Società – Memoria al bivio: la strada per raccontare la storia
“Storytelling. Le storie siamo noi”: è l’argomento prescelto per la prossima Giornata europea della cultura ebraica che si svolgerà il 14 ottobre (comunità capofila: Genova). È un tema per molti aspetti che esprime il nostro tempo. Un tempo carico di commemorazioni, di scelte di date simbolo che vanno a dare volto al “calendario civile” del tempo ora, ma che ha anche il problema di dare nuovi significati a ciò che ricorda. Soprattutto a ciò che sceglie di ricordare, che vuole ricordare. Perché la memoria non è mai ricordo, è ricostruzione attraverso il ricordo del senso del tempo che si vive. Da questo punto di vista non c’è la storia vera: c’è sempre un racconto che è la spia indiziaria di come in ogni tempo si ridà ordine, senso e significato al passato. Nel senso comune il percorso del racconto della storia è sempre un viaggio nel tempo dal passato verso il presente, un richiamo che fa dell’inizio il momento di partenza, il luogo generativo del racconto. Il tempo zero. Sicuramente c’è del vero, ma non trascurerei il processo inverso: ovvero quello che muove dal presente verso il passato, e che spesso va in cerca del passato. Non lo penso solo perché come diceva Benedetto Croce, la storia è sempre storia contemporanea, ma perché se il racconto della storia prevede una direzione narrativa di chi racconta, sulla base dell’esperienza e dunque della vita passata, è anche sempre più vero che oggi il racconto della storia vive per le domande di partenza da cui muove il proprio interesse a scavare nel passato. E le domande di partenza, gli stimoli sono nel nostro tempo, ora, nella quotidianità e partono dalle generazioni giovani. Agli occhi di un giovane di oggi la fisionomia specifica del proprio tempo si rispecchia su tre punti: una dimensione di storia immediata, in cui un evento in qualsiasi luogo avvenga diviene immediatamente storia pubblica e condivisibile. Essere nel mondo significa partecipare, provare un’emozione e dunque mettere in campo una reazione; la convinzione che la battaglia per il diritto sia parte essenziale di una questione di libertà; la percezione del rilievo che assumono le fratture generazionali. Questo non significa che il racconto della storia sia rovesciato, ma implica che una delle “mosse della ragione” per entrare nelle pieghe del passato, per saperne di più, coinvolge quali risposte trovare al tempo presente per definire un profilo di futuro. È una preoccupazione urgente perché oggi a me sembra che siamo collettivamente a un bivio della memoria. Aumentano le nostre conoscenze, le informazioni sul nostro passato e gli studi che lo ricostruiscono, eppure ci troviamo a vivere in un eterno presente, nel quale la consapevolezza di essere collocati in un tempo, tra un passato e un futuro, sembra smaterializzarsi progressivamente. Per questo dobbiamo riprendere il gusto della narrazione. Il racconto storico rischia di inaridirsi. Insegnare il nostro passato, trasmettere anche con passione lo studio della storia, ma di nuovo dove al centro stanno le domande dei senza storia. I quali, non solo i diseredati, ma quelli che per età si presume che non abbiano storia, perché non hanno passato, di chi per statuto è collocato nel profilo di chi la deve ricevere. In realtà sono proprio quelli che si presume abbiano solo da ascoltare, che sono gli attori principali del fare storia, oggi. La sfida del racconto della storia ci chiede allora di mettere in gioco non soltanto le competenze professionali proprie di chi svolge il “mestiere di storico”, ma anche il coinvolgimento attivo, emotivo, le inquietudini o le richieste esigenti di chi il racconto della storia finora l’ha solo ricevuto passivamente. Ci chiede, in poche parole, di andare oltre il libro di storia.
David Bidussa, Pagine Ebraiche, luglio 2018