A Livorno

valentina di palmaAvrei scritto volentieri dell’inaugurazione del Museo della città a Livorno, evento cui ho partecipato (trovandovi con grande sorpresa almeno mezza Toscana) lunedì scorso dalle 17.30 presso gli ex bottini dell’olio nel quartiere della Venezia – una Venezia che, devo ammettere, mi ha piacevolmente colpito, per vivacità e veracità, molto più della sua celeberrima omonima che negli ultimi tempi ho trovato più decaduta che decadente.
Mi sarei forse soffermata sulla cura con cui è stato a ragione ritratto il rapporto tra la città e la sua minoranza ebraica, l’amore per una delle sinagoghe più belle d’Europa il cui fascino e la cui affezione perdurano nonostante siano passati quasi ottant’anni dalla sua distruzione – tanto che in diversi Batei HaKnesset nostrani capita di vedere litografie od immagini a stampa del tempio antico di Livorno.
O avrei narrato del bel dipinto della sinagoga dai colori vivaci di Ulvi Liegi, nome d’arte anagrammato del macchiaiolo labronico Moisè Luigi Levi amico di Fattori, Signorini e Soffici, e al pari dei suoi concittadini Amedeo Modigliani e Vittorio Corcos (di cui il Museo Ebraico di Firenze ospita un ritratto di Montefiore) giunto sulla scena artistica europea al momento giusto, dopo secoli di preclusione da una parte e di diversa sensibilità religiosa in senso iconoclasta dall’altra, nel momento in cui si affacciavano avanguardie e possibilità di sperimentazione per artisti nuovi.
E ancora, avrei descritto la riproduzione in scala di parte del Tempio, con l’organo e la bimà su cui viene voglia di affacciarsi e provare ad immaginare come potesse essere allora.
Ma.
Le fatiche di travagliare rendono polemici ed insofferenti, e sperando che lassù ciò venga comunque con mano misericordiosa compreso, avrei alcune domande.
Perché non perdonare il genere femminile, come in molti altri casi, almeno a secoli di distanza, se non altro perché sono state le donne a cercare di impedire la costruzione dell’Egel HaZahav, e forse meritava riponderare la decisione di farci partorire con grande sforzo? (Che poi diciamocelo, inutile discutere dell’errata vulgata che traduce e tramanda dolore piuttosto che il più pertinente labour, fatica: proprio di male si tratta).
Certo, la nostra prima progenitrice avrebbe potuto anche occuparsi dei casi suoi e non pensare al frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male: a ben vedere era libera di andare ovunque volesse e di fare qualsiasi cosa tranne quella che ha fatto…ma lei era anche nuova al mondo, il vostro rapporto fresco e da consolidare, magari avreste potuto riprovare da capo?
Però, grazie di averci concesso di dimenticare il dolore da una volta all’altra. E di questo dono che è unico, e solo nostro.
Certo, potessimo affrettare almeno alcuni tra i benefici dell’era messianica…

Sara Valentina Di Palma