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    22 dicembre 2008 - 25 Chislev 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Vi sono tanti significati nella celebrazione di Chanukkà, che si mescolano ed emergono con diverso rilievo, secondo lo spirito del momento e le sensibilità. In questi giorni può diventare anche la festa dei regali e delle lucine che si accendono e si spengono a intermittenza, o la festa della pace e della luce. Non bisogna dimenticare che Chanukkà è essenzialmente festa di resistenza e di recupero di valori originari, di purificazione e nuovo inizio, come il nome stesso di Chanukkà (=inaugurazione) suggerisce. La storia di questa festa è una grande sollecitazione a pensare ai continui sbandamenti del popolo ebraico, insoddisfatto della sua tradizione, alla perenne ricerca di qualsiasi cosa che sia esterna, seducente, sostitutiva e alternativa; e alla necessità di riproporre il modello tradizionale. Se questa risposta, qui da noi, sia espressione di "una pesantissima mentalità da ghetto che dimentica il profetismo messianico", un "irrigidimento del rabbinato italiano" che "finirà per condurre a un lento azzeramento dell'ebraismo italiano" (come ha dichiarato un autorevole commentatore ne Il Foglio del 20.12.2008) è cosa su cui bisogna discutere.
Sul supplemento culturale del Sole di ieri, Marco Carminati ricostruisce la storia, riemersa ultimamente dagli archivi grazie alle ricerche di Amalia Pacia, dell'acquisto nel 1939 del capolavoro di Caravaggio La Cena di Emmaus da parte della pinacoteca di Brera . E' una storia affascinante, e anche molto di attualità in questo anniversario delle leggi razziste del 1938, perché l'acquisto fu dovuto all'opera dell'ex sovrintendente di Brera, Ettore Modigliani, già trasferito all'Aquila nel 1935 e poi licenziato nel 1938 come ebreo. Carminati racconta dei rapporti di stima e rispetto tra Modigliani e il ministro dell'educazione Bottai, e di come grazie a quei rapporti l'acquisto del Caravaggio fu reso possibile. E ci descrive anche come subito dopo il regime sciolse l' associazione Amici di Brera, donatrice del quadro, come covo di antifascisti ed ebrei. L'articolo esalta le "doti intellettuali decisamente al di sopra della media nazionale" del ministro Bottai, contrapponendolo ad un giovane Argan, astro nascente del Ministero dell'Educazione fascista, che tenne alla cerimonia di acquisizione del quadro, nel 1940, la lezione su Caravaggio. Tutto vero, naturalmente. Peccato che la sua grande intelligenza e la sua apertura mentale non abbiano impedito a Bottai di essere fra i più caldi sostenitori delle leggi razziste e fra i più zelanti esecutori delle norme che cacciavano gli ebrei dalle scuole di ogni ordine e grado. E che, come risulta dall'articolo stesso di Carminati, il rispetto di Bottai per Modigliani non lo abbia indotto nemmeno a rispondere alla lettera in cui questi gli raccomandava l'acquisto del Caravaggio, ma soltanto a seguirne le indicazioni. L'intelligenza non giustifica tutto, e il ruolo positivo, in questa vicenda, non va certo all'illuminato ministro Bottai, ma ad Ettore Modigliani, che continuò a lavorare per dar lustro a Brera anche dopo esserne stato scacciato e senza poterne sperare alcun riconoscimento. Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  m_sarafatti"CDEC osservatorio insostituibile sull'antisemitismo” 
 
Sono giornate intense, queste, per Michele Sarfatti, direttore del  Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano (Cdec), storico e autore di numerose opere sulle vicende degli ebrei durante il Fascismo e sulla Shoà in Italia. Lo studioso (nell'immagine in una delle sale degli archivi della Fondazione) è intervenuto alla Commemorazione del settantesimo anniversario della promulgazione delle Leggi razziste a Montecitorio. Domani, martedì 23 dicembre, sarà protagonista alla Biblioteca Sormani di Milano di un convegno dedicato ai 70 anni dalle leggi del 1938. Dopo la miccia accesa dal Presidente Fini in occasione dell'intervento alla Camera, il telefono sulla sua scrivania dello studioso, ricoperta e circondata da carte e faldoni (più che in un ufficio ci troviamo in un archivio) non smette di squillare.
Sarfatti, che significato ha oggi questo evento storico che col passare del tempo appare sempre più lontano, con la scomparsa dei testimoni diretti?
Innanzitutto vorrei precisare che non ritengo appropriato utilizzare il termine “razziale” quando si discute di queste leggi al di fuori del contesto prettamente storico. È una parola troppo neutrale, che richiama un concetto naturale. Preferisco il termine razziste o antiebraiche.
Le testimonianze su ciò che accadde in quegli anni non mancano in innumerevoli forme, libri, film, documentari… Non siamo noi Ebrei a rischiare di dimenticarlo.
È di tutto il resto della società che dobbiamo preoccuparci. Soprattutto delle giovani generazioni. In Italia si è cominciato a parlare della persecuzione piuttosto tardi, e questo ha ostacolato l’elaborazione di una coscienza collettiva delle atrocità che si perpetrarono che è presente invece in altri paesi.
È dagli anni Ottanta che lavoriamo perché si crei una consapevolezza di tutto questo, e per consapevolezza intendo una combinazione di memoria e conoscenza.
Che cosa ha fatto il Centro di documentazione ebraica contemporanea per raggiungere questo risultato?
Il Cdec svolge tre importanti funzioni: raccoglie tutto il materiale sull’ebraismo in Italia e in particolare sulla Shoà, lo elabora, e lo mette a disposizione della conoscenza di tutti coloro che lo richiedono.
Abbiamo conseguito dei risultati importanti, come la pubblicazione de “Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-1945” a cura di Liliana Picciotto Fargion (Mursia, Milano 1991 e 2002), in cui sono raccolti i nomi, e soprattutto le storie e le identità di tutti gli ebrei deportati dall’Italia, oppure la creazione del sito www.osservatorioantisemitismo.it strumento di monitoraggio degli accadimenti antisemiti in Italia e in Europa.
Lei ha fatto riferimento alle giovani generazioni. Pensa che si possa spiegare ai ragazzi l’antisemitismo come qualcosa che coinvolge anche loro, al di là della scuola e dei libri?
Penso che questo sia possibile puntando su episodi specifici, vicini a quelle che sono le loro esperienze. Mostrare le circolari scolastiche che discriminavano gli studenti come loro. Raccontare di Arpad Weistz, allenatore ebreo ungherese che portò allo scudetto Inter e Bologna, prima di essere espulso dall’Italia e di morire infine ad Auschwitz. Questa può essere la chiave giusta per catturare la loro attenzione.
Quanto riesce il Cdec a raggiungere il pubblico per trasmettere queste testimonianze?
Siamo senz’altro un punto di riferimento per chi ci conosce e si occupa del settore.
Per quanto riguarda la comunicazione al grande pubblico e agli studenti c’è invece molto da lavorare. Per esempio la mostra sulle leggi antiebraiche che allestiamo nelle scuole è richiesta ogni anno da alcune decine di istituti, troppi rispetto alle nostre capacità, ma in assoluto decisamente troppo pochi.
È necessario un maggiore impegno da parte nostra, ma anche reperire più fondi, specialmente da fonti al di fuori dell’ambiente ebraico. Attualmente, infatti, sono proprio le istituzioni degli ebrei italiani che mettono a disposizione la maggior parte dei contributi.
Torniamo alla cerimonia del 16 dicembre e alle parole dell’on. Fini. Si aspettava un intervento del genere? Cosa pensa delle polemiche scaturite?
Sinceramente no. Pensavo sarebbe stato un discorso di circostanza, invece si è trattato di una rievocazione precisa e storicamente esatta.
È innanzitutto necessario distinguere tra ciò che accadde dal 1938 all’8 settembre 1943 e quello che avvenne dopo. Per salvare la vita degli ebrei in molti casi i conventi si aprirono. Ma davanti alla privazione dei loro diritti e alla persecuzione, che in fondo la Chiesa stessa perpetrava fino a pochi decenni prima (la piena emancipazione degli ebrei di Roma avvenne nel 1870 con la conquista del neonato stato italiano ndr) essa invece non reagì. Gli ebrei si ritrovarono soli. Ed è necessario che tutti ne prendano atto.
Collegandosi a questo discorso, qual è il suo giudizio sulla polemica tra la Santa Sede e il museo dello Yad Vashem in merito alla figura di Pio XII e sulla sua eventuale beatificazione?
Ciò che c’è scritto su quel pannello (in cui si fa riferimento al silenzio del Papa e alla mancanza di linee guida ndr) è esatto. Quello che qui in Italia non capiscono è che il riferimento al Pontefice non riguarda semplicemente il suo operato rispetto a tremila ebrei italiani, ma a tre milioni di ebrei polacchi e agli altri tre milioni provenienti da tutta Europa, che perirono nei lager nazisti. Pio XII non intervenne. Nel 1942 si rifiutò di firmare la dichiarazione degli Alleati che condannava lo sterminio degli ebrei. Tutto questo con i documenti a disposizione oggi è incontrovertibile. Quello che i giornalisti non raccontano è che, sempre allo Yad Vashem, due pannelli più in là, viene narrato come centinaia di Ebrei trovarono scampo presso gli istituti religiosi di Assisi. Non si vuole negare il fatto che tanti ebrei furono salvati grazie a sacerdoti e suore. Ma è necessario fare delle distinzioni. Ritengo che la beatificazione sia una questione interna alla Chiesa, in cui nessun altro possa interferire. Ma allo stesso tempo tutti devono poter esprimere la loro valutazione. E non credo che Pio XII potrà mai essere un “Giusto tra le Nazioni”.
 
Rossella Tercatin
 
 
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  Israel contro la "mentalità da Ghetto dell'Ortodossia"
Le difficoltà ebraiche con il Papa della Dominus Jesus.
Parlano i rabbini 

Roma. E’ sulla preghiera del venerdì santo e sulla causa di beatificazione di Pio XII che nelle scorse settimane si è innescato un moto di inimicizia fra la chiesa cattolica e il mondo ebraico. Ne parliamo con due fra i maggiori rabbini italiani e con il saggista Giorgio Israel, che sul Corriere della sera assieme del rabbinato di sospendere la giornata del dialogo. “L’importante è che si discuta”, ci dice il rabbino di Roma, Riccardo Di Segni. “E’ un rapporto che ha difficoltà oggettive legate alla storia e alla teologia cattoliche. E che emergono nei momenti di crisi. Karol Wojtyla era cerimoniale e spettacolare, Joseph Ratzinger ha un altro modo di comunicare. Questo Papa ha spinto per un miglioramento dell’atteggiamento della chiesa verso la questione della sicurezza dello stato d’Israele. Benedetto XVI è però convinto che gli ebrei, come depositari della prima alleanza, debbano sempre arrivare alla verità salvifica del cristianesimo, fino all’eskaton, la fine del mondo. E’ il pensiero del Papa della ‘Dominus Jesus’. Il problema è come conciliare questa affermazione di supremazia con la comunicazione con il mondo. E se la prima esigenza diventa centrale, non resta altro spazio”. Di Segni rintraccia un problema latente nel silenzio del cristianesimo sullo sterminio degli ebrei. “Esiste una grande sensibilità del mondo cattolico per i diritti umani e la chiesa di oggi non è quella di un tempo. Ma un conto è affermare i diritti umani in tempo di quiete, altra cosa era farlo allora, durante la guerra. E un tempo costava”.
Anche secondo Alfonso Arbib, nuovo rabbino capo di Milano, la situazione attuale è “una pausa di riflessione, non vogliamo interrompere il dialogo. Ma c’è stato un problema e si è trattato di un incidente che ha dimostrato una scarsa e profonda insensibilità cattolica. La rivendicazione dell’identità cattolica è forte nel Papa e non ho da obiettare,è legittima. Ma si deve tener conto anche delle sensibilità altrui. L’incidente sulla preghiera del venerdì, più che una scelta, è stato un problema di scarsa sensibilità verso l’ebraismo. I cattolici non possono chiedere la conversione. Ci sono invece elementi comuni da cui bisogna partire per accettare le differenze”. Anche Arbib giudica irrisolto il nodo della Shoah, come quello su Pio XII. “Il silenzio europeo durante la Shoah è stato doloroso e problematico. I maestri dicono che ci possono essere ottime ragioni per non reagire davanti all’ingiustizia. Ma se veramente quell’ingiustizia è inaccettabile, io reagisco. Il problema del silenzio è quanto tutto ciò fosse inaccettabile”.
Giorgio Israel parte da una prospettiva diversa, legge la crisi del dialogo dal punto di vista di un’involuzione dell’ebraismo italiano. “A mio giudizio il pontificato ha impostato il dialogo in modo corretto, ma tende anche a riaffermare con forza l’identità cattolica. E persino sul pianto rituale, con la preghiera del venerdì santo. E’ difficile da accettare dal punto di vista ebraico, perché avviene in un momento in cui da alcuni anni l’ebraismo italiano è entrato in una fase identitaria marcata, basata sul recupero dell’ortodossia. Secondo me questo irrigidimento del rabbinato finirà per condurre a un lento azzeramento dell’ebraismo italiano. C’è una pesantissima mentalità da ghetto che dimentica il profetismo messianico che parla a tutti.Per Gershom Scholem l’ebraismo si è retto sulla siepe della Torah e sull’utopia messianica, come quella sionista, che guarda al futuro. E quella più vitale è stata questa”. Secondo Israel, il dialogo deve partire dal libro di Ratzinger su Gesù. “Dalla conversazione con il rabbino Jacob Neusner. Ratzinger dice che se il cristianesimo perde il rapporto con l’ebraismo, smarrisce se stesso. E’ il terreno su cui incontrarsi. Ma questo ritorno fortissimo dell’ortodossia ebraica è pericoloso. E’ la fine del modello italiano che fu di Elio Toaff. In altri paesi, come negli Stati Uniti, si può essere ebrei in molti modi senza che ti vengano a chiedere conto. In Italia c’è un indurimento forte contro i matrimoni misti. E il numero degli iscritti sta precipitando. In Francia le comunità ebraiche invece accolgono tutti”. Quanto al tema della preghiera del venerdì, Israel dice: “Capisco la paura delle conversioni forzate, anticamente efferate. Oggi il contesto è rassicurante, anche se non nascondo che ci sia un certo antigiudaismo cattolico. Ma si deve favorire il proseguimento del rapporto. E’ debolezza la paura di essere convertiti. Da un lato c’è una mutilazione culturale drammatica con la chiusura alla chiesa. E dall’altro la parossistica apertura del rabbinato all’islam”. (gm)

Il Foglio, 20 dicembre 2008 
 
 
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Viviamo un tempo sospeso, un momento in cui ogni cosa potrebbe accadere e niente per il momento capita davvero. Per l’Italia e l’Occidente in genere è chiaro, si tratta dell’effetto vacanze: ogni cosa può attendere il veglione di capodanno, salvo le polemiche e le dichiarazioni che non si negano mai, neanche a ferragosto. Per il mondo, più seriamente, è l’effetto conto alla rovescia: mancano più o meno quattro settimane al cambio di presidenza americana, sei alle elezioni israeliane, due settimane appena alla scadenza dalla presidenza dell’autorità palestinese. Prima che la nebbia del cambiamento si diradi, sarà quasi primavera, per ora i protagonisti sembrano intenti a quella mossa che nel ciclismo su pista si chiama “sur place”: stare fermi aspettando che l’avversario faccia un errore per approfittarne.
Al lettore attento della rassegna, questa situazione però lascia molte perplessità, perché è difficile cogliere la razionalità delle posizioni. Per esempio, Gaza. Hamas non ha rinnovato la tregua che tanto aveva voluto. Ora tormenta di nuovo il sud di Israele coi razzi e coi mortai (Il Messaggero, Il Corriere). E’ possibile, speriamo proprio di no, che produca qualche danno serio. Ma per il momento il livello del bombardamento non è quello dei periodi più acuti di prima della tregua, né vengono usate armi qualitativamente nuove. Resta lo stillicidio dei danni, la crisi di nervi continua, il rischio per le vite di tutti. Cosa vuole allora l’organizzazione terrorista? Indurre Israele a un’operazione militare sulla striscia? Ma non sembrava che l’obiettivo fosse di evitarla? Mostrare al mondo arabo e ai palestinesi se stessa come unica forza resistente per davvero? Influire sulle elezioni israeliane? Contro Barak e per Benjamin Netanyahu ? E perché? Ma qual è la strategia difensiva di Israele? Olmert vuole l’intervento militare come sembra dal servizio di Carlino-Nazione-Giorno, dell’Unità e dal Messaggero? Oppure no, non ci pensa proprio, come sostiene lo Herald Tribune? Lo vuole forse Barak? E con che obiettivi? Rioccupare la Striscia? Sembrerebbe di no, sarebbe durissimo per tutti, ma il rischio è che accada proprio questo, a medio termine. O solo fare un po’ di pulizia e lasciare che le cose poi riprendano come prima? Certo, Livni ha dichiarato che il suo obiettivo da premier sarà di eliminare Hamas da Gaza. (Il Giornale, La Stampa). Ma quale governante israeliano non la pensa alla stessa maniera? Il problema è come, e questo Livni non ce lo spiega.
Ancora, Francesca Paci sulla Stampa dice che Olmert potrebbe firmare una pace con la Siria prima delle elezioni. La Siria sarebbe pronta ad abbandonare l’asse con l’Iran e a smettere di fare la base del terrorismo. Peccato però che la linea dura di Hamas sia stata dettata propria a Damasco da Mashal, che qualche settimana invece fa tutti davano per costretto a rifugiarsi altrove. E come potrebbe Olmert cedere il Golan e firmare una pace da solo, senza la maggioranza nel governo, in mezzo a una campagna elettorale molto combattuta, soprattutto sui temi della sicurezza? Ma poi, qual è la logica della Siria? E’ disponibile “la mafia di Assad” ha cambiare comportamento? Danielle Pletka sullo Herald Tribune pensa proprio di no: “ogni visione di trasformazione della politica della Siria assume che essa voglia diventare uno stato normale, mentre è vero il contrario. Per la sopravvivenza del regime è essenziale restare uno stato paria.”
Un discorso analogo si può fare sull’Iran. Oggi il Corriere pubblica un’intervista a Shirin Abadi, il premio nobel per la pace la cui fondazione è stata invasa ieri dagli agenti del regime. Il suo messaggio è “bisogna che Obama dialoghi con l’Iran”. Su che cosa, per ottenere che cosa, in cambio di che cosa: non è chiaro. La parola magica è “dialogo”: così si “guadagna” o piuttosto si perde del tempo e sull’atomica, si vedrà.  Cosa potrebbe “dare” Obama all’Iran? La testa di Israele? Il predominio nel Golfo? Certi conflitti sono nelle cose, non nella psicologia. Ma anche la strategia russa sull’Iran non è affatto chiara. Nei giorni scorsi si leggeva sui giornali che Putin stava mandando i primi pezzi del suo più avanzato sistema antiaereo agli iraniani, nonostante avesse promesso di non farlo. Oggi c’è una nuova smentita sul Jerusalem Post. Ma che interesse ha la Russia a rafforzare un vicino turbolento, naturalmente legato ai suoi nemici interni islamici del Caucaso, presto armato di atomica e già fornito di missili capaci di arrivare ben dentro il suo territorio? Qual è la razionalità di questa politica? Non si capisce.
Passando alla politica interna italiana, dobbiamo registrare l’ennesima bordata mediatica della Chiesa sulla questione delle leggi razziali e della Shoà, con una dichiarazione del cardinal Bertone, segretario di Stato, cioè primo ministro del Vaticano, che se la prende ancora con Fini. Ne parlano il Messaggero e La Stampa. La domanda che un lettore riflessivo deve farsi, dopo tanto clamore è ancora: perché? La questione dell’atteggiamento diciamo almeno contraddittorio della Chiesa rispetto a queste vicende era stato chiuso vent’anni fa dalle scuse di Giovanni Paolo II e dell’episcopato tedesco. Nessuno era particolarmente interessato a riaprirla. Allora, perché? Perché insistere su tesi indifendibili come un atteggiamento virtuoso della Chiesa sulle leggi razziali in Italia? C’è bisogno di ripetere che dopo la caduta del fascismo la Chiesa richiese che solo certi aspetti delle leggi razziali fossero abrogati – quelli che ledevano i suoi interessi “spirituali” – mentre il resto andava considerato con “prudenza”, dato il “pericolo” rappresentato dall’ebraismo? Bisogna proprio richiamare la decennali campagne razziste di “Civiltà cattolica”, l’organo dei gesuiti che oggi ha la faccia tosta di protestare contro le dichiarazioni di Fini? Andando al nocciolo della questione: qual è la ragione per rivalutare ostinatamente la figura di Pio XII? Alla fine la beatificazione ci sarà, è chiaro, ma il risultato, nonostante tutta questa campagna mediatica sarà un’immagine certamente più ambigua, una perdita di credibilità per la Chiesa. Qual è la ragione di questa scelta da parte di una burocrazia di solito così accorta come quella vaticana? Ci sono altre battaglie che il Vaticano fa sapendo di perderle, come quella sulla depenalizzazione dell’omosessualità (l’Unità dà la notizia che la mozione francese è stata approvata all’Onu): in questa maniera si stabiliscono certi principi “etici”, giusti o sbagliati che siano, e si chiarisce chi li difende, a futura memoria. Ma che principio si stabilisce contraddicendo aspramente Fini su cose che la Chiesa ha già ammesso ampiamente? L’infallibilità pontificia? Si pensa davvero che una menzogna ripetuta abbastanza a lungo diventi verità?

Dopo tanti dubbi, qualche spigolatura dalla rassegna. Il Corriere annuncia che Roma seguirà Parigi nel concedere la cittadinanza onoraria a Shalit: bravo Alemanno! 
Continuano i danni della truffa Madorff: qualche elemento di cronaca in più sulla Stampa, che parla dei danni alla sinagoga di New York del finanziere.
I salesiani di Betlemme si lamentano col Corriere che per via dei controlli di sicurezza non riescono a mandare a chiese e arcivescovi il loro vino per Natale. Se non fossero quelli che pochi anni fa, in occasione dell’“assedio” della basilica della Natività raccontarono un sacco di bugie per giustificare la banda di terroristi che si era impadronita della Chiesa, saremmo meno perplessi alla notizia. Dato il precedente, ci sarebbe piaciuto che Francesco Battistini, autore del pezzo, avesse fatto qualche verifica, per esempio, come nelle regole del buon giornalismo, una telefonata alla polizia di frontiera israeliana, un viaggio col camion bloccato. In assenza di qualunque verifica, sospendiamo il giudizio. Il Messaggero racconta con rilievo la storia di scritte antislamiche sul muro di una moschea di Giaffa.
Più importanti sono i due articoli di un dossier che il Sole  dedica alla questione dell’acqua in Medio Oriente (di Magliavacca Paolo  e Frankel Giorgio). La situazione è davvero drammatica, per il quarto anno di seguito Israele è in siccità, le piogge sul Kinneret sono la metà del normale. E naturalmente la politica c’entra, perché, per esempio, nelle trattative con la Siria l’accesso alle esauritissime risorse del lago è uno dei temi in discussione.
Un’ultima osservazione si può fare leggendo l’editoriale di Richard Michel Bôle su Le Monde, in cui rimprovera l’Unione Europea (presieduta dal presidente francese Sarkozy) di aver concesso un miglioramento delle relazioni diplomatiche a Israele. Noi spesso ci lamentiamo di avere una stampa molto schierata in senso anti-israeliano, a parte qualche eccezione. Se però guardiamo al comportamento di molti grandi giornali “di qualità” europei come Le Monde, per l’appunto, ma anche El pais, ci rendiamo conto che la loro informazione sul Medio Oriente somiglia ancor più a quella del Manifesto che a Repubblica, per non parlare che di giornali chiaramente schierati. E anche questo è un grande “perché?”. Perché dei giornali d’élite, pubblicati in paesi democratici che sono stati spesso colpiti da attentati terroristici, ignorano la differenza fra autodifesa e terrorismo, tutela del diritto all’esistenza e volontà di distruggere il nemico, fra una democrazia matura e vitale e bande armate, cleri oscurantisti e mafie familiari? Perché l’Europa è così cieca a un conflitto in cui è in gioco il suo stesso sistema di valori? Perché tanta ottusità ideologica? Ma questa è una domanda che certamente non troverà risposta neanche dopo la fine dell’attesa sur place di questi giorni.

Ugo Volli

 
 
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Fiamma Nirestein: “la CRI si impegni                                                
per la liberazione del caporale israeliano Shalit ”
Roma, 22 dic -           
Il vicepresidente della Commissione Esteri della Camera Fiamma Nirenstein (Pdl) ha dichiarato: "A nome dei 24 membri del Parlamento italiano che si sono recentemente recati in visita, esprimendo la propria solidarietà, alla città di Sderot, quotidianamente bombardata dai missili di Hamas, alcuni componenti della nostra delegazione, gli Onorevoli Pianetta (Pdl), Fallica (Pdl) e Lucà (Pd), hanno oggi consegnato un’importante missiva alla sede romana della Croce Rossa Internazionale (CRI): tale missiva, consegnata in copia alla famiglia di Ghilad Shalit, chiede che la CRI si impegni per la liberazione del caporale israeliano Shalit, rapito nei pressi del confine con Gaza più di 900 giorni fa. Di questo soldato non si ha alcuna notizia: i rapitori dimostrano il loro disprezzo per ogni forma di rispetto delle convenzioni internazionali che pongono fra i diritti umani quello delle famiglie di avere notizie dei prigionieri.
"Durante il colloquio odierno, i rappresentati della Croce Rossa hanno confermato la gravità della situazione, in totale violazione dei principi delle Convenzioni di Ginevra e hanno posto la questione della mancanza di controparte per avanzare delle trattative con i detentori del soldato israeliano.
Purtroppo, invece, l’interlocutore esiste e si è mostrato in tutta la sua crudeltà anche recentemente quando, domenica scorsa, Hamas, tra le celebrazioni a Gaza per il proprio 21esimo anniversario, ha inserito la ripugnate messa in scena in cui una comparsa nei panni dell’ostaggio Gilad Shalit, dipinto come un vile, implorava libertà in ebraico piagnucolando, nel ludibrio della folla.
"La Croce Rossa è quindi chiamata ad uno sforzo umanitario importante e difficile, ma non c’è dubbio che tramite Hamas si potrebbero avere notizie su Ghilad Shalit.
Nei prossimi giorni la delegazione si incontrerà anche con il Commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca, il quale ha espresso, tramite il Direttore Generale, il suo interessamento a fare sì che il caporale Shalit non venga considerato un nemico, ma un essere umano, secondo lo spirito di umanizzazione dei conflitti che inspirò l’istituzione della Croce Rossa 150 anni fa, sui campi della battaglia di Solferino. Ringraziamo sentitamente per queste dichiarazioni la Croce Rossa e speriamo in sviluppi positivi".


Cittadinanza romana al soldato Gilad Shalit
Roma, 21 dic -
Il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha accettato la proposta fatta dal presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici: “'Mi sembra un'ottima idea dare la cittadinanza romana al soldato israeliano catturato da Hamas, Gilad Shalit. Volevamo dare un segnale di solidarietà' alla comunità''  -  queste le parole pronunciate dal sindaco nel suo intervento alla cerimonia di accensione della Channukkià a Piazza Barberini.
Pacifici aveva invitato Alemanno a seguire l'esempio del sindaco di Parigi Bertrand Delanoe, l'assenso del sindaco non si è fatto attendere.


Olmert, tutte le misure necessarie per interrompere il lancio di razzi
Gerusalmme, 21 dic -
Razzi da Gaza verso i centri abitati israeliani. Il premier israeliano Ehud Olmert ha dichiarato che verranno prese tutte le misure necessarie per porvi fine.
"Un governo responsabile - ha detto il premier israeliano Ehud Olmert ai ministri - non è mai ansioso di andare in battaglia ma nemmeno la teme. Noi prenderemo tutte le misure necessarie”. “Ho discusso la situazione - ha continuato il premier - col ministro della difesa e col ministro degli esteri: gli scenari sono chiari e il governo saprà cosa fare e quando".
Poco prima della dichiarazione del premier una fonte della difesa, citata dalla radio pubblica,  aveva dichiarato che Israele e Hamas - il movimento islamico al potere a Gaza - sono su una rotta di collisione e che uno scontro sarà inevitabile.
Un portavoce militare ha detto che l'aviazione ha condotto a Gaza un raid contro un gruppo di militanti armati che si apprestavano a lanciare razzi. I tiri di razzi sono stati rivendicati dalla Jihad Islamica e un suo portavoce, Abu Ahmed, ha detto che gli abitanti nelle aree israeliane sotto fuoco continueranno a non avere quiete fino a quando Israele continuerà a tenere chiusi i valichi con Gaza e a privare la popolazione palestinese di tutto quanto necessita.
 
 
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