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    5 dicembre 2008 - 8 Chislev 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  RobertoDellarocca Roberto
Della Rocca,

rabbino
Inizia questa sera, con l’entrata dello Shabbat, il Mokèd autunnale 5769 che durerà fino a lunedì 8 dicembre. Siamo a Parma dove ci incontreremo con i pochi ebrei rimasti della locale Comunità e dei dintorni con i quali domattina faremo la Tefillà e la lettura del Sefer Torà nel Bet Ha-Keneset di Vicolo Cervi. Più si riducono i numeri del nostro ebraismo più abbiamo bisogno di trovarci e mantenere vivi i contatti. Per questo il DEC organizza i suoi Mokèd in Comunità piccole e decentrate, dove porta ebrei da ogni altra Comunità a vivere insieme vita e cultura ebraica, e si fa Shabbàt con chi non ne ha mai la possibilità.  
La miseria è più facie da sopportare del desiderio di scacciarla. Vittorio Dan Segre,
pensionato
DanSegre  
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  DellaRocca_tempioParma L’ebraismo italiano s'incontra a Parma

Sarà la riapertura della Sinagoga di Parma a suggellare, sabato mattina, la nuova edizione del Moked, l’ormai tradizionale incontro dell’ebraismo italiano, dedicato quest’anno ai 60 anni dello Stato d’Israele, in corso nella cittadina emiliana. La Tefillà del mattino, la lettura del Sefer Torah e poi il kiddush. Per qualche ora, grazie alla partecipazione degli iscritti al Moked, la piccolissima Comunità parmense - meno di cinquanta persone - rivivrà così attimi d’intensa vita ebraica.
Non a caso, d’altronde, il Moked - organizzato dal Dipartimento educazione e cultura (Dec) dell’Ucei - fin dagli esordi privilegia come sede le piccole Comunità. “Queste occasioni -spiega infatti il direttore del Dec rav Roberto Della Rocca - hanno un duplice obiettivo. All’approfondimento di tematiche culturali di particolare rilevanza si accompagna infatti un forte impegno di socializzazione”. “L’ebraismo italiano - prosegue - è fortemente penalizzato dalle distanze geografiche che rendono molto difficili gli incontri e gli scambi tra gli iscritti alle diverse Comunità. Eventi come il Moked sono dunque una scommessa di relazione”.
E accanto alla socialità, la cultura. Al centro dell’edizione in corso, che si conclude lunedì, i 60 anni d’Israele e il sionismo. “Vi sono due argomenti - dice rav Della Rocca - che oggi nell’ebraismo sono trattati con grande retorica ed emotività: il sionismo e la Shoah. Intorno a queste due tematiche, in realtà molto poco elaborate e conosciute si sono costruiti simbolismi e una sorta di religione”.
Uno degli obiettivi del Moked è invece proprio quello di ragionare e discutere. Per questo fino a lunedì a Parma intellettuali, studiosi e storici si confronteranno su contenuti e prospettive del sionismo, analizzandone i tantissimi risvolti culturali, religiosi e filosofici. “La speranza - dice rav Della Rocca - è di riuscire ad andare oltre le semplificazioni, le etichette preconfezionate e le sterili contrapposizioni restituendo invece alla sua complessità un tema di stringente attualità”.

Daniela Gross
 
 
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Dov'è la Palestina? Per meglio dire, a che punto è il giorno (o la notte, per parafrasare il titolo di un famoso romanzo di due celebri scrittori torinesi, Carlo Fruttero e Franco Lucentini) dei Territori palestinesi? Sommersi dalle vicende indiane, sulle quali si sofferma diffusamente Gigi Riva per L'Espresso (ricostruendoci il quadro, sempre in movimento, dell'arcipelago terroristico), e dalla ridondante quotidianità di tante altre storie che affollano il sommario dei quotidiani, ci dimentichiamo troppo spesso di quello che accade in luoghi a noi piuttosto vicini. I casi di Gaza e della Cisgiordania, oramai due "Palestine" a due distinte velocità politiche, economiche e culturali, è emblematico. Ce lo ricorda, con un articolo duro e informato, Paola Caridi che su L'Espresso fa un po' il punto della situazione. Assai poco promettente, ad essere sinceri. Poiché, come lei stessa scrive, il «timore di una resa dei conti è costante». La frattura tra Hamas e Fatah è irricomponibile. Questa divisione in casa non solo sanziona la frattura in due dei Territori palestinesi - con quella striscia di terra egiziana, Gaza, divenuta nel frattempo Hamastand (una sorta di buco nero dove vivono poco meno di due milioni di persone) e la Cisgiordania, ancora governata da quello che resta della fragile Autorità nazionale palestinese - ma la prospettiva, molto prossima, di una guerra civile degli uni contro gli altri. Amira Hass, giornalista israeliana di opposizione, intervista da Francesca Marretta per Liberazione dà conto, a modo suo, dello stato delle cose, parlando di «bomba a orologeria». Chi, perché e come inizierà è del tutto secondario. Le premesse di una lacerante contrapposizione armata ci sono tutte, a partire dalla popolazione, in ostaggio delle due fazioni contrapposte. Il 9 gennaio 2009 scadrà il mandato presidenziale di Abu Mazen, un leader con scarso seguito, considerato a Gaza poco più che un usurpatore. La tentazione dei suoi sostenitori, gli uomini di Fatah, è di abbinare alla nuova tornata elettorale per la carica di Presidente quella, nel qual caso anticipata, per un nuovo Parlamento, cercando di tagliare di netto la strada ad Hamas. Quest’ultima è ben lontana dal volersi far estromettere dalla gestione politica (e militare) della crisi palestinese. Dal contrasto, e dalle scintille che ha già generato in questi ultimi due anni (dopo che nel 2006 gli uomini dell'Olp furono sconfitti alle urne), potrebbe ingenerarsi il casus belli per un conflitto totale tra le due componenti. Il perché di tutto ciò è presto detto: la politica palestinese è un formidabile modello di gestione bancarottiera e fallimentare della cosa pubblica. Alla faccia degli enfatici proclami e delle pubbliche declamazioni la corruzione in Cisgiordania  - non troppo diversamente da quanto capita in tante altre parti del Medio Oriente - è fatto diffusissimo. Peraltro, il controllo feudale del territorio da parte delle grandi famiglie, che data all'esperienza della Palestina ottomana, è ben lungi dall'essersi esaurito. Ancorché dalla maggioranza dei commentatori omesso o dimenticato, il senso e la ragione del conflitto israelo-palestinese sta, ora più che mai, nelle spaccature che attraversano il mondo palestinese. Incapace, quest'ultimo, di "volare con le proprie ali", ossia di liberarsi da ataviche dipendenze, a partire da quelle del notabiliato locale. Hamas, contrapponendosi alla deriva del gruppo di potere fatto dagli uomini che furono sostenitori di Arafat ed ora di Mazen, nel nome e per mezzo di una intensa campagna moralizzatrice ha capitalizzato le sue fortune, espellendoli da Gaza. Che è divenuta il suo feudo, come su il Corriere della Sera racconta Francesco Battistini, dove chi non fa atto di subordinazione ai suoi uffici non può neanche andare in pellegrinaggio alla Mecca. Ora la tentazione che Hamas nutre è quella di fare il grande salto anche a Ramallah. La partita è aperta, con il rischio, come si diceva, di una guerra civile tra le diverse fazioni, divise su tutto fuorché sul modo di risolvere i contenziosi, ossia ricorrendo alle armi. Si inseriscono in tale quadro i ripetuti tentativi, succedutisi anche nei giorni scorsi, di forzare il blocco imposto dalla marina militare israeliana agli accessi alle acque di Gaza. Ne dà conto Umberto De Giovannangeli su L'Unità, articolo nel quale si enfatizza molto l'aspetto umanitario (qualcosa del tipo "food against hunger") di contro alla campagna propagandistica che si accompagna alle mosse della "fratellanza araba" nei confronti dei palestinesi.
Tuttavia che i Territori palestinesi non siano solo terra di desolazione lo dimostrano i ripetuti investimenti che da tempo non pochi imprenditori vanno facendo. Se già a dicembre dell'anno scorso Abu Mazen aveva raccolto a vario titolo ben 7,7 miliardi di dollari in donazioni e contribuiti ora il Mondo, per la penna di Chiara Brusini, ci racconta di chi e di come interviene in Cisgiordania contribuendo al suo futuro economico.
In questo problematico (e angusto) orizzonte si inserisce il futuro viaggio di Benedetto XVI in quella che per i cattolici è la «Terra santa». Ce ne dà conto Ignazio Ingrao su Panorama quando ci parla dello stato delle cose e dell'azione, discreta ma continuativa, della diplomazia vaticana. I nodi da sciogliere sono molti, primo tra tutti lo status del pontefice: andrà nei luoghi cari anche al cristianesimo come leader spirituale o soprattutto come capo di Stato? Poiché se nel primo caso non sarà obbligato ad incontrare tutti i capi politici (anche quelli di Hamas, in tutta probabilità), nel secondo, invece, dovrà far buon viso a cattiva sorte, stringendo molte se non troppe mani. Ma se nell'eventualità di una sua visita come massimo esponente del cattolicesimo non potrà confidare in troppe risposte alle pressanti domande presenti nell' agenda vaticana, come massimo esponente della Santa Sede potrebbe invece ottenere qualche risultato in più, sia pure a costo di esporsi rispetto al conflitto in corso.
Che i problemi non stiano solo in casa altrui lo testimoniano le vicende dello sgombero della "Casa della pace" ad Hebron, un vero e proprio centro sociale autogestito istituto illegalmente da 250 coloni ebrei, da alcune settimane a questa parte. Così, tra le altre testate, La Repubblica e La Stampa, dove si narra del cruento intervento dell'esercito israeliano, obbligato - come già era successo nel passato - a ricorrere ad energiche vie di fatto. Tra blocchi stradali, istituiti da esponenti dell'ultradestra nazionalista, e un pesante clima da sommossa popolare i militari, mandati dal ministro Barak a dare esecuzione alla sentenza della Corte suprema che imponeva lo sgombero forzato, hanno dovuto fare fronte alla violenta opposizione degli occupanti che li hanno aggrediti fisicamente e apostrofati come "nazisti". Così ancora Eric Salerno su il Messaggero dove sotto un inutile titolo sensazionalistico e fuorviante («Piano per bombardare l'Iran senza l'appoggio Usa»), basato su voci non comprovate e sull’accredito di indiscrezioni, si dà poi soprattutto ampio conto della piccola intifada dei coloni. In realtà la presenza di piccole ma pericolose sacche di estremisti tra gli insediamenti ebraici in Cisgiordania è stato assunto come un rilevante problema da tutte le leadership israeliane, succedutesi dalla morte di Rabin in poi. Non si è in presenza di un'ampia organizzazione bensì di microstrutture animate da numeri ristretti di aderenti, ai quali però si accompagna un più largo di milieu di simpatizzanti. L'obiettivo dichiarato è quello non tanto di acquisire allo Stato d'Israele i Territori palestinesi, opzione che implicherebbe una scelta politica che Gerusalemme non intende in alcun modo esercitare, bensì di "ebraicizzarli", ovvero di stabilire una giurisdizione indipendente, anche contro la volontà d'Israele. L'intento secessionista è chiaro ed è il medesimo che ha armato la mano infelice dell'assassino del Primo ministro tredici anni fa. Ma Israele potrebbe conoscere una "nouvelle vague" politica grazie ad Barack Obama, al cui fascino, ci dice Europa, anche un uomo come Benyamin "Bibi" Netanyahu o un partito come lo Shas parrebbero intendere cedere. Quel «yes, we can!» ha tuttavia molto del sapore di una campagna mediatica. Insomma, più involucro che contenuto, anche se la politica si sta trasformando sempre di più in un contenitore di immagini e parole.
Da ultime, le questioni di casa nostra, dove non si spengono le polemiche sulla proposta della Lega di giungere ad una moratoria nella costruzione di nuove moschee. Orazio La Rocca su La Repubblica fa un resoconto dal punto di vista della Conferenza episcopale italiana, per bocca di monsignor Gianfranco Ravasi, dove alla piena disponibilità nel riconoscere la libertà di culto si accompagna quella di regolamentarlo sotto l'egida dello Stato. Così anche Epolis e il Foglio. Ma se la prima testata offre ai suoi lettori un resoconto descrittivo, il giornale diretto da Giuliano Ferrara esprime invece, per la firma di Carlo Panella, una netta presa di posizione a favore delle affermazioni del Carroccio. Si tratta, secondo Panella, di un giudizio condivisibile, soprattutto laddove si evidenzia il fatto che le moschee sono solo in parte luoghi di culto (ma qual è il tempio in cui non si faccia anche dell’altro oltre a pregare?), rispondendo invece a criteri organizzativi e rappresentativi di ordine politico. A tutto ciò sembra volere rispondere l’ex ministro e attuale segretario del Partito della rifondazione comunista Paolo Ferrero su La Stampa, soffermandosi sul fatto che il divieto potrebbe innescare un pericoloso processo di occultamento di un mondo, quello dei religiosi musulmani, la cui pericolosità sociale è direttamente proporzionale alla sua invisibilità. Ferrero sostiene che il far emergere alla luce del sole culti e pratiche è l’antidoto a qualsiasi deriva barbarica. In altre parole: poiché sono tra di noi è bene che siano integrati con noi. Posizione più che condivisibile, in linea di principio, se non fosse per il fatto che quando parliamo di un certo Islam, tanto più quello radicale, ci scontriamo con un universo di idee e atteggiamenti dove nessun elemento di laicità si è mai completamente compiuto.
Più in generale, su quanti e quali siano gli ostacoli ad una piena comprensione tra Occidente e Oriente islamico si pronuncia oggi il grande poeta libanese Adonis, sempre su La Repubblica, soprattutto quando denuncia il mutamento del messaggio profetico e spirituale in ideologia della prassi quotidiana.
Su l’Europa un articolo a firma di Angelo Paoluzi ricostruisce un frammento importante ma poco ricordato delle deportazioni e dell’internamento dei militari italiani nella Germania di Hitler, recensendo il volume, da poco dato alle stampe da Anna Maria Casavola, sul «7 ottobre 1943. La deportazione dei carabinieri romani nei lager nazisti». La vicenda di circa 2500 carabinieri di Roma, consegnati dai repubblichini ai tedeschi e da questi ultimi deportati nei campi di concentramento, è senz’altro meno nota di quella occorsa ad altri gruppi di perseguitati. La sua ricostruzione si inserisce nel lavoro di scavo che da tempo si va facendo sul fenomeno delle persecuzioni e delle deportazioni a livello nazionale ed europeo. La peculiarità di tale vicenda sta nel fatto che ci aiuta a meglio cogliere le dinamiche politiche che stavano alla base del sistema di collaborazione tra le truppe di Berlino e il neofascismo di Salò, laddove la responsabilità di quest’ultimo in quello che fu un vero e proprio tradimento consumato alle spalle di connazionali in divisa, emerge in maniera incontrovertibile. Sempre per la serie dei libri in uscita (se poi siano da leggere, almeno in quest’ultimo caso, giudichino i nostri lettori) e per il genere “figure dell’ambiguità”, Gabriele Pantucci su Panorama presenta in anteprima un volume di edizione prossima ventura, quello che fu scritto da Margherita Sarfatti, sagace giornalista e generosa amante di Mussolini, dopo il 25 aprile 1945. La Sarfatti era nota già da tempo al pubblico italiano per «Dux», una vigorosa e maschia (gli aggettivi sono d’obbligo, trattandosi del Cavalier Benito…) apologia del dittatore, prima di cadere in disgrazia, in quanto ebrea, con le leggi razziali del 1938. Riparata in Argentina, paese dal quale ebbe modo di assistere al tracollo del regime e alla conclusione della guerra, la giornalista si dedicò poi a raccogliere le memorie dei suoi tempi, e del suo ex spasimante. Il testo che ne derivò, e che presto raggiungerà il mercato italiano, si preannuncia nutrito di gossip sulle vicende di backstage, come si direbbe oggi, del Ventennio. In fondo, a ben vedere, ancora una volta si conferma il detto per cui alla tragedia segue sempre la farsa, almeno per quel che concerne la rappresentazione delle vicende storiche.

Claudio Vercelli

 
 
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Presunto ex ufficiale SS tradito dall'elenco telefonico                  
Berlino, 4 dic -
Scovato un ex ufficiale della Waffen SS da uno studente di storia austriaco.
Si tratta di un pensionato di 89 anni di Duisburg (ovest), potrebbe essere lui uno dei tre ufficiali del corpo speciale di Hitler (Schutzstaffen) che il 29 marzo del 1945 uccisero in Austria circa 60 lavoratori coatti ebrei ungheresi.
A rintracciarlo è stato uno studente universitario che grazie alle sue ricerche su quel tragico episodio è risalito al nome del presunto ex ufficiale, e poi ne ha cercato e trovato il numero di telefono su un banale elenco telefonico (questo quanto riportato dall'agenzia di stampa tedesca Dpa).
Il professore del giovane, Walter Manoschek, ha voluto intervistare il sospettato prima di segnalare l'accaduto alle autorità di Dortmund.
La procura tedesca ha aperto un'inchiesta.


Israele: I laburisti pronti a tutto
Tel aviv, 5 dic -
I laburasti sono pronti a guidare l'opposizione.
L'attuale leader del partito laburista Ehud Barak ha dichiarato, presentando alla stampa l'esito delle primarie, che il suo partito si prepara alle elezioni con l'intenzione di far parte del blocco che guiderà il paese. Qualora l'elettorato dovesse decidere altrimenti il leader ha anche affermato che il suo partito sarà pronto per l'opposizione, rispetterà questo eventuale compito con forza e determinazione.
Alle primarie, dopo Barak, che d'ufficio, come da regolamento del partito, ha avuto il primo posto,  è stato scelto il ministro della assistenza sociale Yitzhak Herzog, seguito da Ophir Pines-Paz e dall'economista Avishai Braverman.
L'ex leader laburista Amir Peretz, che aveva guidato il partito nelle elezioni politiche del 2006, nella nuova graduatoria è sceso al decimo posto. Secondo alcuni analisti in quella posizione rischia adesso di non essere riconfermato alla Knesset.
L'opinione di Barak è di aver messo a punto una selezione eccellente di certo migliore di quelle presentate dagli altri partiti, ma i sondaggi non sembrano dargli ragione.
I laburisti erano il secondo partito in ordine di grandezza (dopo Kadima) con 19 seggi su un totale di 120. Ma adesso nei sondaggi si prevede che la loro forza sarà dimezzata e che il Likud di Benyamin Netanyahu uscirà vincente dal voto con oltre 30 seggi.


Obama ipotizza un discorso per ricucire lo strappo con l'Islam
New York, 4 dic -
“Un discorso nei primi 100 giorni di mandato per ricucire lo strappo tra Stati Uniti e mondo musulmano” questa sarebbe l'intenzione del neoeletto presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, secondo quanto riportato dal quotidiano New York Times.
L'intenzione sarebbe quella di fare questo importante discorso da una capitale del mondo islamico, e su quest'ultimo punto la scelta si fa complicata, quale città scegliere?. Il Times lancia varie ipotesi e per esclusione ritiene che il luogo più adatto all'evento possa essere il Cairo.
Sono state scartate: Giakarta perché "troppo ovvia", Islamabad perché "troppo pericolosa", Damasco perché "prematura" (magari tra un anno se il presidente Bashar al Assad farà pace con Israele), Ramallah perché "troppo controversa". Fuori gara anche Baghdad "sembrerebbe avallare la guerra in Iraq" e Beirut, "troppi militanti Hezbollah". E se Teheran è chiaramente fuori gioco, Ankara è "troppo tranquilla, oltre al fatto che ai turchi non andrebbe a genio esser scelti come avamposto dell'Islam mentre cercano di farsi accogliere dall'Unione Europea".
Perciò se venisse confermata la decisione di preparare tale evento la scelta non potrebbe che ricadere sul Cairo.
In Egitto il presidente americano sarebbe sicuramente il benvenuto ha detto l'ambasciatore egiziano a Washington Sameh Shoukry: "Un discorso di tale importanza dal Cairo, un centro importante di studi e cultura islamica in linea con il ruolo vitale dell'Egitto in Medioriente, rafforzerebbe senz'altro il messaggio".
 
 
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