Orizzonti – Dall’Est la voce del dissenso
Gli avvenimenti del Sessantotto, dei quali quest’anno si celebra l’anniversario con lo stanco passo dei reduci e poca inventiva interpretativa, videro l’Europa, ancora una volta spaccata in due. Ma, come nota giustamente lo storico Guido Crainz: «Nella storia d’Europa dei decenni successivi, il’68 non ci appare tanto rilevante per quel che avvenne a Parigi oppure a Torino, a Berlino, a Milano o a Trento, quanto per i traumi e i rivolgimenti che segnarono quell’area dell’Europa “sequestrata” dall’impero sovietico». In comune, in tutta Europa e anche negli Stati Uniti, i fatti di quell’anno ebbero una ventata di salutare libertà e di antiautoritarismo che incise soprattutto nel senso della vita e dei rapporti tra i sessi, nel modo di comportarsi e di stare assieme, nella musica, nel cinema e nel teatro, nell’arte. Protagonisti furono ovunque i giovani: «Si aveva l’impressione che l’Europa fosse piena di giovani», ha saltto lo storico Tony Judt. Soltanto che, come nota nel suo amaro saggio la storica sociale Anna Bravo, «non c’è pane senza libertà, diceva uno slogan degli studenti di Varsavia, mentre i loro coetanei francesi erano abituati a pensare piuttosto il contrario, Non c’è libertà senza pane». Le cose non stavano in realtà in modo così polarizzato: in Occidente le proteste studentesche si affiancarono subito a quelle operaie e nella parte orientale dell’Europa, sotto il dominio sovietico, il pane, che era pure un problema per ampie fasce di popolazione, divenne secondario rispetto alla repressione verso ogni istanza di rinnovamento. In Polonia, come racconta il giornalista Wlodek Goldkorn, che allora era un giovanissimo studente a Varsavia, le manifestazioni degli studenti, appoggiate da molti intellettuali, furono usate dal partito comunista come pretesto per un regolamento interno e un’indegna campagna antisemita che espulse dal Paese i migliori filosofi e sociologi (Kolakowski, Baczko, Bauman, Smolar e infine Pomian). Gli operai allora non si mossero, ma quando lo fecero, nel 197o, provocarono, seppur al costo di vite umane nelle manifestazioni a Danzica e Stettino, la caduta del segretario Gomulka. Questi fatti, come ciò che accadde in Cecoslovacchia, ebbero un’eco distorta in Jugoslavia, Paese che rispetto agli altri dell’Est godeva di una maggiore libertà. Anche qui i protagonisti furono i giovani. Come ricorda nel suo ricco e acuto saggio la psicoanalista saggista Nicole Janigro, nell’anno 1967-1968, con i suoi 211mila studenti, la Jugoslavia era il terzo Paese al mondo (dopo Stati Uniti e Urss) per numero di studenti universitari rispetto alla popolazione. Studenti impoveriti che guardavano al «vero socialismo» come a una risposta concreta ai loro bisogni e ai loro sogni ma, allo stesso tempo, delegittimavano il sistema creato da Tito e ponevano alcune premesse per il tragico risveglio nazionalistico che insanguinerà e disgregherà il Paese negli anni Novanta. La vicenda cecoslovacca, raccontata dallo storico dell’Università Europea di Firenze, Pavel Koláì, fu assai diversa: là il’68 fu l’epilogo drammatico di un processo di destalinizzazione, che coinvolse una parte del partito comunista al potere, iniziato nei primi anni Sessanta: «Fu un laboratorio dagli esiti incerti la cui repressione fu un colpo mortale al socialismo in generale». Ma proprio a Praga, in quegli anni, si liberò un’energia creativa (nella letteratura, nel cinema, nel teatro) caratterizzata da un’ironia corrosiva che meglio che altrove ha rappresentato lo spirito positivo del Sessantotto. I saggi del libro sono affiancati da un ricco e interessante apparato di documenti e testimonianze (si raccomandano in particolare i testi di Bauman, di Pelikan e Popov). II curatore Crainz si prende l’incarico, nella parte iniziale del libro, di mostrare in modo impietosamente documentato la cecità e la malafede di gran parte della Sinistra occidentale, e in particolare del Partito comunista italiano, verso quello che accadde in quell’anno nell’Est Europa. Come già era accaduto con i fatti ungheresi e polacchi del 1956, i dirigenti comunisti italiani (nonostante la voce critica di alcuni di essi e parecchi tra gli intellettuali di sinistra) si schierarono con l’Unione Sovietica e i partiti comunisti al potere. L’invasione della Cecoslovacchia e la repressione che ne seguì (per non parlare della campagna antisemita in Polonia) sarebbero stati l’occasione buona di un ripensamento critico e di una salutare rottura di una dipendenza che non aveva più ragione di esistere e che arriverà tardivamente, e con molte esitazioni, soltanto nel 1982 (dopo il colpo di Stato in Polonia) e più nettamente nel 1989 quando crollarono tutti i muri il Partito comunista italiano, usando nei confronti degli affari internazionali “due pesi e due misure”, non volle e non riuscì a far tesoro delle esperienze di dissenso che presero campo all’Est, e che guardavano al comunismo occidentale come a un possibile alleato. Furono alcuni intellettuali (nel caso della Cecoslovacchia si dovrebbero ricordare almeno Angelo Maria Ripellino, Gianlorenzo Pacini e Guido Neri che raccontarono con passione la verità su ciò che accadeva laggiù), e alcuni esponenti della nuova sinistra (come il gruppo che darà vita al «Manifesto» o a «Lotta Continua»), che compresero quanto i moti di contestazione, e le nascenti spinte di dissenso all’Est, fossero parte di uno stesso, necessario, movimento di giustizia e rinnovamento delle istituzioni.
Francesco M. Cataluccio, Il Sole 24 Ore Domenica, 27 maggio 2018