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L'Unione informa
 
    2 gennaio 2009 - 6 Tevet 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
"Allora Yosef non potè più contenersi dinnanzi ai circostanti e gridò : Fate uscire tutti dalla mia presenza" (Parashà Vaigash). Rav Israel Meir HaCohen spiegava: "/Non potè contenersi/ significa che Yosef avrebbe voluto trattenersi e non rivelarsi ai fratelli prima di aver portato anche il padre in Egitto. In tal modo si sarebbero avverati i suoi sogni di veder inchinati a lui il sole e le undici stelle. Purtroppo /i circostanti/, ossia i non ebrei presenti, che non avrebbero capito le sue intenzioni e le avrebbero interpretate come un'ingiustizia, lo costrinsero a manifestarsi. Così sarà per sempre molti sogni non si avvereranno per paura delle opinioni dei gentili".
Famiglia, società, nazionalità sono estensioni del nostro Sè. Il compito delle religioni dovrebbe essere il superamento di queste nozioni limitative, invece che di crearne delle nuove.
Vittorio Dan Segre,
pensionato
Anna Foa, storica  
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  annette wieviorkaMemoria 1 - Wieviorka:
un diverso modo di concepire la storia

Presidiare la Memoria. Tutelarne le sue fonti autentiche, con rigore, con passione, con libertà di spirito, con una profonda fedeltà alle proprie radici. Pochi, nella sua Francia e in Europa, hanno dato tanto e in modo più autorevole e trasparente su questo fronte, uno dei più delicati della realtà ebraica contemporanea, di Annette Wieviorka. Sessant'anni passati in un soffio, quello che ha fatto attraversare all'ebraismo europeo la seconda metà del 900 e lo ha proiettato nel nuovo millennio con poche certezze e molti valori da difendere. Quelli che hanno segnato le speranze dei suoi genitori, entrambi sopravvissuti alla Shoah, progressisti, bundisti, strenuamente impegnati nel sogno di costruire una società più giusta che non rinneghi l'eredità dei padri, ma la integri nel dibattito politico contemporaneo.
Decenni di lavoro dedicati alla raccolta di testimonianze, allo studio minuzioso, spesso straziante dei meccanismi di distruzione e di terrore che hanno inghiottito la maggior parte dell'ebraismo d'Europa, alla denuncia di come tutto ciò ha potuto accadere.
E una scelta coraggiosa, quella di non nascondersi mai dietro le ritualizzazioni di comodo, dietro al palco delle cerimonie ufficiali che rischiano di confinare la Memoria in una teca e di imbalsamare il contenuto ebraico di questo processo doloroso.
Per chi la conosce solo attraverso la sua attività accademica, Annette Wieviorka è la prestigiosa docente del Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs),la più autorevole istituzione accademica d'Oltralpe. E' uno dei maggiori esperti viventi di Storia della Shoah e di storia ebraica del XX secolo. E' l'autrice saggi indimenticabili come “L'Ère du témoin” (“L'era del testimone”, Raffaello Cortina editore), “Déportation et génocide. Entre la mémoire et l'oubli” (Deportazione e genocidio, fra la memoria e l'oblio), “Auschwitz, la mémoire d'un lieu” (Auschwitz, la memoria di un luogo). E' la voce di un libro che parla al cuore di centinaia di migliaia di ragazzi in decine di lingue diverse, “Auschwitz expliqué à ma fille”, Éditions du Seuil (“Auschwitz spiegato a mia figlia”, Einaudi) che ai negazionisti è costato più di mille condanne in tribunale. Per chi la va a visitare nel suo salotto di rue du Faubourg Poissonnière, nel nono arrondissement di Parigi, là dove al termine del secondo conflitto mondiale hanno trovato rifugio decine di migliaia di sopravvissuti e dove scorre ancora il magma di una realtà ebraica viva, Annette è una donna che non depone le armi nemmeno quando serve una tazza di caffè. Che ha i modi diretti dei combattenti dei ghetti da cui discende. Una donna che qualcuno ha chiamato la Signora Memoria, e che alla Memoria ha consacrato tutto. Ma alle convenzioni di comodo non è disposta a cedere nemmeno un millimetro.
La cultura della Memoria che con un immenso lavoro di documentazione e di ricerca è stata stabilita negli scorsi decenni, Annette Wieviorka, resta perennemente minacciata dai revisionismi e dall'oblio. Cosa possono fare gli ebrei contemporanei per tutelarla?
E' intanto necessario comprendere che la Memoria così come siamo ormai abituati a concepirla, non è un dato di fatto assoluto, ma piuttosto il risultato di una specifica situazione storica. La memoria diffusa, insegnata, praticata e per certi versi istituzionalizzata è nata dal lavoro degli studiosi, ma anche da una specifica contingenza storica. Una situazione che si è manifestata nel 1989 e si è esaurita nel 2001. Il riemergere delle tensioni, le crisi economiche, i contrasti e le incertezze sociali
segnano la fine di un concetto generico, buonista e tranquillizzante di memoria e pongono l'interrogativo di come riformulare una concezione autentica della Memoria.
Dalla fine della Guerra fredda, dalla caduta del Muro di Berlino, all'attentato delle Torri Gemelle. Sarebbe a dire che oggi siamo già nel pieno di una svolta, di un capitolo successivo che ancora dobbiamo imparare a conoscere e di cui non sappiamo tutte le conseguenze?
Esattamente. La Memoria in quanto istituzione, l'affermazione chiara che la ferita della Shoah esige una riparazione è un concetto che è emerso in una parentesi in cui le tensioni delle contrapposizioni fra blocchi sono cadute, in un mondo dove ha governato un'unica superpotenza. In una situazione economica di crescita costante, di relativa stabilità, di ottimismo. Oggi non è più così.
E la Memoria, è minacciata?
Abbiamo di fronte la dimostrazione di quanto sia illusorio pensare che la Memoria di massa sia conquistata una volta per tutte, sia un concetto che si riafferma perpetuamente in automatico senza la necessità del nostro lavoro e della nostra attenzione.
Ma le leggi che hanno istituito in varie realtà europee la necessità e la tutela di questo concetto non sono sufficienti a stabilizzare la situazione?
Ero presente a Strasburgo, e sono stata ascoltata, quando il Parlamento europeo ha elaborato la proposta rivolta ai Governi nazionali di fare del 27 gennaio, la giornata dell'abbattimento, nel 1945, dei cancelli di Auschwitz, una giornata da dedicare al ricordo. Ricordo di aver messo in guardia contro i rischi di un'iniziativa del genere. Noi francesi abbiamo già un gran numero di occasioni pubbliche per ricordare il valore della Resistenza, l'orrore delle deportazioni e della Shoah. Il problema non era tanto quello di inquadrare nuovamente tutta questa materia in una iniziativa di legge, ma di rendere la Memoria effettivamente viva e vissuta. In molte altre realtà, fra cui l'Italia, erano ben diverse. L'esiguità numerica della presenza ebraica e altri fattori sociali hanno finito per polarizzare sul Giorno della Memoria un'attenzione quasi esclusiva e molto influenzata dal rapporto con le istituzioni.
Cosa intende?
Penso che il tavolo del confronto sul problema della Memoria è divenuto in molte realtà europee, e anche in Francia, il terreno privilegiato, talvolta quasi esclusivo, di confronto fra la minoranza ebraica e le istituzioni.
E questo, a suo avviso, comporta un rischio? Rischiamo di entrare in un vicolo cieco?
Ognuno è libero di interpretare le cose come preferisce. Dico solo che si tratta di un fenomeno che non possiamo ignorare, perché in un modo o nell'altro tende a condizionare la nostra esistenza di minoranza e la nostra capacità di esprimere noi stessi e il messaggio di cui vogliamo farci portatori.
Possiamo citare alcuni esempi concreti?
Certo. Possiamo osservare che sulla Memoria si dimostrano non a caso particolarmente sensibili governi e istituzioni ansiose di far dimenticare qualche imbarazzo del passato (per esempio una politica di estrema tolleranza nei confronti di Arafat e del terrorismo palestinese, o radici che affondano nel terreno avvelenato dell'estrema destra antisemita). E possiamo osservare che in occasioni di importanti contatti istituzionali le istanze che provengono dal mondo ebraico e le disponibilità che provengono dal mondo politico tendono a incrociarsi sul terreno della Memoria.
Un esempio concreto?
L'incontro annuale del Conseil représentatif des institutions juives de France (Crif), la massima istituzione della minoranza ebraica in Francia, cui tradizionalmente partecipa il Primo ministro. Analizzando i contenuti del saluto rivolto alla minoranza ebraica da parte di chi tiene il timone della Francia anno dopo anno possiamo constatare che il tema della Memoria è sempre ben presente. Una volta c'è all'ordine del giorno la costituzione della Commissione Mettéoli e della Missione di studio sulla spoliazione degli ebrei di Francia, una volta la risistemazione del padiglione francese ad Auschwitz, per esempio, ma questo continuo desiderio di rilancio porta poi a giocare con concetti molto importanti e molto delicati in maniera incontrollata. E si arriva all'episodio dello scorso anno, in cui il Primo ministro Nicolas Sarkozy ha annunciato l'idea che ogni scolaro francese avrebbe potuto adottare simbolicamente uno dei suoi coetanei che furono sterminati nella Shoah. Un'idea densa di risvolti delicatissimi, di rischi che non erano stati sufficientemente valutati. Che è stata inseguito da più voci messa da parte e che infine lo stesso Governo ha finito per tralasciare.
Con queste considerazioni lei sembra associare la sua voce a quella di numerosi intellettuali ebrei contemporanei, che ben distinguendo ovviamente la propria posizione da quella dei negazionisti, stanno vagliando in maniera molto critica gli effetti di una Memoria istituita ex lege.
La situazione in cui ci troviamo è densa di rischi. La Memoria deve essere difesa strenuamente, ma contemporaneamente, proprio perché vogliamo difenderla e vogliamo che resti cosa viva, dobbiamo accettare un processo di riflessione critica aperto e trasparente.
Cosa deve passare al vaglio di questo processo?
Il tema è molto complesso, ma per indicare alcune piste vorrei dire che la Memoria non può essere vittimismo, deve restare affermazione positiva di identità e di autenticità storica. Deve essere agganciata ai problemi della società contemporanea. Deve essere materia viva di studio e di conoscenza. Non c'è spazio per l'ombra del vittimismo, se vogliamo davvero difendere il concetto autentico di Memoria. La minoranza ebraica è depositaria di esperienze immense che possono portare elementi preziosi nell'ambito della società che ci circonda. Non possiamo accontentarci di fare bela figura quando ci chiamano a presenziare a determinate cerimonie. Siamo noi, di conseguenza, che dobbiamo trovare la forza d proporre una visione sana e corretta della Memoria.
Lei siede in alcune delle più prestigiose istituzioni francesi e internazionali che dedicano i loro sforzi ad affrontare questi temi. Come vede evolversi questa coscienza al loro interno?
Sono appena rientrata da una riunione della giuria del concorso annuale per la tutela dei valori espressi dalla Resistenza e contro la deportazione in Francia. Si tratta di una grande iniziativa che coinvolge molte scuole francesi e tutte le organizzazioni di ex deportati. La giuria è composta da 40 persone e fra di loro ho contato tre anziani, che rappresentavano il mondo di chi era in grado di portare una testimonianza e una conoscenza diretta sul tema. Tutti gli altri componenti erano rappresentanti di enti pubblici e di fondazioni private, direttori di musei, docenti di vario genere. Tutte persone degnissime, ma che traggono la loro esclusiva legittimazione dal fatto di aver ottenuto un impiego in questo settore. Sono funzionari della Memoria, appositamente retribuiti. E la Memoria rischia di ridursi a un'ideologia, se non addirittura a un'industria.
C'è qualcosa di male a far crescere una generazione di funzionari e di impiegati specializzati su questo tema?
Qui non si tratta di dare giudizi moralistici, ma solo di mostrare una situazione particolarmente delicata che dovrebbe essere valutata con attenzione dalle realtà ebraiche. Una situazione che rischia di sfuggire di mano e che potrebbe portarci là dove non sappiamo o forse non vogliamo andare. Esiste una categoria di persone che a vario titolo lavora attorno al concetto di Memoria. Ed è retribuita per questo. Forse non c'è niente di male o forse sì. Ma in ogni caso, è di questo che vogliamo accontentarci?
Alla pagina del prossimo 27 gennaio, cosa c'è segnato nella sua agenda?
Per adesso è ancora bianca. Ricevo diversi inviti, ma ora sto cercando la mia strada e faccio fatica ad accettare di andare a fare una parte che non sento mia. Cerco di partecipare a occasioni che tendono a mettere in chiaro come ci siano ebrei che non si accontentano, che cercano nuove strade. E le cercano non certo per mettere la Memoria in seconda piano, ma proprio per offrire alla Memoria la migliore difesa possibile.
Nell'ambito del mondo accademico francese ha avviato un seminario alla Sorbona in collaborazione con studiosi di diverse discipline, come il giurista, Antoine Garapon, che è autore di un saggio recente e appassionante, “Peut on reparer l'Histoire”, Odile Jacob (“E' possibile riparare la Storia?”). E' un percorso di ricerca di si interseca o si distanzia dal suo impegno di storica della Shoah?
E' un lavoro difficile e molto stimolante che tenta di portare una visione ebraica in un grande tema dei nostri tempi. La storia che vogliamo studiare, conoscere e insegnare non è una materia inerte, ma uno strumento per agire nella realtà. La possibilità di emendare la Storia, di ripararla, di curarne in un certo modo le ferite, e come, e quando, e quanto, credo sia uno dei grandi problemi dello storico e anche del giurista ebreo contemporaneo. Su questo tema, ne sono convinta, abbiamo molto da dire. E la voce di questa minoranza, che qualcuno aveva sperato di spegnere per sempre, continuerà a risonare alta e chiara nel mondo in cui viviamo.

Guido Vitale

 
 
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  Un discutibile omaggio

Al Concerto di Capodanno il secondo brano eseguito dall'orchestra dei Wiener Philarmoniker diretta da Daniel Barenboim è stato il valzer di Johann Strauss, "Märchen aus dem Orient". È stato annunciato con enfasi trattarsi di un omaggio che i Wiener Philarmoniker hanno voluto tributare a Barenboim, direttore israelo-argentino attivissimo sul fronte pacifista e per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Un omaggio particolarmente appropriato in queste ore di guerra, è stato il commento. Certo: Favole dall'Oriente... Capite l'allusione? In verità va ricordato che Barenboim è stato grande amico del defunto intellettuale americano-palestinese Edward Said, accanito sostenitore della causa palestinese, aspro critico di Israele e della "lobby ebraico-sionista", e soprattutto noto per il libro "Orientalism" che stigmatizza l'immagine razzista dell'Oriente fabbricata dalla cultura occidentale. Insomma, se volevano fare una gaffe dedicando a Barenboim un valzer come questo, quintessenza del più sfrenato orientalismo mitteleuropeo, non potevano riuscirci meglio... Che dire? Siamo di fronte alla rappresentazione della confusione culturale dei nostri tempi? Di certo, un simile pasticcio si accorda a pennello con la mediocre figura di intellettuale di Said, che ha lasciato in eredità poche idee male imbastite e molto odio.

Giorgio Israel, storico della scienza
 
 
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Ma la questione di Gaza è un problema eminentemente umanitario oppure politico? Ovvero, al di là dell'emergenza - che da quando Hamas è andata al potere non è mai venuta meno - per essere affrontata, nell'intrico di questioni che solleva, e per trovare una giusta soluzione, richiede che ci si lacrimi il volto e ci cosparga il capo di cenere mentre ancora una volta si denuncia la ferocia degli "aggressori" israeliani o, piuttosto, che si metta mano al vero problema, quello di una leadership politica palestinese che riesce a sopravvivere grazie allo stato di continue tensioni che alimenta? Se lo chiede, con lucidità, Carlo Panella su il Foglio, denunciando inettitudini e inebetudini degli spettatori di sempre, a partire dall'Unione Europea e dai suoi maggiori protagonisti, la Francia e l'Inghilterra. Altro discorso è il profilo assunto dalla Germania di Angela Merkel, che si è intelligentemente dissociata da atteggiamenti di principio tanto eclatanti quanto inconcludenti. Sempre su il Foglio si fa menzione dell'iniziativa francese per una tregua, che raccoglie assensi assai tiepidi se non nulli. L'impressione è che il vero oggetto di tanta sollecitudine non sia la sicurezza d'Israele e dei palestinesi bensì la visibilità del presidente francese Nicolas Sarkozy la cui politica da sempre è molto attenta alle luci della ribalta mediatica. Il diniego di Tzipi Livni c'è raccontato da Francesca Pierantozzi su il Messaggero, da Aldo Baquis su la Stampa e da Liberal per la penna di Vincenzo Faccioli Pintozzi. Quest'ultimo, riprendendo come fonte il quotidiano Haaretz, ci riferisce quanto l'offensiva antiterroristica a Gaza sia condivisa da un cospicua parte della popolazione israeliana: «Il 52 per cento vuole infatti che i raid proseguano, mentre il 19 per cento ritiene che si dia il via anche 
all' offensiva di terra. Solo il 20 per cento […] chiede si raggiunga un cessate il fuoco "il prima possibile"». Sarà anche per questo che Anna Momigliano su il Riformista si interroga del «silenzio dei pacifisti israeliani». Sul versante della lacrime, invece, si assesta ancora una volta Liberazione con Francesca Marretta che riconduce le dinamiche in corso ad un mero confronto tra buoni e cattivi. Inutile dire chi siano i primi e quali i secondi. Quanto ciò corrisponda al grado zero della politica l'autrice di quell'articolo, come di un altro, comparso sempre sul numero odierno di Liberazione e dedicato a una donna palestinese, Umm Kamel al Kurd, «profuga in casa propria», sembra non volerlo sapere. Finché si pigierà il tasto del "caso umanitario" senza cogliere, denunciare e eliminare le ragioni che fanno di circa due milioni di palestinesi gli ostaggi di Hamas, ben poco se non nulla si potrà ottenere. Un problema in tal senso è la condiscendenza europea verso l'organizzazione terroristica che c'è ricordata da Maurizio Stefanini su Libero, dove si racconta quanto (e quanti) degli aiuti per Gaza vadano in mano ad Hamas, direttamente ma soprattutto indirettamente. Un'analisi politica è invece quella offertaci da Stranamore - ovviamente uno pseudonimo - che su Liberal parla di «battaglia degli Osservatori», ovvero di come «la battaglia diplomatica si gioca sul "come" controllare Hamas». La stessa cosa, ma con un taglio radicalmente diverso, la fa Giampaolo Calchi Novati, docente universitario e insigne studioso di questioni internazionali, per il Manifesto. Lo si legga con attenzione quest'articolo, poiché è una sorta di lucido vademecum delle posizioni di una parte della sinistra terzomondista, quella più conscia dello stato delle cose. Se le note ipercritiche verso Israele non vengono mai dismesse c'è la consapevolezza che la strategia palestinese – se di strategia si può parlare – sia oramai alla sua stazione terminale. In buona sostanza, l'autore registra, sia pure obtorto collo, la sconfitta di quella parte del mondo arabo che ha puntato tutte le sue carte sulla radicalizzazione del confronto con Israele. Il rischio, per i seguaci e i sostenitori di Hamas, è di trovarsi abbandonati per sempre a sé. Così anche Guido Rampoldi su la Repubblica quando nel suo reportage sui luoghi del conflitto si interroga su «Dove sono i leader arabi? Così la guerra nella Striscia uccide la solidarietà islamica». Va in tal senso anche l'intervista sul Corriere della Sera di Viviana Mazza al commediografo Ali Salem, quand'egli afferma lapidariamente che «è guerra tra estremisti e Stati moderati». Il rischio ultimo, ammonisce Francesco De Leo su il Riformista, è per i palestinesi di trovarsi in pessima compagnia, ovvero con il fondamentalismo iraniano che si basa su uno stato di mobilitazione ed eccitazione costante degli spiriti, di contro al bisogno di sicurezza e pace che gli abitanti della Striscia e soprattutto della Cisgiordania rivendicano, sia pure tra i clamori e i boati del confronto in corso.

Chi non perde invece l'occasione per manifestare il suo livore metafisico contro Israele è l'ineffabile Michel Warschawski che, sempre su il Manifesto racconta di come ad animare le scelte di Gerusalemme sia «una logica genocida», prodotto di una «guerra globale permanente e preventiva degli strateghi neoconservatori in forza a Tel Aviv». La grossolanità e la tracotanza della scrittura di Warschawski, un "pacifista" animato da una visione apocalittica (già alcuni anni fa aveva predetto il crollo prossimo venturo dello Stato d'Israele), soddisfa i palati degli antisionisti di sempre ma aiuta ben poco, se non nulla, a capire qual è il vero stato della situazione. Come risposta, sia pure indiretta, si veda Antonio Polito su il Riformista dove denuncia a chiare lettere il «discorso antisionista» di Tariq Ramadan che sullo stesso quotidiano, in una sorta di manifesto ideologico, parla del «genocidio di Gaza». Ci ridà invece un po' di fiato la lettura dell'articolo di Francesco Bonami, sempre  su il Riformista, dove l'umanità degli uni e degli altri torna a fare capolino, evitando letture demonizzanti. Su questa falsariga, e per cogliere lo spirito degli israeliani si legga su il Tempo della storia di Romolo Efrati, scampato dalla deportazione nel 1944 e ora sotto il pericolo incombente dei razzi ad Ashkelon. Quella che è invece la situazione sul campo ci è raccontata da numerosi articoli di descrizione, valutazione e commento. Tra i tanti, per non appesantire i lettori, ci limitiamo a richiamarne solo alcuni. Segnaliamo Benny Morris su il Sole, David Bidussa su il Secolo XIX e Segre su il Giornale. Su il Foglio si parla delle «due opzioni d'Israele», soffermandosi sulla necessità ma anche sui rischi di una operazione di terra. Cose similari sono dette da Gian Micalessin su il Giornale mentre il Corriere della Sera con Davide Frattini, il Messaggero con Eric Salerno, la Repubblica con Fabio Scuto fanno il punto dell'evoluzione del confronto.

Che il conflitto abbia, ancora una volta, una forte caratura mediatica (ovvero, sia soggiacente, nelle sue interne dinamiche, al gioco perverso della visione della sua cruenza, esposta mediaticamente come un prodotto da usare e consumare seduti dinanzi al televisore) è, come già dicevamo, palese. Per confortare tale impressione ci riferiamo ad una notizia apparentemente di secondo profilo, richiamata da il Sole e da le Monde, ossia le minacce di assassinio rivolte contro sei personalità del mondo ebraico francese. Uno dei target è il filosofo Bernard Henry-Levy, noto per le sue prese di posizione pubbliche e personaggio dell'establishment intellettuale europeo. La sua visibilità mediatica lo ha reso obiettivo di quelle organizzazioni del terrorismo islamista la cui fortuna, per così dire, è legata all'eclatanza delle azioni. Il perverso legame che intercorre tra violenza e sua esposizione mediatica è, in questo caso, ancor più evidente. Ed allora, a partire da questo episodio (che confidiamo non traduca la minaccia in atto) ci permettiamo di rilevare, da operatori dell'informazione quali siamo, come tutta la vicenda del confronto israelo-palestinese non di meno non sfugga a questa regola della enfatizzazione: gli scenari rispondono ad aspettative di permanente teatralizzazione, quasi che si trattasse di uno spettacolo che deve riprodursi all'infinto. A latere di questa riflessione si pongono gli articoli di Abc e del Sole sul ricorso a internet e agli sms per contrastare l'offensiva di opinione condotta dalla parte avversaria.

Della irrisolta dialettica tra realtà e finzione alcuni giornali oggi tornano a parlare, attraverso i richiami alla querelle innescatasi dinanzi alla scoperta di un falso (non certo il primo) sulla Shoah, il libro «Angel at the fence». Il preannunciato best-seller, promosso nel suo show televisivo da Ofra Winfrey, che parlava di un amore dietro il filo spinato, si è rivelato un bluff. Le cose scrittevi non sono mai successe. Così Mauro Baudino su La Stampa e Maria Serena Pallieri su l'Unità. Più che a inquietare per la messinscena, ad uso e consumo di un pubblico che vuole a tutti i costi delle "storie", possibilmente a lieto fine, e di una editoria che offre oramai testimonianze e fantasie sul medesimo piano, c'è di che riflettere di come le memorie della Shoah si siano oramai trasformate in un genere letterario a sé. Diventa secondaria la loro veridicità mentre conta sempre di più il plot narrativo, che deve rispondere a canoni precisi, in grado per l'appunto di appagare il lettore medio, che si accosta alle storie delle deportazioni, soprattutto di quelle individuali e familiari, non troppo diversamente da come apre e legge i libri sulla storia romana ricostruita da abili divulgatori che attualizzano fatti ed eventi trascorsi, rendendoli materia di facile manipolabilità. Piace l'aspetto sentimentale e pietistico, in buona sostanza, mentre disturba tutto il resto. Un giorno, ne possiamo essere certi, anche il conflitto mediorientale verrà ricostruito secondando questi canoni. O, forse, già sta avvenendo. Ma allora più che di cronaca stiamo parlando di quella che certuni chiamano "storia attuale" o storia del presente. La battaglia si svolge soprattutto sul terreno delle rappresentazioni, a ben vedere. Non è per nulla detto, allora, che Israele la possa vincere, data l'altrui potenza di fuoco.

 Claudio Vercelli

 
 
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MO: Missione UE in medioriente per il cessate il fuoco                  Bruxelles, 2 gen -
La missione di pace in Medioriente, primo importante impegno per la nuova presidenza ceca sotto la guida di Topolanek,che però non ne farà parte, si accavallerà con il viaggio del presidente francese Nicolas Sarkozy che si recherà in Egitto, Cisgiordania, Israele lunedì e in Siria e in Libano martedì. Le due delegazioni terranno molto probabilmente un incontro comune con il presidente dell'Autorità palestinese (ANP) Abu Mazen. L'ottenimento di una tregua umanitaria a Gaza è stato l'ultimo impegno della presidenza francese ed è il primo di quella ceca, ma finora le risposte delle due parti sono state negative.La delegazione europea sarà guidata dal ministro degli esteri ceco Karel Schwarzenberg e si recherà al Cairo, a Tel Aviv, a Ramallah e ad Amman per incontri "con personalità di alto livello". "L'obiettivo prioritario è ottenere subito un cessate il fuoco che metta fine alla perdita di vite umane", hanno sottolineato le fonti. Ieri, parlando alla televisione ceca, il premier aveva rilanciato il ruolo della Ue nell'iniziativa per una tregua, "non potendo contare - aveva detto - sull'Amministrazione americana". 
 
 
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