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«My
Country, right or wrong». Non l’ha detto nessuno ma lo pensano tutti in
Israele, un paese che si sta apprestando alle elezioni politiche
anticipate, che si terranno il 10 febbraio dell’anno entrante. Le
premesse sono risapute: Tzipi Livni, dopo avere ottenuto l’incarico
esplorativo, a seguito delle dimissioni di Ehud Olmert, quest’ultimo in
défaillance sia a causa della buccia di banana dei finanziamenti
elettorali, irregolarmente ottenuti quand’era sindaco di Gerusalemme,
che sul ben più spinoso problema della gestione del paese nel
dopoguerra del Libano, ha nelle settimane scorse gettato la spugna
dinanzi all’impossibilità di formare un nuovo governo sorretto da una
stabile maggioranza. Ne è seguito, inesorabilmente, lo scioglimento
anticipato del Parlamento e la repentina conclusione della
diciassettesima legislatura. Da quel momento – parliamo per l’appunto
dei mesi appena trascorsi – si sono aperte le danze elettorali che si
concluderanno solo a voto ultimato. Non è quindi un caso se oggi le
salve di cannone vadano alternandosi ai segnali di fumo. I contendenti
si stanno organizzando intorno ai partiti e alle piattaforme che
intendono presentare ai concittadini, per raccoglierne il voto. In
realtà il panorama politico israeliano è mutato profondamente in questi
ultimi quindici anni. Sono soprattutto i vecchi partiti ad avere subito
un notevole mutamento, indotto da molti fattori, non da ultime le
profonde trasformazioni della società. Quel che è certo, tra i tanti
segnali contrastanti, è che le vecchie liste di destra e di sinistra
non possono più pensare di presentarsi agli elettori così come
tradizionalmente facevano: le appartenenze ideologiche si sono in parte
stemperate, a favore non tanto di un percorso di superamento delle
differenze politiche sui temi più impellenti, quanto di un diverso modo
di intenderli e declinarli. In altre parole: al giorno d’oggi la
polarizzazione che corre tra posizioni contrastanti permane ma è il
modo in cui essa viene vissuta a risultare cambiato. A suo tempo, nel
2005, la nascita di Kadima, per volontà del vecchio likudista Ariel
Sharon, aveva già dato il segno dello scompaginamento in corso. La
formazione di una lista centrista, del tutto estranea alla tradizionale
frattura tra i due poli alternativi, Likud e Avodà, aveva indicato la
strada di un progetto politico, su base laica, orientato a trovare una
sorta di “terza via”, soprattutto nel merito della questione del
rapporto con i palestinesi. Problema, quest’ultimo, sul quale
l’attenzione della comunità internazionale non è mai venuta meno. Ma le
agende di Sharon, allora, e di Olmert poi avevano anche altre priorità.
Esaurita, con un consenso diffuso da parte degli israeliani, l’azione
di «disimpegno unilaterale» dai territori di Gaza e, in prospettiva,
della Cisgiordania, si sarebbe dovuto mettere mano a un insieme di
questioni impellenti e come tali inderogabili, a partire dalla
lievitante questione della povertà, un fenomeno sempre più diffuso nel
paese. Oggi, tra umori e soprattutto malumori, le leadership dei due
ambiti opposti, quello che un tempo si soleva chiamare il «campo della
pace» (ossia la sinistra) e quello, alternativo, abitualmente definito
come il «campo nazionale» (la destra), hanno dovuto ridisegnare i loro
profili. Nella scarna rassegna stampa di questa giornata (che tuttavia
fa seguito alla sovrabbondanza di notizie trascorse, così come
prevedibilmente precede quelle copiosamente prossime venture), si
segnala l’intervista di Marina Gersony su Panorama
ad Avraham Burg, ex speaker della Knesset e animatore, tra gli altri,
di un nuovo movimento liberale e progressista, che si affianca al
Meretz, la sinistra laburista, nel tentativo di raccogliere voti tra
quei potenziali elettori che, tra delusione e disincanto, potrebbero
decidere di non votare per il partito di Ehud Barak. Più che la ricerca
di nuovi consensi si tratta, per gli animatori di questa iniziativa,
tra i quali spiccano i nomi di intellettuali del calibro di Amos Oz e
Abraham Yehoshua, di non disperdere (ergo perdere) quelli già raccolti.
La paura di fondo è che lo stallo generale dell’iniziativa politica
(sia sul piano interno che su quello internazionale), unita ad una
profonda crisi di credibilità che da molto tempo accompagna Avodà, il
partito laburista, possano giocare a favore di una destra tornata in
auge e pronosticata come favorita un po’ da tutti i sondaggi. Se nessun
partito in Israele, oggi, può pensare di essere da solo in assoluto
determinante per i futuri assetti di coalizione, ce ne sarà senz’altro
uno che sarà il fulcro della futura maggioranza. La cronica instabilità
del panorama politico e, soprattutto, la tendenza alla frammentazione
dei processi decisionali – sottoposti ad estenuanti mediazioni -
potrebbero favorire quelle formazioni politiche parlamentari, anche
minoritarie, che sapessero fare pesare di volta in volta i loro seggi
quando si dovesse trattare di votare per una qualche legge controversa.
L’obiettivo del gruppo di intellettuali che cerca di rivitalizzare una
sinistra che da noi verrebbe definita, molto impropriamente, come
«radicale» e che in Israele è intesa, per le parole del medesimo Burg,
come «l’unica voce socialdemocratica» (il vecchio Labour sembra oramai
così esangue da costituire solo la controfigura del partito che fu), è
non tanto quello, in sé improbabile, di “vincere le elezioni” bensì di
risultare determinante nelle scelte di fondo del futuro governo.
Sapendo che, con molta probabilità, il confronto diretto sarà con un
Likud che dovrebbe aumentare di molto la sua pattuglia parlamentare,
superando la crisi che lo aveva attanagliato negli ultimi anni., Dicevamo
segnali di fumo, che da sinistra arrivano diffusamente. Alla serie dei
colpi di cannone (se sparati a salve o meno lo si potrà capire solo a
voto concluso) appartengono invece le dichiarazioni rese da Tzipi
Livni, di cui fa ampia menzione Il Messaggero.
Dinanzi ad un pubblico di studenti il Ministro degli esteri uscente
avrebbe dichiarato, apertis verbis, che «quando lo stato palestinese
sarà creato, sarò in grado di andare dai cittadini palestinesi, che
chiamiamo arabo israeliani, e dir loro: siete residenti con uguali
diritti, ma la vostra soluzione nazionale è in un altro luogo». Parole
che hanno ancora una volta acceso la miccia della discussione, peraltro
mai del tutto consumatasi, sulla questione della cosiddetta “omogeneità
etnica”, ovvero dell’ebraicità della popolazione (e delle istituzioni)
israeliane. Israele è lo stato degli ebrei o è uno stato ebraico? L’una
e l’altra cosa quanto sono in sintonia, o alternativamente in
contrasto, con la prassi democratica? Ossia, una democrazia può anche
definirsi in termini etnici o quest’ultimo elemento le è antitetico?
Quesiti rilevantissimi, che stanno all’origine dell’esperienza storica
stessa d’Israele, delle irrisolte contraddizioni che incorpora in sé, a
partire dall’assenza di una Costituzione. Poiché non si tratta tanto di
una mera questione di quantità ma anche e soprattutto di qualità,
ovvero di natura delle istituzioni così come della composizione della
popolazione residente dentro i confini storici di Medinat Israel.
Questioni, queste ultime, che demandano alla dimensione della laicità
della politica israeliana, ossia alla separazione tra la sfera
dell’amministrazione dei corpi e quella della gestione delle anime. E
con essa, al buon uso – per così dire – dei simboli dell’identità, a
partire da quelli religiosi. È tema, quest’ultima, che affronta anche
Susanna Nirenstein su la Repubblica
recensendo «Rifugio», l’ultimo romanzo di Sami Michael tradotto e
pubblicato in lingua italiana. L’autore è un ebreo di origini irachene,
completamente legato alle sue radici arabe, avendo «i tratti somatici
del nemico» e condividendone non pochi aspetti culturali. La
traiettoria del non facile processo di integrazione dentro il nuovo
Stato di chi proveniva da paesi mediorientali è un po’ la cartina di
tornasole delle questioni aperte, a tratti quasi dilaceranti, di cui si
faceva menzione nelle righe precedenti e delle quali la discussione
politica corrente ne è solo l’indice più superficiale, ancorché
maggiormente ricorrente. Un volto poco conosciuto dell’ebraismo
(sarebbe però più corretto usare il plurale, parlando quindi di
“ebraismi”) è quello narratoci con toni critici e polemici da Avraham
Yehoshua, quando si sofferma, per le pagine de La Stampa,
sugli chassidim di Chabad (il nome è l’acronimo in ebraico di saggezza,
comprensione e conoscenza), il movimento ultraortodosso che non
riconosce la legittimità storica del sionismo ma che ha molti
addentellati in Israele. Il motivo dell’attenzione dedicatagli sta nei
tragici fatti del mese scorso, quando a Mumbai un centro ebraico dei
Lubavitch è stato fatto oggetto di un’aggressione terroristica che ha
causato, tra le altre, la morte del giovane rabbino, di sua
moglie e di alcuni ospiti del centro medesimo. Yehoshua, con verve,
piglio e cipiglio affonda il coltello della polemica contro la presenza
degli esponenti del movimento internazionale, che si rifà al magistero
del rabbinato di Lubavitch (ora stabilmente insediatosi a Brooklyn), in
luoghi come l’India. Si tratta di un altro capitolo tematico spinoso
per Israele, anch’esso riconducibile al nesso
secolarizzazione-religiosità che accompagna le polemiche tra chi
rivendica la primazia della laicità, con tutto quel che da ciò
consegue, e quanti, invece, accordano alla religione una prevalenza
assoluta nella formazione delle scelte collettive. A conclusione
di queste riflessioni di commento ci sia concesso commentare una non
notizia, ovvero una notizia che oggi non c’è: non registriamo nessuna
presa di posizione pubblica, di questo o di quell’esponente della Santa
Sede, sul processo di ascesa agli altari e di santificazione di Pio
XII. Mentre invece, sulla falsariga dell’ «uso pubblico della storia»,
si inserisce l’intervista di Pawel Smolenski con Jonathan Littel
pubblicata da L’Espresso,
storica testata del panorama editoriale italiano che non perde
l’occasione per definire il medesimo «grande scrittore». L’autore de
«Le benevole», corposo e controverso affresco letterario sulle unità
mobili di sterminio, i reparti delle SS che tra il 1941 e il 1943 si
adoperarono nella fucilazione di più di un milione di ebrei nei
territori dell’Unione Sovietica occupata dalle truppe naziste, ci
annuncia la sua nuova opera su un altro soggetto inquietante del Terzo
Reich, il belga Leon Degrelle, collaborazionista ad oltranza di Hitler
e suo sodale oltre la sua morte. Degrelle, infatti, è stata una delle
icone del neonazismo internazionale. Della serie: a parlare del Male
non ci si fa male ma solo bene, soprattutto in termini di royalties,
ossia di diritti d’autore.
Claudio Vercelli |
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