Sette giri intorno al mondo

sukkot-luzzatiParafrasando il Talmud si potrebbe affermare che chi non ha assistito a Hosha’anà Rabbà a Roma non ha mai visto Hosha’anà Rabbà in vita sua. Che cos’è Hosha’anà Rabbà? Nelle parole di un rabbino piemontese del primo Ottocento, “l’ultimo delle mezze feste delle Capanne vien detto Hosha’anà Rabbà, voce ebraica che indica salvezza grande, essendo questo giorno distinto per le numerose preghiere che si fanno a Dio specialmente per le piogge dell’anno nei tempi opportuni a vantaggio delle campagne, e s’implora altresì la divina clemenza pel perdono de’ peccati ed accettazione della penitenza messa di già in pratica dal Capo d’Anno sino a questo giorno. Si usa pure in esso giorno da ogni Israelita entrare nel Tempio non solo colla Palma, Cedro e Mirto in mano, come ne’ precedenti giorni, ma con alcuni rami di Salice annodati assieme, che sul fine di tutte le orazioni si batte con essi sul terreno cinque volte, e se ne strappano da essi le foglie, volendo con ciò concedere al desiderio che si ha di sterminare il vizio, abbattere le passioni, sciogliere la nociva unione de’ peccati. E si scelgono per la cerimonia i rami di Salice che secondo i dotti Rabbini sono il vero simbolo del peccato e della umana fragilità, atta a piegarsi al vizio ed a ciò che è più dannoso che utile”.
L’uso romano di affollare il Bet ha-Kenesset particolarmente le mattine di Rosh Chodesh Elul e di Hosha’anà Rabbà è con ogni verosimiglianza un antichissimo Minhag di Eretz Israel. Nel Talmud Yerushalmì Rosh ha-Shanah 4,8 è riportata un’interpretazione midrashica del versetto: “E Me giorno dopo giorno ricercano” (Yesha’yahu 58,2) a nome di R. Yonah, fra i capi della Yeshivah di Tiberiade nel IV sec. (Ta’anit 23b ). La reduplicazione della parola “giorno” nel versetto, dice R. Yonah, allude a due giornate speciali dell’anno in cui la ricerca di H. è particolarmente sentita: yom teqi’ah, “il giorno in cui si suona lo Shofar” e yom ‘aravah, “il giorno in cui si prendono in mano i salici”. “In essi – spiegano i commentatori – tutti vanno a ricercare il S.B. nel Bet ha-Kenesset, dal più grande al più piccolo: sono il giorno di Rosh ha-Shanah e Hosha’anà Rabbà, nei quali tutti quanti rispettivamente ascoltano il suono dello shofar e tutti prendono in mano i salici” (Qorban ha-‘Edah, Penè Mosheh). È probabile che il riferimento di yom teqi’ah a Rosh ha-Shanah sia stato sentito a un certo punto come ovvio e sia stato reinterpretato come richiamo a Rosh Chodesh Elul, una volta introdotto l’uso di cominciare a suonare lo Shofar in questa occasione. Hosha’anà Rabbà segna dunque la fine del periodo di 51 giorni di Teshuvah, pari al valore numerico della parola “na” (per favore!), iniziatosi con Rosh Chodesh Elul.
Roma non è la sola Comunità che io abbia visitato la mattina di Hosha’anà Rabbà. Negli anni mi è capitato di trovarmi in questa occasione in realtà differenti. Nel 1990 mi recai alla Shearith Israel, la Sinagoga degli Ebrei spagnoli e portoghesi presenti a New York fin dal 1654. I sette giri con i salici e i Sifrè Torah, che rappresentano l’altro momento fondamentale della Tefìllah, erano eseguiti con grande ordine e ciascuno intervallati dal suono di lunghi Shofarot scuri dal timbro estremamente grave. Terminata questa funzione mi recai con il mio Lulav a Williamsburg a vedere quella dei Chassidim di Satmar. I Chassidim hanno l’abitudine di protrarre l’orario della Tefìllah e sapevo che li avrei trovati ancora intenti a pregare. Entrai nel principale Bet Midrash e potei osservare centinaia di uomini, tutti rigorosamente avvolti nei loro Tallitot candidi con il Lulav in mano agitarsi ritmicamente come un sol uomo, uno accanto all’altro. Sembravano davvero una legione armata! Vent’anni dopo mi trovai invece a Venezia. La Tefillah di Hosha’anà Rabbà si svolgeva qui nell’atmosfera unica della Scola Canton. Il lungo rito sefardita seguito in questa Comunità prevede che i sette giri siano intervallati da Selichot, recitate dal Chazan con le risposte del pubblico. La melodia adottata per la frase “H. melekh, H. malakh, H. yimlokh le’olam wa-‘ed” (H. regna, H. ha regnato, H. regnerà in eterno) che si ripete al termine di ogni giro mi è rimasta impressa: ricorda il movimento ondulatorio della gondola e -mi dicono- è uno dei leit-motiv musicali del rito veneziano.
Ma quello che più ha lasciato traccia nel mio cuore è stato Hosha’anà Rabbà del 1987: cadeva di mercoledì. Ero giovane rabbino a Bologna e non sarei riuscito a trovare Minian per quattro mattine festive di seguito fino allo Shabbat compreso. Martedì sera andai a colpo sicuro: telefonai al compianto Rav Lattes di Modena. Gli chiesi semplicemente a che ora l’indomani mattina si sarebbe svolta la funzione. “Alle sei -mi rispose – perché poi i ragazzi devono andare a scuola”. Alle sei meno due minuti varcavo il portone del Bet ha-Kenesset di Modena. Dodici uomini erano già al proprio posto per la Tefillah! Non posso tralasciare che accanto al rabbino Lattes si stagliava l’alta statura (in tutti i sensi) del presidente della Comunità di Modena, il dottor Massimiliano Eckert z.l. con i Tefillin sul capo, secondo l’uso seguito dagli ashkenaziti nella mezza festa. Ebraismo italiano d’altri tempi. Che per il merito di questi tzaddiqim il S.B. ci accordi chatimah tovah.

Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche Settembre 2018