Machshevet Israel – La riscoperta di Filone e il culto divino fine a se stesso

GiulianiDa qualche anno si è tornati a leggere Filone Alessandrino, grazie anche a dei convegni internazionali si che focalizzano di volta in volta su opere filoniane diverse. L’anno scorso il De Vita Mosis (curioso che i suoi titoli siano citati in latino, ma tra gli studiosi così si usa) venne pubblicato dall’editore Guaraldi in tre lingue: nell’originale greco, in italiano e in ebraico. Il progetto di tradurre tutto Filone in ebraico risale a Ben Gurion, che riteneva dovesse far parte dei classici della cultura dello Stato di Israele, ed è ancora in corso. Filone detto “l’ebreo” visse a cavaliere tra l’èra delle zugot e quella dei tannaim, nella città in cui per un certo periodo aveva insegnato anche Avtalion, quell’Alessandria d’Egitto che fu culla di una combattiva comunità ebraica profondamente ellenizzata e luogo di nascita della prima traduzione in greco della Torà, conosciuta come la Settanta, che secondo la Lettera di Aristea gli ebrei dell’epoca consideravano divinamente ispirata. Il testo studiato quest’anno è il De Abrahamo, la vita di Avraham avinu (pubblicata sempre da Guaraldi in greco, italiano e inglese). Filone ha scritto commenti anche alle vite di Isacco e Giacobbe, ma sono andati perduti. Il suo approccio è questo: prima dà la spiegazione letterale e poi ne offre una allegorica. Come filosofo, riteneva che l’interpretazione più significativa fosse la seconda.
Obiezione: Filone non è mai citato dalla pur lunga e variegata tradizione rabbinica e il primo a ricordarsi di lui fu il rinascimentale Azaria de’ Rossi, a sua volta in odore di eresia. In altre parole, sembra un autore al bando, fuori appunto dal giudaismo rabbinico. Come si spiega? Con almeno due ragioni: prima, Filone cita e lavora sulla Torà in greco (la Settanta) e non sul testo ebraico; seconda ragione, il suo allegorismo – che mirava a quel senso universale assai amato dal pensiero greco – fu sfruttato dai Padri della chiesa, dal II al V secolo dell’èra volgare, per costruire l’impianto teologico del cristianesimo. Ragioni sufficienti per metterlo ai margini del rabbinismo, che pure adopera in forma moderata l’interpretazione allegorica (il midrash e la qabbalà ne fanno ampio uso) ma senza mai schiacciare lo peshat, il senso letterale del testo. Oggi che tutto ciò è chiaro e soppesato, siamo liberi di rivalutare Filone. Inoltre, è stimolante vedere quanto pensiero squistamente rabbinico, per lo più ignorato, vi sia nelle sue opere. Un esempio è l’idea di Torà lishmà, del culto divino come fine in se stesso e non mezzo per altri fini (idea che ritroviamo nei Pirqé Avot I,3 sulle labbra di un maestro con un nome greco, Antigono di Sokhò).
Parlando dei tre viandanti o angeli accolti da Avraham all’indomani della sua circonsizione (§ 119-132), Filone – che pure è un monoteista convinto – allegorizza sia su una potenziale triade divina (molto platonica, e che facilitò la formulazione del dogma cristiano, inaccettabile per il giudaismo) sia su tre categorie di caratteri umani: al top quelli che ‘servono Dio’ per amore e basta, poi quelli che lo servono per eventuali benefici che ne possono trarre, e al livello più basso quelli che semplicemente lo servono per paura delle punizioni. E ipotizza questo responso divino: “Il primo premio sarà per coloro che Mi rendono culto per Me stesso; il secondo per quelli che lo fanno per se stessi: o perché sperano di ottenere dei beni o perché si aspettano che sia loro rimesso un castigo. In effetti, per quanto il loro culto abbia di mira una ricompensa e non sia disinteressato, si muove tuttavia entro l’ambito divino e non se ne strania. (…) Perché Io accolgo anche colui che vuol godere del Mio potere benefico, per ottenere i miei favori, e colui che, per timore, cerca di stornare la punizione”. Anche Yeshayahu Leibowitz, ultimo di una lunga schiera di pensatori che hanno esaltato il valore della Torà lishmà, non potrebbe dissentire o non vedere la profonda radice rabbinica di quest’approccio al sacro: mentre pone in cima lo standard dell’amore fine a se stesso, non ripudia né condanna altri motivi meno perfetti, più compromessi con la corruttibile natura umana.
La chiusura del commento di Filone ribadisce la qualità monoteista dell’esperienza di Avraham: “Che la triplice visione sia in realtà la visione di un unico oggetto emerge chiaramente non solo dall’esame allegorico ma anche dalla lettera del testo, dove se ne parla: quando il saggio [Avraham avinu] prega caldamente i tre che hanno parvenza di viandanti di accettare la sua ospitalità, si rivolge a loro non come a tre persone ma come a una sola e dice: ‘Signore, se ho trovato grazia presso di te, non passare oltre al tuo servo’ [Bereshit/Gn 18,3]. Tali espressioni sono rivolte a uno, non a più d’uno. E quando essi accettano la sua offerta… ancora una vota è uno solo, quasi fosse il solo presente, a promettere la nascita di un figlio legittimo con queste parole: ‘L’anno prossimo, in quest’epoca, ritornerò da te e Sara, tua moglie, avrà un figlio’[Bereshit/Gn 18,10]”. Esegesi allegorica sì, ma dentro i confini del monoteismo mosaico-rabbinico.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI