorta di contrappasso dal momento che da sempre rivendica il diritto a confini, non solo spaziali, certi e garantiti. Se mai si dovesse addivenire alla loro definitiva determinazione, cosa però del tutto improbabile dinanzi alla permanenza della questione palestinese, ciò accadrebbe nell’epoca in cui essi sono sottoposti ad una generale rimessa in discussione, e non tanto dalla politica quanto dall’evoluzione economica che, per certi aspetti, li rende secondari rispetto alla libera circolazione delle merci, delle idee, ma anche dei corpi e delle identità. La sfida culturale, in questo caso, si gioca più che mai tra l’universalismo del mercato, che introduce nuove diseguaglianze, nel mentre abbatte muri e vincoli di antica data, e il vivace particolarismo delle identità degli ebrei israeliani. Quale sarà il punto di sintesi? Nello Stato d’Israele vediamo riflessa la storia del Novecento. È come uno specchio. Una comunità nata sulla base di una cultura politica – il sionismo – che ha solide ancoraggi nel pensiero occidentale, prodotto di un intenso processo di secolarizzazione intellettuale, ha originato una società nella quale per molti europei ed americani è facile identificarsi poiché ne richiama diversi elementi di esperienza. Ne sono manifestazione i fenomeni della nuova storiografia, estremamente critica sui modi in cui le trascorse classi dirigenti hanno costruito il racconto del Paese nel suo farsi, e la straordinaria diffusione della letteratura israeliana, i cui autori hanno fornito un lessico della contemporaneità ad una pluralità di pubblici, un po’ per tutto il mondo. Per tutte queste ragioni, passioni e amori, ma anche rancori e dissidi, sono così intensi quando se ne parla. Israele, la cui reale natura è quella propria ad una qualsiasi moderna società politica, offre come una sorta di surplus sentimentale ed affettivo, che facilmente può trasformarsi in una deformante adesione ideologica o, alternativamente, in un non meno aprioristico rifiuto fondato sul pregiudizio. Su Israele si proiettano ombre e angosce del nostro recente passato, quello consumatosi laddove tutto sembra avere avuto inizio e al quale tutto riconduciamo, ossia la “vecchia” Europa. Pesa in ciò il segno indelebile lasciato nella società continentale dalla cultura ebraica; pesa, non di meno, l’atroce vicenda dello sterminio sistematico degli ebrei per mano dei nazisti e dei fascisti. Israele diventa così la coscienza – buona o cattiva che sia, a seconda dei casi – del mondo occidentale. Per il mondo arabo e, ancor di più, per la numerosissima comunità musulmana, presente non solo in Medio Oriente e nel Sud-Est asiatico ma, oramai, in tutto il pianeta, le tante storie individuali che confluiscono in quella collettiva d’Israele sono invece perlopiù estranee alla propria esperienza. L’emotività che vi si ricollega non ha quindi nulla a che fare con quell’effetto di rispecchiamento che per noi è così importante. Semmai vale il principio capovolto del diniego, dell’ostilità che si fa preconcetta tanto più quando si misurano i risultati raggiunti dal paese di contro allo stallo socioeconomico in cui molte società arabo-musulmane si trovano, loro malgrado. Da questo divario, che è materiale (di opportunità, di capacità, di speranze) ma anche culturale, ne è derivata un’avversione che è andata crescendo, incontrandosi con i filoni dell’antisemitismo e fondendosi, a volte, con questi. L’antisionismo, ovvero il rifiuto di riconoscere agli ebrei il diritto ad un proprio Stato, ha spesso travalicato i confini di una pur legittima critica ai fondamenti del sionismo medesimo e alla sua prassi storica, per diventare una velenosa dottrina antiebraica. Ne è conseguito un eccesso di ideologizzazione che ha alimentato il conflitto tra palestinesi e israeliani, caricandolo di significati estremi e rendendo ancora più improbabile la sua soluzione. Ciò che resta d’Israele, oltre ad Israele stessa, è il tema dell’identità condivisa nell’età della globalizzazione. Un rebus che si chiama vita.
Claudio Vercelli
(Tratto dal volume di Claudio Vercelli Israele, settant’anni, Capricorno editore, Torino, in uscita il 14 e 15 maggio 2018)