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Dov'è
la Palestina? Per meglio dire, a che punto è il giorno (o la notte, per
parafrasare il titolo di un famoso romanzo di due celebri scrittori
torinesi, Carlo Fruttero e Franco Lucentini) dei Territori palestinesi?
Sommersi dalle vicende indiane, sulle quali si sofferma diffusamente
Gigi Riva per L'Espresso
(ricostruendoci il quadro, sempre in movimento, dell'arcipelago
terroristico), e dalla ridondante quotidianità di tante altre storie
che affollano il sommario dei quotidiani, ci dimentichiamo troppo
spesso di quello che accade in luoghi a noi piuttosto vicini. I casi di
Gaza e della Cisgiordania, oramai due "Palestine" a due distinte
velocità politiche, economiche e culturali, è emblematico. Ce lo
ricorda, con un articolo duro e informato, Paola Caridi che su L'Espresso
fa un po' il punto della situazione. Assai poco promettente, ad essere
sinceri. Poiché, come lei stessa scrive, il «timore di una resa dei
conti è costante». La frattura tra Hamas e Fatah è irricomponibile.
Questa divisione in casa non solo sanziona la frattura in due dei
Territori palestinesi - con quella striscia di terra egiziana, Gaza,
divenuta nel frattempo Hamastand (una sorta di buco nero dove
vivono poco meno di due milioni di persone) e la
Cisgiordania, ancora governata da quello che resta della fragile
Autorità nazionale palestinese - ma la prospettiva, molto prossima, di
una guerra civile degli uni contro gli altri. Amira Hass, giornalista
israeliana di opposizione, intervista da Francesca Marretta per Liberazione
dà conto, a modo suo, dello stato delle cose, parlando di «bomba a
orologeria». Chi, perché e come inizierà è del tutto secondario. Le
premesse di una lacerante contrapposizione armata ci sono tutte, a
partire dalla popolazione, in ostaggio delle due fazioni contrapposte.
Il 9 gennaio 2009 scadrà il mandato presidenziale di Abu Mazen, un
leader con scarso seguito, considerato a Gaza poco più che un
usurpatore. La tentazione dei suoi sostenitori, gli uomini di Fatah, è
di abbinare alla nuova tornata elettorale per la carica di Presidente
quella, nel qual caso anticipata, per un nuovo Parlamento, cercando di
tagliare di netto la strada ad Hamas. Quest’ultima è ben lontana dal
volersi far estromettere dalla gestione politica (e militare) della
crisi palestinese. Dal contrasto, e dalle scintille che ha già generato
in questi ultimi due anni (dopo che nel 2006 gli uomini dell'Olp furono
sconfitti alle urne), potrebbe ingenerarsi il casus belli per un
conflitto totale tra le due componenti. Il perché di tutto
ciò è presto detto: la politica palestinese è un formidabile
modello di gestione bancarottiera e fallimentare della cosa pubblica.
Alla faccia degli enfatici proclami e delle pubbliche declamazioni
la corruzione in Cisgiordania - non troppo diversamente da quanto
capita in tante altre parti del Medio Oriente - è fatto diffusissimo.
Peraltro, il controllo feudale del territorio da parte delle grandi
famiglie, che data all'esperienza della Palestina ottomana, è ben lungi
dall'essersi esaurito. Ancorché dalla maggioranza dei commentatori
omesso o dimenticato, il senso e la ragione del conflitto
israelo-palestinese sta, ora più che mai, nelle spaccature che
attraversano il mondo palestinese. Incapace, quest'ultimo, di "volare
con le proprie ali", ossia di liberarsi da ataviche dipendenze, a
partire da quelle del notabiliato locale. Hamas, contrapponendosi alla
deriva del gruppo di potere fatto dagli uomini che furono sostenitori
di Arafat ed ora di Mazen, nel nome e per mezzo di una intensa campagna
moralizzatrice ha capitalizzato le sue fortune, espellendoli da Gaza.
Che è divenuta il suo feudo, come su il Corriere della Sera
racconta Francesco Battistini, dove chi non fa atto di subordinazione
ai suoi uffici non può neanche andare in pellegrinaggio alla Mecca. Ora
la tentazione che Hamas nutre è quella di fare il grande salto
anche a Ramallah. La partita è aperta, con il rischio, come si diceva,
di una guerra civile tra le diverse fazioni, divise su tutto fuorché
sul modo di risolvere i contenziosi, ossia ricorrendo alle armi. Si
inseriscono in tale quadro i ripetuti tentativi, succedutisi anche nei
giorni scorsi, di forzare il blocco imposto dalla marina militare
israeliana agli accessi alle acque di Gaza. Ne dà conto Umberto De
Giovannangeli su L'Unità,
articolo nel quale si enfatizza molto l'aspetto umanitario (qualcosa
del tipo "food against hunger") di contro alla campagna propagandistica
che si accompagna alle mosse della "fratellanza araba" nei confronti
dei palestinesi. Tuttavia che i Territori palestinesi non siano
solo terra di desolazione lo dimostrano i ripetuti investimenti che da
tempo non pochi imprenditori vanno facendo. Se già a dicembre dell'anno
scorso Abu Mazen aveva raccolto a vario titolo ben 7,7 miliardi di
dollari in donazioni e contribuiti ora il Mondo, per la penna di Chiara Brusini, ci racconta di chi e di come interviene in Cisgiordania contribuendo al suo futuro economico. In
questo problematico (e angusto) orizzonte si inserisce il futuro
viaggio di Benedetto XVI in quella che per i cattolici è la «Terra
santa». Ce ne dà conto Ignazio Ingrao su Panorama
quando ci parla dello stato delle cose e dell'azione, discreta ma
continuativa, della diplomazia vaticana. I nodi da sciogliere sono
molti, primo tra tutti lo status del pontefice: andrà nei luoghi cari
anche al cristianesimo come leader spirituale o soprattutto come
capo di Stato? Poiché se nel primo caso non sarà obbligato ad
incontrare tutti i capi politici (anche quelli di Hamas, in tutta
probabilità), nel secondo, invece, dovrà far buon viso a cattiva sorte,
stringendo molte se non troppe mani. Ma se nell'eventualità di una sua
visita come massimo esponente del cattolicesimo non potrà confidare in
troppe risposte alle pressanti domande presenti nell' agenda
vaticana, come massimo esponente della Santa Sede potrebbe invece
ottenere qualche risultato in più, sia pure a costo di esporsi rispetto
al conflitto in corso. Che i problemi non stiano solo in casa
altrui lo testimoniano le vicende dello sgombero della "Casa della
pace" ad Hebron, un vero e proprio centro sociale autogestito istituto
illegalmente da 250 coloni ebrei, da alcune settimane a questa parte.
Così, tra le altre testate, La Repubblica e La Stampa,
dove si narra del cruento intervento dell'esercito israeliano,
obbligato - come già era successo nel passato - a ricorrere ad
energiche vie di fatto. Tra blocchi stradali, istituiti da
esponenti dell'ultradestra nazionalista, e un pesante clima da
sommossa popolare i militari, mandati dal ministro Barak a dare
esecuzione alla sentenza della Corte suprema che imponeva lo sgombero
forzato, hanno dovuto fare fronte alla violenta opposizione degli
occupanti che li hanno aggrediti fisicamente e apostrofati
come "nazisti". Così ancora Eric Salerno su il Messaggero
dove sotto un inutile titolo sensazionalistico e fuorviante («Piano per
bombardare l'Iran senza l'appoggio Usa»), basato su voci non comprovate
e sull’accredito di indiscrezioni, si dà poi soprattutto ampio conto
della piccola intifada dei coloni. In realtà la presenza di piccole ma
pericolose sacche di estremisti tra gli insediamenti ebraici in
Cisgiordania è stato assunto come un rilevante problema da tutte le
leadership israeliane, succedutesi dalla morte di Rabin in poi. Non si
è in presenza di un'ampia organizzazione bensì di microstrutture
animate da numeri ristretti di aderenti, ai quali però si accompagna un
più largo di milieu di simpatizzanti. L'obiettivo dichiarato è quello
non tanto di acquisire allo Stato d'Israele i Territori palestinesi,
opzione che implicherebbe una scelta politica che Gerusalemme non
intende in alcun modo esercitare, bensì di "ebraicizzarli", ovvero di
stabilire una giurisdizione indipendente, anche contro la volontà
d'Israele. L'intento secessionista è chiaro ed è il medesimo che ha
armato la mano infelice dell'assassino del Primo ministro tredici anni
fa. Ma Israele potrebbe conoscere una "nouvelle vague" politica grazie
ad Barack Obama, al cui fascino, ci dice Europa,
anche un uomo come Benyamin "Bibi" Netanyahu o un partito come lo Shas
parrebbero intendere cedere. Quel «yes, we can!» ha tuttavia molto del
sapore di una campagna mediatica. Insomma, più involucro che contenuto,
anche se la politica si sta trasformando sempre di più in un
contenitore di immagini e parole. Da ultime, le questioni di
casa nostra, dove non si spengono le polemiche sulla proposta della
Lega di giungere ad una moratoria nella costruzione di nuove moschee.
Orazio La Rocca su La Repubblica
fa un resoconto dal punto di vista della Conferenza episcopale
italiana, per bocca di monsignor Gianfranco Ravasi, dove alla piena
disponibilità nel riconoscere la libertà di culto si accompagna quella
di regolamentarlo sotto l'egida dello Stato. Così anche Epolis e il Foglio.
Ma se la prima testata offre ai suoi lettori un resoconto descrittivo,
il giornale diretto da Giuliano Ferrara esprime invece, per la firma di
Carlo Panella, una netta presa di posizione a favore delle affermazioni
del Carroccio. Si tratta, secondo Panella, di un giudizio
condivisibile, soprattutto laddove si evidenzia il fatto che le moschee
sono solo in parte luoghi di culto (ma qual è il tempio in cui non si
faccia anche dell’altro oltre a pregare?), rispondendo invece a criteri
organizzativi e rappresentativi di ordine politico. A tutto ciò sembra
volere rispondere l’ex ministro e attuale segretario del Partito della
rifondazione comunista Paolo Ferrero su La Stampa,
soffermandosi sul fatto che il divieto potrebbe innescare un pericoloso
processo di occultamento di un mondo, quello dei religiosi musulmani,
la cui pericolosità sociale è direttamente proporzionale alla sua
invisibilità. Ferrero sostiene che il far emergere alla luce del sole
culti e pratiche è l’antidoto a qualsiasi deriva barbarica. In altre
parole: poiché sono tra di noi è bene che siano integrati con noi.
Posizione più che condivisibile, in linea di principio, se non fosse
per il fatto che quando parliamo di un certo Islam, tanto più quello
radicale, ci scontriamo con un universo di idee e atteggiamenti dove
nessun elemento di laicità si è mai completamente compiuto. Più
in generale, su quanti e quali siano gli ostacoli ad una piena
comprensione tra Occidente e Oriente islamico si pronuncia oggi il
grande poeta libanese Adonis, sempre su La Repubblica, soprattutto quando denuncia il mutamento del messaggio profetico e spirituale in ideologia della prassi quotidiana. Su l’Europa
un articolo a firma di Angelo Paoluzi ricostruisce un frammento
importante ma poco ricordato delle deportazioni e dell’internamento dei
militari italiani nella Germania di Hitler, recensendo il volume, da
poco dato alle stampe da Anna Maria Casavola, sul «7 ottobre 1943. La
deportazione dei carabinieri romani nei lager nazisti». La vicenda di
circa 2500 carabinieri di Roma, consegnati dai repubblichini ai
tedeschi e da questi ultimi deportati nei campi di concentramento, è
senz’altro meno nota di quella occorsa ad altri gruppi di perseguitati.
La sua ricostruzione si inserisce nel lavoro di scavo che da tempo si
va facendo sul fenomeno delle persecuzioni e delle deportazioni a
livello nazionale ed europeo. La peculiarità di tale vicenda sta nel
fatto che ci aiuta a meglio cogliere le dinamiche politiche che stavano
alla base del sistema di collaborazione tra le truppe di Berlino e il
neofascismo di Salò, laddove la responsabilità di quest’ultimo in
quello che fu un vero e proprio tradimento consumato alle spalle di
connazionali in divisa, emerge in maniera incontrovertibile. Sempre per
la serie dei libri in uscita (se poi siano da leggere, almeno in
quest’ultimo caso, giudichino i nostri lettori) e per il genere “figure
dell’ambiguità”, Gabriele Pantucci su Panorama
presenta in anteprima un volume di edizione prossima ventura, quello
che fu scritto da Margherita Sarfatti, sagace giornalista e generosa
amante di Mussolini, dopo il 25 aprile 1945. La Sarfatti era nota già
da tempo al pubblico italiano per «Dux», una vigorosa e maschia (gli
aggettivi sono d’obbligo, trattandosi del Cavalier Benito…) apologia
del dittatore, prima di cadere in disgrazia, in quanto ebrea, con le
leggi razziali del 1938. Riparata in Argentina, paese dal quale ebbe
modo di assistere al tracollo del regime e alla conclusione della
guerra, la giornalista si dedicò poi a raccogliere le memorie dei suoi
tempi, e del suo ex spasimante. Il testo che ne derivò, e che presto
raggiungerà il mercato italiano, si preannuncia nutrito di gossip sulle
vicende di backstage, come si direbbe oggi, del Ventennio. In fondo, a
ben vedere, ancora una volta si conferma il detto per cui alla tragedia
segue sempre la farsa, almeno per quel che concerne la rappresentazione
delle vicende storiche.
Claudio Vercelli |
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