Società – Patria e nazione, uno sguardo sul complesso presente
Il nazionalismo, inteso come scoperta, rivendicazione e ideologia dello stato-nazione, ha rappresentato una delle più efficaci idee-forza della modernità, intervenuta a strutturare e per così dire a «formalizzare», l’idea di patria, decisamente più antica. L’omogeneità valoriale del vecchio ordine normativo – per quanto forse solo presunta – ne è uscita definitivamente infranta, sotto la pressione di quello che Max Weber (nell’immagine), sociologo fra i più significativi dell’epoca, ha chiamato il «politeismo dei valori». L’idea dello stato-nazione ha svolto una funzione potentemente progressiva ed ha contribuito alla elaborazione del concetto di cittadinanza, alla definizione della nuova sfera dei diritti politici e delle libertà civili. Su questa base il «principio di nazionalità», per usare l’espressione di Woodrow Wilson, ha costituito per tutto il «secolo breve» un criterio regolativo fondamentale, se non sempre rispettato almeno infinite volte citato. La stessa modernità, d’altro canto, ha reso infinitamente più difficile che in passato ignorare o reprimere le particolarità etniche, linguistiche e religiose: tutto il XX secolo è stato così attraversato da lotte durissime, stragi di massa e distruzioni indiscriminate in nome del riconoscimento, in termini di nazione, di entità culturali reciprocamente ostili. In alcuni casi il processo si è protratto molto a lungo: le guerre jugoslave del 1991-1999 costituiscono, di questa lacerazione, un esempio vicino e particolarmente drammatico. Nazione e patria, i due termini chiave di questi lunghi conflitti, sono tuttavia idee non coincidenti, tanto dal punto di vista dell’analisi sociologica e politica quanto rispetto alle dinamiche storiche che le hanno coinvolte. Esse implicano infatti – o piuttosto possono implicare – fedeltà molto diverse, nonostante il margine di particolarismo al quale entrambe inevitabilmente rinviano. Il nazionalismo afferma una appartenenza ascritta, una rappresentazione antagonista e gerarchizzante dell’altro, ed è tipicamente associato a ideologie di destra. Il patriottismo esprime piuttosto la fedeltà emotiva – volontaristica e non «oggettiva» – a culture, simboli e luoghi che non suppone necessariamente la pretesa di una supremazia: da questo punto di vista una lunga tradizione interpretativa ha inteso il patriottismo come elemento costitutivo di una cultura civica, non antagonista rispetto ai valori della democrazia, della partecipazione e della solidarietà (in qualche caso addirittura come condizione di tale cultura). Non si tratta quindi di chiedersi ancora, come faceva alcuni anni fa il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre, «se il patriottismo sia una virtù»: in questi termini il dilemma è indecidibile, e si tratta piuttosto di indagare concretamente, di questo oggetto complesso, le forme storiche, i protagonisti e i linguaggi. Un margine di particolarismo costituisce certamente una delle condizioni di equilibrio e di razionalità dell’agire, pubblico e privato [come ricordano i Pirqé Avoth: «se io non sono per me, chi è per me? Ma se io sono soltanto per me, chi sono io?»]. I problemi nascono precisamente quando le due idee sono fatte coincidere, quando il particolarismo prende il sopravvento e le valenze identitarie del patriottismo sono interpretate e agite attraverso le forme esclusiviste del nazionalismo primatista. Negli ultimi anni, d’altra parte, qualcosa di vagamente simile al vecchio nazionalismo sembra in qualche modo rientrato in scena, per quanto sia ovviamente assai più difficile che in passato, in un contesto di crescente e composito multiculturalismo, definire con precisione «cosa» sia nazione, e a maggior ragione anche «chi» sia nazione. In molti casi il nazionalismo tradizionale ha assunto una connotazione specificamente etnico-tradizionale e identitaria, anche se in versione ridotta. Così, al di sotto o al di dentro di quelle che sembravano vecchie e consolidate appartenenze, sono emerse o riemerse – in taluni casi con forza – identità dai confini più limitati, e proprio per questo più enfatizzati. Solo per limitarci all’Europa, Scozzesi e Fiamminghi, Gallesi e Bretoni, ma anche Corsi, Catalani e Baschi rivendicano la propria irriducibile specificità culturale, e premono per il conseguente necessario riconoscimento in quanto entità «nazionali». A conferma di quanto complesso sia il fenomeno e spesso fragile il criterio di riferimento, a queste entità non prive di una qualche legittimità culturale si sono associati per una stagione insiemi assai più labili e «patrie» ancora più piccole, come nel caso degli improbabili Padani di casa nostra. Queste patrie piccole esercitano a quanto sembra un fascino sottile, collocandosi spesso a metà strada fra irredentismi più o meno romantici e considerazioni del tutto prosaiche circa la convenienza economica della prospettata secessione. La riscoperta di tradizioni e simboli etnico- nazionalistici – talvolta completamente inventate – corrisponde probabilmente a una necessità di identificazione concreta e «vicina», a un bisogno continuamente frustrato di «comunità » e ad una esigenza di rassicurazione identitaria non più derivabile dalle grandi appartenenze del passato. Nello stesso tempo, però, non è un caso che il movimento centrifugo sia di solito innescato dalla frazione economicamente più forte, rassicurata anche dalle possibilità della globalizzazione, poiché disporre di un ampio mercato interno non è più necessario, nel modello della circolazione planetaria delle merci. La riscoperta dell’etnicità «irredenta» si congiunge spesso, in questo modo, con il calcolo economico circa la convenienza connessa con la possibilità di sganciarsi da partner in ritardo. Difficile, proprio a causa di questo rapporto economicamente squilibrato, immaginare che queste piccole patrie ritrovate possano rappresentare il modello di una nuova e migliore articolazione del rapporto fra locale e globale. La diffidenza comprensibilmente ispirata dal fascino ambiguo del revival etno-nazionalisticoidentitario non deve però indurre a indebite semplificazioni. Il pericolo, in altri termini, è quello di perdere di vista le specificità reali, e di analizzare con l’ideologia ed il metro delle patrie piccole situazioni completamente diverse, profondamente radicate nella cultura e nella storia, e dalla storia stessa conculcate e represse. Il mondo del XXI secolo è tuttora abitato da nazioni pienamente auto-identificate in termini culturali, linguistici, storici e religiosi, ma prive di riconoscimento internazionale. Il caso degli Armeni è stato almeno fino al 1991 uno di questi, e lo è ancora – in termini drammaticamente attuali – quello dei Curdi. Questi ultimi, divisi dagli accordi internazionali seguiti alla prima guerra mondiale in quattro stati diversi (Iraq, Iran, Siria e Turchia) costituiscono la più grande entità nazionale – di quasi trenta milioni di persone – priva di riconoscimento. Sottoposti a violenti progetti di sradicamento, volta a volta di turchizzazione (da Kemal Atatürk), di persianizzazione (da Reza Palhavi) e di arabizzazione (in Siria e in Iraq), colpiti da stragi e deportazioni di massa, rivendicano ostinatamente il loro diritto a vivere in piena libertà la propria identità culturale e storica. Le vicende di questi ultimi mesi, e non solo quelle drammatiche di Kobanê e Afrin, in cui i Curdi hanno contrastato quasi da soli la minaccia del Califfato, fanno temere il pericolo molto concreto di ulteriori ritorsioni militari. Da una parte. Dall’altra vi è il rischio altrettanto concreto di una cinica operazione collettiva di rimozione, che ancora una volta tenda ad occultare il problema. In entrambi i casi l’esito graverà non solo sui piani di guerra dei paesi coinvolti, ma anche sulla coscienza civile di quanti considerano il rispetto paritario e reciproco dell’identità un valore fondamentale.
Enzo Campelli, sociologo
Pagine Ebraiche, giugno 2018