Letteratura – Anna Maria e Primo Levi, fratelli resistenti
Il 22 giugno 1941 era una domenica. Fra i quattro ragazzi saliti a Piossasco per una gita in collina ignoriamo l’identità di quello a sinistra ma conosciamo gli altri tre, che vengono tutti da Torino. La ragazza sulla destra si chiama Bianca Guidetti Serra, al centro ci sono i fratelli Anna Maria e Primo Levi, vent’anni lei e ventidue lui, che appena dieci giorni fasi è laureato in Chimica ricevendo un diploma che specifica «di razza ebraica». Nessuno di quei quattro ragazzi sorridenti sa ancora che il Führer ha scelto proprio questa domenica per lanciare l’attacco alla Russia di Stalin che per la Germania nazista sarà il principio della rovina. Se il ragazzo senza nome è equipaggiato con corde da alpinismo, solo poi gli altri tre scopriranno che «andare in montagna» è sinonimo di «fare la Resistenza»: nell’Italia del 1941 il nome e la cosa non esistono. Così mingherlina, Anna Maria è estroversa e coraggiosa La sua storia la si conosce solo per frammenti, cui qui abbiamo provato a dare corpo. Nella Resistenza sarà impegnata soprattutto a Torino, come staffetta e portatrice di stampa clandestina del Partito d’Azione, «Il partigiano alpino» e «L’Italia libera». Una volta, a Borgofranco d’Ivrea, con la borsa piena di giornali affronta tranquilla un posto di blocco; a occhio quei soldati non le sembrano troppo intelligenti; lei gli racconta che tutta quella carta arrotolata è per il negozio di sua zia. I giornali arrivano a destinazione, e non sarà l’unica sua consegna di carta significativa. Tra le compagne di Anna Maria Levi ci sono sua cugina Ada Della Torre, una seconda Ada che è la vedova di Piero Gobetti, e Bianca. Anna Maria è entrata nella Resistenza dopo che il suo fidanzato Franco Tedeschi e Primo sono stati catturati e deportati. Franco non tornerà da Mauthausen, mentre una notte del luglio 1944 la cugina Ada sogna il cugino Primo: «Aveva addosso una specie di pigiama e in testa un goffo berrettino. Chiacchieravamo amichevolmente». È uno strano sogno, la mattina dopo Ada non arriva a farlo riaffiorare. Ci riesce solo quando in casa di Bianca le consegnano una cartolina spedita da Auschwitz un mese prima. Firma la cartolina un tale Lorenzo Perrone, un muratore: scrive che Primo sta bene, lavora ed è «un po’ dimagrito». Ci sono sogni che si corrispondono, ma alla rovescia. Nel Lager di Auschwitz, Primo sogna spesso il proprio ritorno, sempre allo stesso modo: è di nuovo a casa, ci sono gli amici e i parenti, lui comincia a raccontare ma tutti si distraggono, nessuno ascolta. «Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola». Questo sogno è tra gli episodi più famosi di Se questo è un uomo. Le gite in collina fatte da ragazzi, con il posto e il giorno segnati a penna; la storia che fa le sue giravolte mentre le persone vivono ignare; ragazze e ragazzi che devono imparare a combattere nei modi più diversi, e qualcuno muore; un sogno e un incubo che chissà come s’incrociano. L’anno prossimo, 2019, ricorre il centenario della nascita di Primo Levi. Fra l’una e l’altra delle storie qui abbozzate balena il profilo di quello che egli stesso ha definito il suo libro «primogenito», Se questo è un uomo, la cui prima edizione esce nell’ottobre 1947 da De Silva, un piccolo editore torinese. Era giusto dedicare un’intera mostra alla comparsa di un’opera destinata a segnare – retroattivamente – la propria epoca: ai sentieri imboccati da questo «animale nomade» (altra definizione d’autore). E ne emerge, in pieno, il ruolo decisivo di Anna Maria Levi per il destino del libro. Fu proprio lei, già segretaria del Partito d’Azione nel Comitato di liberazione nazionale per il Piemonte, a consegnare il manoscritto (già rifiutato da alcuni editori) allo storico Alessandro Galante Garrone, che a sua volta lo passò all’ex presidente del Cln Franco Antonicelli, fondatore della casa editrice De Silva. Antonicelli pubblicò il libro di Levi. Lavorava con lui un altro ex partigiano del Pd’A, Renzo Zorzi. Fu l’uno o l’altro a scegliere il titolo Se questo è un uomo. Poco più tardi Anna Maria entrò in contatto con Adriano Olivetti e gli presentò Zorzi. Olivetti aveva appena fondato il suo Movimento Comunità, un partito politico di matrice cristiana e ispirazione repubblicana, laica, federalista. Olivetti aprì a Torino, in Borgo San Paolo, un Centro Sociale, incaricando Anna Maria e Zorzi di condurlo: c’erano da porre le basi per un lavoro concreto sul territorio. Zorzi aveva allestito una biblioteca ed era Anna Maria a gestirla. Quella prima biblioteca è certo all’origine delle vicende – sconosciute fino a questo momento – della copia di Se questo è un uomo la cui sovraccoperta è qui riprodotta: appena ritrovata: proviene dalla biblioteca dell’Istituto Italiano dei Centri Comunitari, che aveva sede a Roma in via di Porta Pinciana 6. Il libro fu catalogato il 26 febbraio 1954 con il numero 1381. Fondato a Roma nel 1950,1’Istituto faceva capo alle iniziative politiche, sociali e imprenditoriali di Olivetti. Erano gli anni della ricostruzione, e Se questo un uomo era un’opera di ricostruzione. «Si trattava», spiega Olivetti, «di portare gradatamente in tutti i piccoli villaggi – cioè nell’intera Comunità – il piano di assistenza sodale, culturale, educativa, ricreativa, quale si trova nelle nazioni più progredite». Le biblioteche erano il fondamento dell’intero lavoro. Nel 1953 Anna Maria Levi si trasferì da Torino a Roma. Olivetti le aveva chiesto di curare, con Paolo Volponi, la rivista «Centro Sociale», organo del Cepas, Centro di educazione professionale per assistenti sociali. Le attività del Cepas, così come quelle dell’Istituto Centri Comunitari, prosperarono nel corso degli anni cinquanta, fino alla sconfitta del Movimento Comunità alle elezioni del 1958, seguita poco più tardi (27 febbraio 1960) dalla morte improvvisa di Adriano. La biblioteca dell’Istituto andò dispersa: e oggi la copia, con i suoi timbri e talloncini del 1954, è esposta nella mostra dedicata al libro «primogenito». Oggi, è significativo sapere che in via di Porta Pinciana 6 ha sede un’altra biblioteca in sintonia con quella di Olivetti: la Biblioteca della Svimez, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. Più significativo ancora trovare incastonate, nel selciato davanti a quel portone che era il loro portone di casa, le «pietre d’inciampo» in memoria di Ida Luzzatti e di Elena Segre, madre e figlia, catturate dai nazisti nella razzia del 16 ottobre 1943.
Domenico Scarpa, Il Sole 24 Ore Domenica, 18 novembre 2018