Meis – La lezione del rav Della Rocca “Abramo? Moderno anticonformista”
Fondativo, attualissimo, paradigmatico, imprescindibile. E infatti il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah fa partire da lui, Abramo, sia il percorso espositivo “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni” che l’installazione multimediale “Con gli occhi degli ebrei italiani”. E ieri, dalla figura del patriarca ha preso le mosse anche il ciclo di appuntamenti promossi dal MEIS per approfondire gli argomenti in mostra a Ferrara, con il contributo di esperti del calibro di rav Roberto Della Rocca. Al Direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’UCEI, docente di cultura e filosofia ebraica in diversi atenei, nonché componente del Comitato Scientifico del MEIS, il compito di sviluppare il tema “Vai verso te stesso: il viaggio fisico e interiore di Abramo”, della cui intuizione monoteista – ha sottolineato Simonetta Della Seta, direttore del Museo – “gli ebrei che giunsero in Italia 2.200 anni fa sono i figli primi”.
“Se l’itinerario museale del MEIS – ha precisato Della Rocca – deve tener conto di una cronologia storica, di un contesto spaziale e geografico, il ragionamento rabbinico procede semmai per associazioni tematiche, è quasi psicoanalitico. Leggiamo e facciamo rivivere la Bibbia, dandole un senso esperienziale e culturale, attraverso il Talmud, l’opera principale della saggezza ebraica. Il suo metodo è analogico e il modello che segue è interrogativo, piuttosto che narrativo. Parte dal presupposto che il mondo duri seimila anni, suddivisi in tre fasi: duemila anni di caos primordiale, altrettanti di insegnamento della Torah e infine i giorni messianici. Chi interpreta alla lettera questa allegoria osserva che, correndo l’anno 5778, sarebbe lecito aspettarsi la domanda: “Che cosa succede dopo?”. Ma il Talmud non la pone, chiedendosi invece quando inizino i duemila anni di Torah”. E la risposta è spiazzante: “Cinquanta giorni dopo la fine della schiavitù egizia, Dio ha chiamato Mosè e ha promulgato i dieci comandamenti, perciò l’epoca della Torah dovrebbe partire da Shavuot, che celebra quella data. Però il Talmud la fa cominciare dal capitolo 12 della Genesi, quando Abramo, con la moglie Sara e il nipote Lot, si dirige verso la terra che Dio gli ha indicato, intraprendendo un cammino etico, religioso, di identità e di fede incondizionata, senza nemmeno voler sapere dove stiano andando, né quale sia la ricompensa”.
E sul Lech-Lecha, sulla chiamata “Vattene dalla tua terra, dalla tua nazione, dalla casa di tuo padre”, Della Rocca passa il suo fitto setaccio analitico: “La progressività di questo abbandono non è logistica, geografica, logica, ma psicologica, progettuale, di distacco affettivo dall’humus, per andare verso la parte più nascosta e intima di sé. È rifiuto della staticità, della cristallizzazione incarnata dall’idolatria come personificazione di un concetto, come trasferimento del culto, della devozione e del rispetto dal contenuto al contenitore”. La parola di Dio è sempre creativa, plastica, pulsante e non ammette di essere mineralizzata, trasformata in un fossile da adorare, come accaduto con le Tavole della Legge, tanto da costringere Mosè a frantumarle. Proprio come Abramo rompe l’idolatria. Intuisce l’idea del monoteismo e assume una posizione anticonformista, rivoluzionaria, contrapponendosi alla società in cui è nato: totalitaria, auto-riferita, omologante, che aspira a crescere verticalmente, senza spazio per la diversità, l’interazione, la dialettica. Nell’esortazione di Dio – cammina, non indugiare, vai avanti – c’è l’essenza della legge ebraica: dinamica, mai scritta una volta per tutte. La vera legge sono, anzi, l’interpretazione, le glosse, i commenti del discepolo a ciò che ha scritto il maestro, senza alcune pretesa di dire la parola definitiva. Da qui, per il Talmud, partono i duemila anni di Torah. Studiarla equivale a far nascere una persona nuova, a plasmarla, e in questo senso Abramo e Sara sono i primi educatori della storia. Una ‘proto-pedagogia’, la loro, che insegna il monoteismo, l’unicità, l’irripetibilità non solo di Dio, ma di ogni persona.
Abramo è anche il protagonista, nella Bibbia, del primo, autentico dialogo (con Sara). Fino a quel momento si registrano solo scambi tra Dio e l’uomo oppure comunicazioni fallimentari, come quella tra Caino e Abele o come il tentativo naufragato di istituire la società di Babele. In altre parole, come l’incapacità di parlarsi può portare al fratricidio, all’ispessimento delle barriere e alla rovina di una comunità. “Al contrario, essere monoteista non significa elevarsi gerarchicamente, ma percepire la presenza di Dio nel volto dell’altro, confrontandosi con lui e riconoscendone la singolarità”.
L’ultima prova – la più dura – delle dieci sostenute da Abramo è quando Dio gli chiede di sacrificare suo figlio Isacco: “La grande intuizione rabbinica – ha evidenziato Della Rocca – è che il punto nodale non sta tanto nella salita al monte Moriah, dove sarà costruito il Tempio del Re Salomone, ma nella discesa, dopo che Dio ha rifiutato il sacrificio. Un angelo ordina ad Abramo di non stendere la sua mano sul ragazzo e aggiunge di non fargli proprio nulla: un’apparente ridondanza che al Talmud non sfugge e che potrebbe sottendere la rivendicazione, da parte del capostipite del popolo ebraico, del diritto di mostrare la propria obbedienza. Ma Dio gli risponde che vuole la vita, non la morte, perché è molto più difficile vivere per lui che inneggiare al sacrificio degli esseri viventi, come fanno gli idolatri”. Dopo aver toccato l’apice della spiritualità, Abramo deve, dunque, riprendere la sua esistenza quotidiana, cercando di mantenere lo stesso zelo ed entusiasmo religioso di quando era salito al monte. “Un messaggio ancora fortissimo per gli ebrei, che troppo spesso hanno conosciuto la condizione di essere immolati, eppure hanno sempre saputo tornare alla vita di tutti i giorni”.
Sull’attualità e l’anticonformismo di Abramo converge, poi, un’ulteriore lettura del Lech-Lecha: “Vai via per il tuo bene, anche se è un rischio. Non è facile lasciarsi alle spalle le proprie comfort zone, ma spesso sono solo gabbie dorate, isole felici che alimentano le illusioni e non ci consentono di sviluppare le nostre potenzialità. Ad esempio, quando gli ebrei escono dall’Egitto, dopo sette giorni arrivano al mare e si rendono conto di essere incalzati dagli egiziani. Chiedono allora a Mosè (e lui, di rimando, a Dio): “Ora cosa facciamo? Non era meglio morire in Egitto?”, dimenticando presto che là erano ridotti in schiavitù. A quel punto si fanno strada quattro possibili vie d’uscita: consegnarsi al nemico, suicidarsi, combattere o dialogare”. Quasi un’anticipazione di alcune pagine di storia ebraica, come quelle in cui gli Zeloti lottano per la libertà, opponendosi alla dominazione romana, o quelle del capitolo ‘Inquisizione’, con la conversione di tanti ebrei. “Dio dice di avanzare verso il mare, perché qualcosa succederà. Si materializza cioè la quinta possibilità: la dimensione dell’alto, dell’impossibile con cui, proprio per questo, misurarsi. Le acque si aprono perché Mosè ha avuto il coraggio di tuffarsi”. Una scelta che, come spesso accade nella Bibbia, viene presa nel deserto: “Il luogo del nulla, del silenzio, dell’assenza di sovrastrutture, dove la parola di Dio risuona più forte. Come se metaforicamente, per ascoltare la voce che viene da dentro, dovessimo fare un po’ deserto di noi stessi. Del resto – ha concluso Rav Della Rocca –, non è forse anche per questo che a Shabbat spegniamo il cellulare per 25 ore?”.
Daniela Modonesi
Foto Marco Caselli Nirmal