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L'Unione informa
 
    12 dicembre 2008 - 15 Chislev 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Rav_colombo Roberto
Colombo,

rabbino 
"Dove non vi sono uomini, cerca di essere tu uomo" (Avòt). Dove sei solo e nessuno ti vede, continua a essere lo stesso uomo di quando sei in pubblico (Chaim Voloziner). 
La coscienza è una lampada accesa. Quando si tengono chiusi gli occhi, non la si vede. Vittorio Dan
Segre,

pensionato
DanSegre  
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  victormagiar Un linguaggio nuovo
per parlare ai giovani

“Israele, il sionismo e la memoria della Shoah sono stati i pilastri ideologici d’intere generazioni di ebrei italiani ed europei. I quarantenni di oggi hanno introiettato nel profondo queste tematiche. Ma per i giovani sono ormai questioni di valenza molto diversa, vissute in termini più intellettuali e con minore coinvolgimento valoriale”. Victor Magiar, assessore alla cultura Ucei, ne parla come del suo “assillo principale”. E’ lo stacco generazionale, emerso con grande evidenza in tanti incontri del Moked a Parma, che ha messo in crisi quella trasmissione d’idee e ideali che per decenni avevano tenuto insieme il mondo ebraico. E’ dunque da qui, sostiene, che si deve partire per restituire nuove prospettive di riflessione.
Victor, usciamo da un Moked ricco d’incontri e suggestioni. Proviamo a delineare un bilancio.
E’ stato senz’altro un bel Moked. Ricco di discussioni importanti e di ottimo livello, che è riuscito a fornire punti di vista molto diversificati sui sessant’anni dello Stato d’Israele e sul sionismo. L’unico neo è che un’esperienza di riflessione così importante dovrebbe coinvolgere un numero maggiore di persone. Realizzare una più ampia partecipazione di pubblico e ringiovanire la platea sono nostri precisi obiettivi per il futuro.
Il Moked invernale è però per tradizione un po’ meno partecipato di quello in programma a primavera.
La data invernale è sempre più difficile per le famiglie, per gli impegni lavorativi e l’avvicinarsi delle vacanze scolastiche. Va detto però che uno dei problemi è dato dalla quota economica di partecipazione che per molti può risultare elevata. Ne abbiamo discusso proprio nel Consiglio Ucei, svoltosi l’ultimo giorno del Moked, cui hanno preso parte i presidenti di Comunità.
Qualche proposta pratica?
Stiamo pensando di ricorrere, nel futuro, ai fondi dell’otto per mille così da aiutare le Comunità a regalare a una famiglia la partecipazione all’incontro. In parallelo stiamo vagliando alcune innovazioni tecniche per abbassare le quote. Occasioni di questo tipo devono infatti essere quanto più condivise possibile.
Accanto al Moked la politica culturale prevede altri momenti di confronto.
Negli ultimi due anni, grazie anche al contributo del mio predecessore Dario Calimani, abbiamo innovato in modo profondo il modo di lavorare, attivando sulle tematiche culturali una stretta sinergia che, accanto al Dipartimento educazione e cultura diretto da rav Roberto Della Rocca, coinvolge tutte le altre strutture Ucei, in particolare quella dei giovani. I risultati sono molteplici. Mentre proseguono le attività volte alla comunicazione con l’esterno, quali il Giorno della Memoria o la Giornata della Cultura Ebraica, stiamo portando avanti un’attività di formazione che coinvolge tutte le Comunità. E’ stata avviata infatti una serie d’incontri con i presidenti e i rabbini per discutere le prospettive del mondo ebraico italiano.
Tema non da poco.
Ci rendiamo tutti conto che il numero degli iscritti sta calando in modo drammatico e che per i giovani le nostre istituzioni mancano di appeal. I pilastri ideologici di altre generazioni ebraiche sono da loro vissuti in modo meno coinvolgente, più intellettuale. Per chi oggi ha vent’anni Israele non è il miracolo che fu per noi. Ma un fatto scontato. Anche la memoria ha un impatto diverso, non ha implicazioni dirette sul quotidiano: è qualcosa vissuto dai nonni e dai bisnonni. E lo stesso lessico usato un tempo per trasmettere questi valori è cambiato.
Si rischia così di saltare una generazione, creando vuoti pericolosi.
Per capire come si può trasmettere ai giovani l’esperienza ebraica è necessario un lavoro di recupero dei nostri valori più profondi. Studiando nuovi linguaggi e nuove tecniche per farlo e valorizzando i tanti strumenti che rimangono validi. E’ la preoccupazione principale che ci accompagna nella nostra programmazione culturale.
Questo può significare anche dover intervenire sui formatori?
Entro certi limiti sì. In una società complessa come la nostra potrebbe essere opportuno, ad esempio, che i rabbini abbiano anche nozioni di psicologia o di sociologia. E, sempre in tema di culto, se le Comunità lo ritengono utile si potrebbe pensare di riorganizzare il sistema che oggi vede dei bravi rabbini coprire a rotazione le realtà più piccole.
Nell’immaginario degli italiani la politica culturale ebraica s’identifica con la Giornata della memoria e con la Giornata della cultura ebraica. Quale significato hanno questi eventi per l’ebraismo italiano?
C’è senz’altro una preoccupazione sul modo in cui si affrontano questi temi. In una società che offre migliaia di sollecitazioni e che attraversa una profonda crisi morale ed economica non possiamo infatti dare risposte di maniera o scontate. Sappiamo che gli aspetti cerimoniali, soprattutto del giorno dedicato alla memoria, sono deleteri. Dobbiamo dunque evitare la ripetitività e i momenti di circostanza. Per questo chiediamo alle Comunità e a quanti promuovono le iniziative di puntare sulla cultura e sull’istruzione: meglio una cerimonia di meno e una borsa di studio in più. Entrambe le manifestazioni rimangono comunque ottime occasioni di comunicazione che sortiscono ottimi riscontri.
Non c’è il rischio che si parli troppo dell’ebraismo?
Un tema che mi angoscia è proprio l’iperattivismo ebraico, che tanto spesso ha anticipato o è coinciso con gravi crisi storiche. Stiamo vivendo una stagione difficile dal punto di vista economico mentre risorgono nazionalismi e razzismi. La nostra grande tensione d’attività potrebbe distoglierci dal vedere la catastrofe che incombe. Una società in crisi diventa infatti pericolosa per le minoranze. Basti pensare alle pulsioni di fastidio e intolleranza già manifestatesi nei confronti dei rom. Se non saremo capaci di tenere gli occhi bene aperti potremmo non capire quanto sta accadendo e non essere in grado di porvi riparo.

Daniela Gross
 
 
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«My Country, right or wrong». Non l’ha detto nessuno ma lo pensano tutti in Israele, un paese che si sta apprestando alle elezioni politiche anticipate, che si terranno il 10 febbraio dell’anno entrante. Le premesse sono risapute: Tzipi Livni, dopo avere ottenuto l’incarico esplorativo, a seguito delle dimissioni di Ehud Olmert, quest’ultimo in défaillance sia a causa della buccia di banana dei finanziamenti elettorali, irregolarmente ottenuti quand’era sindaco di Gerusalemme, che sul ben più spinoso problema della gestione del paese nel dopoguerra del Libano, ha nelle settimane scorse gettato la spugna dinanzi all’impossibilità di formare un nuovo governo sorretto da una stabile maggioranza. Ne è seguito, inesorabilmente, lo scioglimento anticipato del Parlamento e la repentina conclusione della diciassettesima legislatura. Da quel momento – parliamo per l’appunto dei mesi appena trascorsi – si sono aperte le danze elettorali che si concluderanno solo a voto ultimato. Non è quindi un caso se oggi le salve di cannone vadano alternandosi ai segnali di fumo. I contendenti si stanno organizzando intorno ai partiti e alle piattaforme che intendono presentare ai concittadini, per raccoglierne il voto. In realtà il panorama politico israeliano è mutato profondamente in questi ultimi quindici anni. Sono soprattutto i vecchi partiti ad avere subito un notevole mutamento, indotto da molti fattori, non da ultime le profonde trasformazioni della società. Quel che è certo, tra i tanti segnali contrastanti, è che le vecchie liste di destra e di sinistra non possono più pensare di presentarsi agli elettori così come tradizionalmente facevano: le appartenenze ideologiche si sono in parte stemperate, a favore non tanto di un percorso di superamento delle differenze politiche sui temi più impellenti, quanto di un diverso modo di intenderli e declinarli. In altre parole: al giorno d’oggi la polarizzazione che corre tra posizioni contrastanti permane ma è il modo in cui essa viene vissuta a risultare cambiato. A suo tempo, nel 2005, la nascita di Kadima, per volontà del vecchio likudista Ariel Sharon, aveva già dato il segno dello scompaginamento in corso. La formazione di una lista centrista, del tutto estranea alla tradizionale frattura tra i due poli alternativi, Likud e Avodà, aveva indicato la strada di un progetto politico, su base laica, orientato a trovare una sorta di “terza via”, soprattutto nel merito della questione del rapporto con i palestinesi. Problema, quest’ultimo, sul quale l’attenzione della comunità internazionale non è mai venuta meno. Ma le agende di Sharon, allora, e di Olmert poi avevano anche altre priorità. Esaurita, con un consenso diffuso da parte degli israeliani, l’azione di «disimpegno unilaterale» dai territori di Gaza e, in prospettiva, della Cisgiordania, si sarebbe dovuto mettere mano a un insieme di questioni impellenti e come tali inderogabili, a partire dalla lievitante questione della povertà, un fenomeno sempre più diffuso nel paese. Oggi, tra umori e soprattutto malumori, le leadership dei due ambiti opposti, quello che un tempo si soleva chiamare il «campo della pace» (ossia la sinistra) e quello, alternativo, abitualmente definito come il «campo nazionale» (la destra), hanno dovuto ridisegnare i loro profili. Nella scarna rassegna stampa di questa giornata (che tuttavia fa seguito alla sovrabbondanza di notizie trascorse, così come prevedibilmente precede quelle copiosamente prossime venture), si segnala l’intervista di Marina Gersony su Panorama ad Avraham Burg, ex speaker della Knesset e animatore, tra gli altri, di un nuovo movimento liberale e progressista, che si affianca al Meretz, la sinistra laburista, nel tentativo di raccogliere voti tra quei potenziali elettori che, tra delusione e disincanto, potrebbero decidere di non votare per il partito di Ehud Barak. Più che la ricerca di nuovi consensi si tratta, per gli animatori di questa iniziativa, tra i quali spiccano i nomi di intellettuali del calibro di Amos Oz e Abraham Yehoshua, di non disperdere (ergo perdere) quelli già raccolti. La paura di fondo è che lo stallo generale dell’iniziativa politica (sia sul piano interno che su quello internazionale), unita ad una profonda crisi di credibilità che da molto tempo accompagna Avodà, il partito laburista, possano giocare a favore di una destra tornata in auge e pronosticata come favorita un po’ da tutti i sondaggi. Se nessun partito in Israele, oggi, può pensare di essere da solo in assoluto determinante per i futuri assetti di coalizione, ce ne sarà senz’altro uno che sarà il fulcro della futura maggioranza. La cronica instabilità del panorama politico e, soprattutto, la tendenza alla frammentazione dei processi decisionali – sottoposti ad estenuanti mediazioni - potrebbero favorire quelle formazioni politiche parlamentari, anche minoritarie, che sapessero fare pesare di volta in volta i loro seggi quando si dovesse trattare di votare per una qualche legge controversa. L’obiettivo del gruppo di intellettuali che cerca di rivitalizzare una sinistra che da noi verrebbe definita, molto impropriamente, come «radicale» e che in Israele è intesa, per le parole del medesimo Burg, come «l’unica voce socialdemocratica» (il vecchio Labour sembra oramai così esangue da costituire solo la controfigura del partito che fu), è non tanto quello, in sé improbabile, di “vincere le elezioni” bensì di risultare determinante nelle scelte di fondo del futuro governo. Sapendo che, con molta probabilità, il confronto diretto sarà con un Likud che dovrebbe aumentare di molto la sua pattuglia parlamentare, superando la crisi  che lo aveva attanagliato negli ultimi anni.,
Dicevamo segnali di fumo, che da sinistra arrivano diffusamente. Alla serie dei colpi di cannone (se sparati a salve o meno lo si potrà capire solo a voto concluso) appartengono invece le dichiarazioni rese da Tzipi Livni, di cui fa ampia menzione Il Messaggero. Dinanzi ad un pubblico di studenti il Ministro degli esteri uscente avrebbe dichiarato, apertis verbis, che «quando lo stato palestinese sarà creato, sarò in grado di andare dai cittadini palestinesi, che chiamiamo arabo israeliani, e dir loro: siete residenti con uguali diritti, ma la vostra soluzione nazionale è in un altro luogo». Parole che hanno ancora una volta acceso la miccia della discussione, peraltro mai del tutto consumatasi, sulla questione della cosiddetta “omogeneità etnica”, ovvero dell’ebraicità della popolazione (e delle istituzioni) israeliane. Israele è lo stato degli ebrei o è uno stato ebraico? L’una e l’altra cosa quanto sono in sintonia, o alternativamente in contrasto, con la prassi democratica? Ossia, una democrazia può anche definirsi in termini etnici o quest’ultimo elemento le è antitetico? Quesiti rilevantissimi, che stanno all’origine dell’esperienza storica stessa d’Israele, delle irrisolte contraddizioni che incorpora in sé, a partire dall’assenza di una Costituzione. Poiché non si tratta tanto di una mera questione di quantità ma anche e soprattutto di qualità, ovvero di natura delle istituzioni così come della composizione della popolazione residente dentro i confini storici di Medinat Israel. Questioni, queste ultime, che demandano alla dimensione della laicità della politica israeliana, ossia alla separazione tra la sfera dell’amministrazione dei corpi e quella della gestione delle anime. E con essa, al buon uso – per così dire – dei simboli dell’identità, a partire da quelli religiosi. È tema, quest’ultima, che affronta anche Susanna Nirenstein su la Repubblica recensendo «Rifugio», l’ultimo romanzo di Sami Michael tradotto e pubblicato in lingua italiana. L’autore è un ebreo di origini irachene, completamente legato alle sue radici arabe, avendo «i tratti somatici del nemico» e condividendone non pochi aspetti culturali. La traiettoria del non facile processo di integrazione dentro il nuovo Stato di chi proveniva da paesi mediorientali è un po’ la cartina di tornasole delle questioni aperte, a tratti quasi dilaceranti, di cui si faceva menzione nelle righe precedenti e delle quali la discussione politica corrente ne è solo l’indice più superficiale, ancorché maggiormente ricorrente.
Un volto poco conosciuto dell’ebraismo (sarebbe però più corretto usare il plurale, parlando quindi di “ebraismi”) è quello narratoci con toni critici e polemici da Avraham Yehoshua, quando si sofferma, per le pagine de La Stampa, sugli chassidim di Chabad (il nome è l’acronimo in ebraico di saggezza, comprensione e conoscenza), il movimento ultraortodosso che non riconosce la legittimità storica del sionismo ma che ha molti addentellati in Israele. Il motivo dell’attenzione dedicatagli sta nei tragici fatti del mese scorso, quando a Mumbai un centro ebraico dei Lubavitch è stato fatto oggetto di un’aggressione terroristica che ha causato, tra le altre,  la morte del giovane rabbino, di sua moglie e di alcuni ospiti del centro medesimo. Yehoshua, con verve, piglio e cipiglio affonda il coltello della polemica contro la presenza degli esponenti del movimento internazionale, che si rifà al magistero del rabbinato di Lubavitch (ora stabilmente insediatosi a Brooklyn), in luoghi come l’India. Si tratta di un altro capitolo tematico spinoso per Israele, anch’esso riconducibile al nesso secolarizzazione-religiosità che accompagna le polemiche tra chi rivendica la primazia della laicità, con tutto quel che da ciò consegue, e quanti, invece, accordano alla religione una prevalenza assoluta nella formazione delle scelte collettive.
A conclusione di queste riflessioni di commento ci sia concesso commentare una non notizia, ovvero una notizia che oggi non c’è: non registriamo nessuna presa di posizione pubblica, di questo o di quell’esponente della Santa Sede, sul processo di ascesa agli altari e di santificazione di Pio XII. Mentre invece, sulla falsariga dell’ «uso pubblico della storia», si inserisce l’intervista di Pawel Smolenski con Jonathan Littel pubblicata da L’Espresso, storica testata del panorama editoriale italiano che non perde l’occasione per definire il medesimo «grande scrittore». L’autore de «Le benevole», corposo e controverso affresco letterario sulle unità mobili di sterminio, i reparti delle SS che tra il 1941 e il 1943 si adoperarono nella fucilazione di più di un milione di ebrei nei territori dell’Unione Sovietica occupata dalle truppe naziste, ci annuncia la sua nuova opera su un altro soggetto inquietante del Terzo Reich, il belga Leon Degrelle, collaborazionista ad oltranza di Hitler e suo sodale oltre la sua morte. Degrelle, infatti, è stata una delle icone del neonazismo internazionale. Della serie: a parlare del Male non ci si fa male ma solo bene, soprattutto in termini di royalties, ossia di diritti d’autore.

Claudio Vercelli

 
 
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Elezioni israeliane, Netanyahu:“i negoziati andranno avanti”    
Tel Aviv, 11 dic -

"La maggior parte degli israeliani, me compreso, non sono interessati a dominare un altro popolo. Siamo solo contro coloro che colpiscono Israele" così il leader del Likud Benyamin Netanyahu ha voluto chiarire la propria posizione e le intenzioni del suo partito agli ambasciatori dei Paesi dell'Unione Europea. Qualora dovesse vincere le lezioni di febbraio Netanyau ha assicurato che i negoziati con i palestinesi procederanno “ma - ha aggiunto - in forma diversa. Io desidero che i palestinesi dispongano dell'autorità e delle capacità necessarie per gestire da soli le proprie faccende. Ma non che essi minaccino o colpiscano Israele". “Le difficili condizioni economiche in cui versa l'Iran dovrebbero essere utilizzate dalla comunità internazionale per accrescere le pressioni volte ad impedire a Teheran di ottenere un potenziale nucleare”. Il leader del Likud si è detto poi favorevole a un dialogo con la Siria, anche se sul confine Israele deve a suo parere mantenere il controllo delle zone di importanza strategica. 
Mentre Netanyahu compiva le proprie dichiarazioni di intenti, le istituzioni del Likud hanno reso noto che tre esponenti individuati come di estrema destra (Moshe Feiglin, Michael Razon ed Ehud Yatom) sono stati retrocessi nella lista dei candidati alle prossime elezioni politiche. Di conseguenza è diminuita la probabilità che siano eletti deputati. Feiglin ha già replicato che si farà appello contro questa decisione.


Morto Kiniger, tentò di salvare ebrei dalle deportazioni
Firenze 12 dic -
Bruno Kiniger non c'è più. L'ex incaricato d'affari della repubblica sociale italiana in Svizzera che durante la II guerra mondiale fu incaricato dal Vaticano di una missione top secret per cercare di salvare 10 mila persone, in gran parte ebrei, dalle deportazioni, è morto nei giorni scorsi.
La notizia è stata resa nota oggi a Firenze (dove viveva fin dagli anni '60) con un necrologio fatto pubblicare dalla famiglia e dagli amici sulla stampa.
I funerali si sono svolti a Firenze in forma privata martedì scorso.
Di lui e della sua storia il presidente del Consiglio regionale toscano Riccardo Nencini ha detto: “La vicenda di Kiniger è una storia da tramandare alle giovani generazioni, per renderle consapevoli del sacrificio di tanti uomini e donne, che hanno speso le loro vite per la libertà e la giustizia”.
La sua vicenda, paragonata a quella del tedesco Oskar Schindler, era arrivata alla ribalta della cronaca nel 1999 grazie allo storico Marino Viganò insieme al quale aveva pubblicato nel 1999 il libro di memorie '1939-1945 Da Tripoli a Salo''.


Demjanjuk, presunto ex criminale nazista,
sarà processato in Germania
Berlino, 12 dic -
“John Demjanjuk, presunto ex criminale nazista, sarà processato in Germania” questa la decisione presa dalla corte federale tedesca.
Demjanjuk è al secondo posto nella lista dei ricercati del Centro Wiesenthal per le atrocità commesse durante il Terzo Reich.
Nato in Ucraina, vive oggi negli Stati Uniti ed è accusato di essere stato il capo di alcuni campi di concentramento, tra i quali Treblinka.
Era stato condannato a morte in Israele, ma la corte suprema aveva in seguito cancellato tale sentenza rimettendolo in libertà.
Il mese scorso, la procura di Monaco di Baviera (sud) aveva annunciato di non voler muovere nuove accuse contro Demjanjuk, spiegando che il caso in questione non rientrava nella sua giurisdizione, anche se l'uomo viveva vicino alla città bavarese prima di emigrare negli Usa. La Corte di giustizia federale ha stabilito oggi che il Tribunale di Monaco di Baviera può processare Demjanjuk. L'anno scorso, l'Ufficio centrale tedesco per le indagini sui crimini nazisti aveva chiesto alla Corte federale di giustizia l'estradizione in Germania di Demjanjuk. Questi vive negli Usa dal 1952, e dal 1977 è impegnato in un braccio di ferro con il ministero della Giustizia, che vuole rimandarlo in Europa.
 
 
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