Il ritorno degli Esseni
Gian Carlo Pajetta, quando Enrico Berlinguer passò ad occuparsi della questione morale, asserì che il PCI stava transitando dal materialismo storico al moralismo storico. Certo, convogliare un ragionamento serio in seno all’assonanza materialismo/moralismo, convertì un ragionamento in una battuta come tante altre. Non era, però, soltanto una questione d’involucro, perché quello strumento – il moralismo – ebbe un ruolo nella scomparsa di quasi tutti i partiti, indi divenne un punto di riferimento nel periodo berlusconiano, per poi sfociare in qualche retorica antiparlamentare non indispensabile. Più che un’arma, il moralismo è una scorciatoia che può consentire ad un partito di ottenere in pochi anni quel che richiederebbe dei secoli. Tutto ciò, con molto più successo degli Esseni, che si erano tanto impegnati nella distinzione fra Figli della Luce e Figli delle Tenebre, con la sola colpa di non aver fatto valere i loro diritti d’autore, perché ancora inesistenti. Se non fosse per la prescrizione, i loro presunti eredi avrebbero potuto incamerare delle royalties di tutto rispetto.
Resta vero che il moralismo come categoria a sé stante, dispensato a piene mani da chi ama mettere giudizio al prossimo, provoca gravi danni, laddove preclude la comprensione dei fenomeni; chi si limitasse a recriminare l’altrui cattiveria finirebbe per rinunciare a qualsiasi ragionamento.
È da domandarsi se sia un caso che Erich Fromm (Fuga dalla libertà, Milano, 1976, p. 87) inserisca la predeterminazione, di origini essene, nel suo più articolato discorso sui dilemmi della modernità. Questo spartiacque, totalmente artificioso e manicheo, fra virtuosi e villani, finisce per far passare in secondo piano l’asse portante della nostra attualità: la crisi dell’Occidente, profetizzata da Oswald Spengler (Il tramonto dell’Occidente, Milano 1978), il cui ricordo oggi giorno non è certo incoraggiante.
Ai nostri fini, però, rimane centrale l’insegnamento di Fromm, sull’impotenza dell’uomo e sulla frustrazione, laddove vengano meno i caposaldi della sua esistenza che, nel caso dell’Italia, sono costituiti dal mutamento radicale dell’economia, travolta dalla rivoluzione digitale e dallo spostamento in Asia di alcuni rilevanti settori del lavoro. Fenomeni complessi per tutti noi, ma la loro complessità nulla toglie al dramma che comportano per il corpo sociale. In tale contesto, desta perplessità chi si limita ad inveire contro la vittima, anziché capirne il dramma sia per empatia, sia per prevenirne le ormai palesi derive patologiche. Intendiamoci, tutto ciò avrebbe una sua dignità se i moralisti in questione avessero la pancia vuota: ma non sembrerebbe essere questo il caso.
Emanuele Calò, giurista
(17 luglio 2018)