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L'Unione informa
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2 gennaio 2009 - 6
Tevet 5769 |
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alef/tav |
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Roberto
Colombo,
rabbino |
"Allora
Yosef non potè più contenersi dinnanzi ai circostanti e gridò : Fate
uscire tutti dalla mia presenza" (Parashà Vaigash). Rav Israel Meir
HaCohen spiegava: "/Non potè contenersi/ significa che Yosef avrebbe
voluto trattenersi e non rivelarsi ai fratelli prima di aver portato
anche il padre in Egitto. In tal modo si sarebbero avverati i suoi
sogni di veder inchinati a lui il sole e le undici stelle. Purtroppo /i
circostanti/, ossia i non ebrei presenti, che non avrebbero capito le
sue intenzioni e le avrebbero interpretate come un'ingiustizia, lo
costrinsero a manifestarsi. Così sarà per sempre molti sogni non si
avvereranno per paura delle opinioni dei gentili".
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Famiglia,
società, nazionalità sono estensioni del nostro Sè. Il compito delle
religioni dovrebbe essere il superamento di queste nozioni limitative,
invece che di crearne delle nuove.
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Vittorio
Dan Segre,
pensionato |
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davar |
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Memoria
1 - Wieviorka:
un diverso modo di concepire la storia
Presidiare la Memoria.
Tutelarne le sue fonti autentiche, con rigore, con passione, con
libertà di spirito, con una profonda fedeltà alle proprie radici.
Pochi, nella sua Francia e in Europa, hanno dato tanto e in modo più
autorevole e trasparente su questo fronte, uno dei più delicati della
realtà ebraica contemporanea, di Annette Wieviorka. Sessant'anni
passati in un soffio, quello che ha fatto attraversare all'ebraismo
europeo la seconda metà del 900 e lo ha proiettato nel nuovo millennio
con poche certezze e molti valori da difendere. Quelli che hanno
segnato le speranze dei suoi genitori, entrambi sopravvissuti alla
Shoah, progressisti, bundisti, strenuamente impegnati nel sogno di
costruire una società più giusta che non rinneghi l'eredità dei padri,
ma la integri nel dibattito politico contemporaneo.
Decenni di lavoro dedicati alla raccolta di testimonianze, allo studio
minuzioso, spesso straziante dei meccanismi di distruzione e di terrore
che hanno inghiottito la maggior parte dell'ebraismo d'Europa, alla
denuncia di come tutto ciò ha potuto accadere.
E una scelta coraggiosa, quella di non nascondersi mai dietro le
ritualizzazioni di comodo, dietro al palco delle cerimonie ufficiali
che rischiano di confinare la Memoria in una teca e di imbalsamare il
contenuto ebraico di questo processo doloroso.
Per chi la conosce solo attraverso la sua attività accademica, Annette
Wieviorka è la prestigiosa docente del Centre National de la Recherche
Scientifique (Cnrs),la più autorevole istituzione accademica
d'Oltralpe. E' uno dei maggiori esperti viventi di Storia della Shoah e
di storia ebraica del XX secolo. E' l'autrice saggi indimenticabili
come “L'Ère du témoin” (“L'era del testimone”, Raffaello Cortina
editore), “Déportation et génocide. Entre la mémoire et l'oubli”
(Deportazione e genocidio, fra la memoria e l'oblio), “Auschwitz, la
mémoire d'un lieu” (Auschwitz, la memoria di un luogo). E' la voce di
un libro che parla al cuore di centinaia di migliaia di ragazzi in
decine di lingue diverse, “Auschwitz expliqué à ma fille”, Éditions du
Seuil (“Auschwitz spiegato a mia figlia”, Einaudi) che ai negazionisti
è costato più di mille condanne in tribunale. Per chi la va a visitare
nel suo salotto di rue du Faubourg Poissonnière, nel nono
arrondissement di Parigi, là dove al termine del secondo conflitto
mondiale hanno trovato rifugio decine di migliaia di sopravvissuti e
dove scorre ancora il magma di una realtà ebraica viva, Annette è una
donna che non depone le armi nemmeno quando serve una tazza di caffè.
Che ha i modi diretti dei combattenti dei ghetti da cui discende. Una
donna che qualcuno ha chiamato la Signora Memoria, e che alla Memoria
ha consacrato tutto. Ma alle convenzioni di comodo non è disposta a
cedere nemmeno un millimetro.
La
cultura della Memoria che con un immenso lavoro di documentazione e di
ricerca è stata stabilita negli scorsi decenni, Annette Wieviorka,
resta perennemente minacciata dai revisionismi e dall'oblio. Cosa
possono fare gli ebrei contemporanei per tutelarla?
E' intanto necessario comprendere che la Memoria così come siamo ormai
abituati a concepirla, non è un dato di fatto assoluto, ma piuttosto il
risultato di una specifica situazione storica. La memoria diffusa,
insegnata, praticata e per certi versi istituzionalizzata è nata dal
lavoro degli studiosi, ma anche da una specifica contingenza storica.
Una situazione che si è manifestata nel 1989 e si è esaurita nel 2001.
Il riemergere delle tensioni, le crisi economiche, i contrasti e le
incertezze sociali
segnano la fine di un concetto generico, buonista e tranquillizzante di
memoria e pongono l'interrogativo di come riformulare una concezione
autentica della Memoria.
Dalla
fine della Guerra fredda, dalla caduta del Muro di Berlino,
all'attentato delle Torri Gemelle. Sarebbe a dire che oggi siamo già
nel pieno di una svolta, di un capitolo successivo che ancora dobbiamo
imparare a conoscere e di cui non sappiamo tutte le conseguenze?
Esattamente. La Memoria in quanto istituzione, l'affermazione chiara
che la ferita della Shoah esige una riparazione è un concetto che è
emerso in una parentesi in cui le tensioni delle contrapposizioni fra
blocchi sono cadute, in un mondo dove ha governato un'unica
superpotenza. In una situazione economica di crescita costante, di
relativa stabilità, di ottimismo. Oggi non è più così.
E la
Memoria, è minacciata?
Abbiamo di fronte la dimostrazione di quanto sia illusorio pensare che
la Memoria di massa sia conquistata una volta per tutte, sia un
concetto che si riafferma perpetuamente in automatico senza la
necessità del nostro lavoro e della nostra attenzione.
Ma le
leggi che hanno istituito in varie realtà europee la necessità e la
tutela di questo concetto non sono sufficienti a stabilizzare la
situazione?
Ero presente a Strasburgo, e sono stata ascoltata, quando il Parlamento
europeo ha elaborato la proposta rivolta ai Governi nazionali di fare
del 27 gennaio, la giornata dell'abbattimento, nel 1945, dei cancelli
di Auschwitz, una giornata da dedicare al ricordo. Ricordo di aver
messo in guardia contro i rischi di un'iniziativa del genere. Noi
francesi abbiamo già un gran numero di occasioni pubbliche per
ricordare il valore della Resistenza, l'orrore delle deportazioni e
della Shoah. Il problema non era tanto quello di inquadrare nuovamente
tutta questa materia in una iniziativa di legge, ma di rendere la
Memoria effettivamente viva e vissuta. In molte altre realtà, fra cui
l'Italia, erano ben diverse. L'esiguità numerica della presenza ebraica
e altri fattori sociali hanno finito per polarizzare sul Giorno della
Memoria un'attenzione quasi esclusiva e molto influenzata dal rapporto
con le istituzioni.
Cosa
intende?
Penso che il tavolo del confronto sul problema della Memoria è divenuto
in molte realtà europee, e anche in Francia, il terreno privilegiato,
talvolta quasi esclusivo, di confronto fra la minoranza ebraica e le
istituzioni.
E
questo, a suo avviso, comporta un rischio? Rischiamo di entrare in un
vicolo cieco?
Ognuno è libero di interpretare le cose come preferisce. Dico solo che
si tratta di un fenomeno che non possiamo ignorare, perché in un modo o
nell'altro tende a condizionare la nostra esistenza di minoranza e la
nostra capacità di esprimere noi stessi e il messaggio di cui vogliamo
farci portatori.
Possiamo
citare alcuni esempi concreti?
Certo. Possiamo osservare che sulla Memoria si dimostrano non a caso
particolarmente sensibili governi e istituzioni ansiose di far
dimenticare qualche imbarazzo del passato (per esempio una politica di
estrema tolleranza nei confronti di Arafat e del terrorismo
palestinese, o radici che affondano nel terreno avvelenato dell'estrema
destra antisemita). E possiamo osservare che in occasioni di importanti
contatti istituzionali le istanze che provengono dal mondo ebraico e le
disponibilità che provengono dal mondo politico tendono a incrociarsi
sul terreno della Memoria.
Un
esempio concreto?
L'incontro annuale del Conseil représentatif des institutions juives de
France (Crif), la massima istituzione della minoranza ebraica in
Francia, cui tradizionalmente partecipa il Primo ministro. Analizzando
i contenuti del saluto rivolto alla minoranza ebraica da parte di chi
tiene il timone della Francia anno dopo anno possiamo constatare che il
tema della Memoria è sempre ben presente. Una volta c'è all'ordine del
giorno la costituzione della Commissione Mettéoli e della Missione di
studio sulla spoliazione degli ebrei di Francia, una volta la
risistemazione del padiglione francese ad Auschwitz, per esempio, ma
questo continuo desiderio di rilancio porta poi a giocare con concetti
molto importanti e molto delicati in maniera incontrollata. E si arriva
all'episodio dello scorso anno, in cui il Primo ministro Nicolas
Sarkozy ha annunciato l'idea che ogni scolaro francese avrebbe potuto
adottare simbolicamente uno dei suoi coetanei che furono sterminati
nella Shoah. Un'idea densa di risvolti delicatissimi, di rischi che non
erano stati sufficientemente valutati. Che è stata inseguito da più
voci messa da parte e che infine lo stesso Governo ha finito per
tralasciare.
Con
queste considerazioni lei sembra associare la sua voce a quella di
numerosi intellettuali ebrei contemporanei, che ben distinguendo
ovviamente la propria posizione da quella dei negazionisti, stanno
vagliando in maniera molto critica gli effetti di una Memoria istituita
ex lege.
La situazione in cui ci troviamo è densa di rischi. La Memoria deve
essere difesa strenuamente, ma contemporaneamente, proprio perché
vogliamo difenderla e vogliamo che resti cosa viva, dobbiamo accettare
un processo di riflessione critica aperto e trasparente.
Cosa
deve passare al vaglio di questo processo?
Il tema è molto complesso, ma per indicare alcune piste vorrei dire che
la Memoria non può essere vittimismo, deve restare affermazione
positiva di identità e di autenticità storica. Deve essere agganciata
ai problemi della società contemporanea. Deve essere materia viva di
studio e di conoscenza. Non c'è spazio per l'ombra del vittimismo, se
vogliamo davvero difendere il concetto autentico di Memoria. La
minoranza ebraica è depositaria di esperienze immense che possono
portare elementi preziosi nell'ambito della società che ci circonda.
Non possiamo accontentarci di fare bela figura quando ci chiamano a
presenziare a determinate cerimonie. Siamo noi, di conseguenza, che
dobbiamo trovare la forza d proporre una visione sana e corretta della
Memoria.
Lei
siede in alcune delle più prestigiose istituzioni francesi e
internazionali che dedicano i loro sforzi ad affrontare questi temi.
Come vede evolversi questa coscienza al loro interno?
Sono appena rientrata da una riunione della giuria del concorso annuale
per la tutela dei valori espressi dalla Resistenza e contro la
deportazione in Francia. Si tratta di una grande iniziativa che
coinvolge molte scuole francesi e tutte le organizzazioni di ex
deportati. La giuria è composta da 40 persone e fra di loro ho contato
tre anziani, che rappresentavano il mondo di chi era in grado di
portare una testimonianza e una conoscenza diretta sul tema. Tutti gli
altri componenti erano rappresentanti di enti pubblici e di fondazioni
private, direttori di musei, docenti di vario genere. Tutte persone
degnissime, ma che traggono la loro esclusiva legittimazione dal fatto
di aver ottenuto un impiego in questo settore. Sono funzionari della
Memoria, appositamente retribuiti. E la Memoria rischia di ridursi a
un'ideologia, se non addirittura a un'industria.
C'è
qualcosa di male a far crescere una generazione di funzionari e di
impiegati specializzati su questo tema?
Qui non si tratta di dare giudizi moralistici, ma solo di mostrare una
situazione particolarmente delicata che dovrebbe essere valutata con
attenzione dalle realtà ebraiche. Una situazione che rischia di
sfuggire di mano e che potrebbe portarci là dove non sappiamo o forse
non vogliamo andare. Esiste una categoria di persone che a vario titolo
lavora attorno al concetto di Memoria. Ed è retribuita per questo.
Forse non c'è niente di male o forse sì. Ma in ogni caso, è di questo
che vogliamo accontentarci?
Alla
pagina del prossimo 27 gennaio, cosa c'è segnato nella sua agenda?
Per adesso è ancora bianca. Ricevo diversi inviti, ma ora sto cercando
la mia strada e faccio fatica ad accettare di andare a fare una parte
che non sento mia. Cerco di partecipare a occasioni che tendono a
mettere in chiaro come ci siano ebrei che non si accontentano, che
cercano nuove strade. E le cercano non certo per mettere la Memoria in
seconda piano, ma proprio per offrire alla Memoria la migliore difesa
possibile.
Nell'ambito
del mondo accademico francese ha avviato un seminario alla Sorbona in
collaborazione con studiosi di diverse discipline, come il giurista,
Antoine Garapon, che è autore di un saggio recente e appassionante,
“Peut on reparer l'Histoire”, Odile Jacob (“E' possibile riparare la
Storia?”). E' un percorso di ricerca di si interseca o si distanzia dal
suo impegno di storica della Shoah?
E' un lavoro difficile e molto stimolante che tenta di portare una
visione ebraica in un grande tema dei nostri tempi. La storia che
vogliamo studiare, conoscere e insegnare non è una materia inerte, ma
uno strumento per agire nella realtà. La possibilità di emendare la
Storia, di ripararla, di curarne in un certo modo le ferite, e come, e
quando, e quanto, credo sia uno dei grandi problemi dello storico e
anche del giurista ebreo contemporaneo. Su questo tema, ne sono
convinta, abbiamo molto da dire. E la voce di questa minoranza, che
qualcuno aveva sperato di spegnere per sempre, continuerà a risonare
alta e chiara nel mondo in cui viviamo.
Guido
Vitale
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Un discutibile omaggio
Al Concerto di Capodanno il secondo brano eseguito
dall'orchestra dei Wiener Philarmoniker diretta da Daniel Barenboim è
stato il valzer di Johann Strauss, "Märchen aus dem Orient". È stato
annunciato con enfasi trattarsi di un omaggio che i Wiener
Philarmoniker hanno voluto tributare a Barenboim, direttore
israelo-argentino attivissimo sul fronte pacifista e per il
riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Un omaggio particolarmente
appropriato in queste ore di guerra, è stato il commento. Certo: Favole
dall'Oriente... Capite l'allusione? In verità va ricordato che
Barenboim è stato grande amico del defunto intellettuale
americano-palestinese Edward Said, accanito sostenitore della causa
palestinese, aspro critico di Israele e della "lobby ebraico-sionista",
e soprattutto noto per il libro "Orientalism" che stigmatizza
l'immagine razzista dell'Oriente fabbricata dalla cultura occidentale.
Insomma, se volevano fare una gaffe dedicando a Barenboim un valzer
come questo, quintessenza del più sfrenato orientalismo mitteleuropeo,
non potevano riuscirci meglio... Che dire? Siamo di fronte alla
rappresentazione della confusione culturale dei nostri tempi? Di certo,
un simile pasticcio si accorda a pennello con la mediocre figura di
intellettuale di Said, che ha lasciato in eredità poche idee male
imbastite e molto odio.
Giorgio
Israel, storico della scienza
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Ma la questione di Gaza è un problema
eminentemente umanitario oppure politico? Ovvero, al di là
dell'emergenza - che da quando Hamas è andata al potere non è mai
venuta meno - per essere affrontata, nell'intrico di questioni che
solleva, e per trovare una giusta soluzione, richiede che ci si lacrimi
il volto e ci cosparga il capo di cenere mentre ancora una volta si
denuncia la ferocia degli "aggressori" israeliani o, piuttosto, che si
metta mano al vero problema, quello di una leadership politica
palestinese che riesce a sopravvivere grazie allo stato di continue
tensioni che alimenta? Se lo chiede, con lucidità, Carlo Panella su il Foglio, denunciando inettitudini e
inebetudini degli spettatori di sempre, a partire dall'Unione Europea e
dai suoi maggiori protagonisti, la Francia e l'Inghilterra. Altro
discorso è il profilo assunto dalla Germania di Angela Merkel, che si è
intelligentemente dissociata da atteggiamenti di principio tanto
eclatanti quanto inconcludenti. Sempre su il Foglio si fa menzione
dell'iniziativa francese per una tregua, che raccoglie assensi assai
tiepidi se non nulli. L'impressione è che il vero oggetto di tanta
sollecitudine non sia la sicurezza d'Israele e dei palestinesi bensì la
visibilità del presidente francese Nicolas Sarkozy la cui politica da
sempre è molto attenta alle luci della ribalta mediatica. Il diniego di
Tzipi Livni c'è raccontato da Francesca Pierantozzi su il Messaggero, da Aldo Baquis su la Stampa e da Liberal per la penna di Vincenzo
Faccioli Pintozzi. Quest'ultimo, riprendendo come fonte il quotidiano
Haaretz, ci riferisce quanto l'offensiva antiterroristica a Gaza sia
condivisa da un cospicua parte della popolazione israeliana: «Il 52 per
cento vuole infatti che i raid proseguano, mentre il 19 per cento
ritiene che si dia il via anche
all' offensiva di terra. Solo il 20 per cento […] chiede si raggiunga
un cessate il fuoco "il prima possibile"». Sarà anche per questo che
Anna Momigliano su il Riformista si interroga del
«silenzio dei pacifisti israeliani». Sul versante della lacrime,
invece, si assesta ancora una volta Liberazione con Francesca Marretta
che riconduce le dinamiche in corso ad un mero confronto tra buoni e
cattivi. Inutile dire chi siano i primi e quali i secondi. Quanto ciò
corrisponda al grado zero della politica l'autrice di quell'articolo,
come di un altro, comparso sempre sul numero odierno di Liberazione e
dedicato a una donna palestinese, Umm Kamel al Kurd, «profuga in casa
propria», sembra non volerlo sapere. Finché si pigierà il tasto del
"caso umanitario" senza cogliere, denunciare e eliminare le ragioni che
fanno di circa due milioni di palestinesi gli ostaggi di Hamas, ben
poco se non nulla si potrà ottenere. Un problema in tal senso è la
condiscendenza europea verso l'organizzazione terroristica che c'è
ricordata da Maurizio Stefanini su Libero, dove si racconta quanto
(e quanti) degli aiuti per Gaza vadano in mano ad Hamas, direttamente
ma soprattutto indirettamente. Un'analisi politica è invece quella
offertaci da Stranamore - ovviamente uno pseudonimo - che su Liberal parla di «battaglia degli
Osservatori», ovvero di come «la battaglia diplomatica si gioca sul
"come" controllare Hamas». La stessa cosa, ma con un taglio
radicalmente diverso, la fa Giampaolo Calchi Novati, docente
universitario e insigne studioso di questioni internazionali, per il Manifesto. Lo si legga con
attenzione quest'articolo, poiché è una sorta di lucido vademecum delle
posizioni di una parte della sinistra terzomondista, quella più conscia
dello stato delle cose. Se le note ipercritiche verso Israele non
vengono mai dismesse c'è la consapevolezza che la strategia palestinese
– se di strategia si può parlare – sia oramai alla sua stazione
terminale. In buona sostanza, l'autore registra, sia pure obtorto
collo, la sconfitta di quella parte del mondo arabo che ha puntato
tutte le sue carte sulla radicalizzazione del confronto con Israele. Il
rischio, per i seguaci e i sostenitori di Hamas, è di trovarsi
abbandonati per sempre a sé. Così anche Guido Rampoldi su la Repubblica quando nel suo
reportage sui luoghi del conflitto si interroga su «Dove sono i leader
arabi? Così la guerra nella Striscia uccide la solidarietà islamica».
Va in tal senso anche l'intervista sul Corriere della Sera di Viviana
Mazza al commediografo Ali Salem, quand'egli afferma lapidariamente che
«è guerra tra estremisti e Stati moderati». Il rischio ultimo,
ammonisce Francesco De Leo su il Riformista, è per i palestinesi di
trovarsi in pessima compagnia, ovvero con il fondamentalismo iraniano
che si basa su uno stato di mobilitazione ed eccitazione costante degli
spiriti, di contro al bisogno di sicurezza e pace che gli abitanti
della Striscia e soprattutto della Cisgiordania rivendicano, sia pure
tra i clamori e i boati del confronto in corso.
Chi non perde invece l'occasione per manifestare il suo livore
metafisico contro Israele è l'ineffabile Michel Warschawski che, sempre
su il Manifesto racconta di come ad
animare le scelte di Gerusalemme sia «una logica genocida», prodotto di
una «guerra globale permanente e preventiva degli strateghi
neoconservatori in forza a Tel Aviv». La grossolanità e la tracotanza
della scrittura di Warschawski, un "pacifista" animato da una visione
apocalittica (già alcuni anni fa aveva predetto il crollo prossimo
venturo dello Stato d'Israele), soddisfa i palati degli antisionisti di
sempre ma aiuta ben poco, se non nulla, a capire qual è il vero stato
della situazione. Come risposta, sia pure indiretta, si veda Antonio
Polito su il Riformista dove denuncia a chiare
lettere il «discorso antisionista» di Tariq Ramadan che sullo stesso
quotidiano, in una sorta di manifesto ideologico, parla del «genocidio
di Gaza». Ci ridà invece un po' di fiato la lettura dell'articolo di
Francesco Bonami, sempre su il Riformista, dove l'umanità degli
uni e degli altri torna a fare capolino, evitando letture demonizzanti.
Su questa falsariga, e per cogliere lo spirito degli israeliani si
legga su il Tempo della storia di Romolo
Efrati, scampato dalla deportazione nel 1944 e ora sotto il pericolo
incombente dei razzi ad Ashkelon. Quella che è invece la situazione sul
campo ci è raccontata da numerosi articoli di descrizione, valutazione
e commento. Tra i tanti, per non appesantire i lettori, ci limitiamo a
richiamarne solo alcuni. Segnaliamo Benny Morris su il Sole, David Bidussa su il Secolo XIX e Segre su il Giornale. Su il Foglio si parla delle «due
opzioni d'Israele», soffermandosi sulla necessità ma anche sui rischi
di una operazione di terra. Cose similari sono dette da Gian Micalessin
su il Giornale mentre il Corriere della Sera con Davide
Frattini, il Messaggero con Eric Salerno, la Repubblica con Fabio Scuto fanno
il punto dell'evoluzione del confronto.
Che il conflitto abbia, ancora una volta, una forte caratura mediatica
(ovvero, sia soggiacente, nelle sue interne dinamiche, al gioco
perverso della visione della sua cruenza, esposta mediaticamente come
un prodotto da usare e consumare seduti dinanzi al televisore) è, come
già dicevamo, palese. Per confortare tale impressione ci riferiamo ad
una notizia apparentemente di secondo profilo, richiamata da il Sole e
da le Monde, ossia le minacce di assassinio rivolte contro sei
personalità del mondo ebraico francese. Uno dei target è il filosofo
Bernard Henry-Levy, noto per le sue prese di posizione pubbliche e
personaggio dell'establishment intellettuale europeo. La sua visibilità
mediatica lo ha reso obiettivo di quelle organizzazioni del terrorismo
islamista la cui fortuna, per così dire, è legata all'eclatanza delle
azioni. Il perverso legame che intercorre tra violenza e sua
esposizione mediatica è, in questo caso, ancor più evidente. Ed allora,
a partire da questo episodio (che confidiamo non traduca la minaccia in
atto) ci permettiamo di rilevare, da operatori dell'informazione quali
siamo, come tutta la vicenda del confronto israelo-palestinese non di
meno non sfugga a questa regola della enfatizzazione: gli scenari
rispondono ad aspettative di permanente teatralizzazione, quasi che si
trattasse di uno spettacolo che deve riprodursi all'infinto. A latere
di questa riflessione si pongono gli articoli di Abc e del Sole sul ricorso a internet e agli
sms per contrastare l'offensiva di opinione condotta dalla parte
avversaria.
Della irrisolta dialettica tra realtà e finzione alcuni giornali oggi
tornano a parlare, attraverso i richiami alla querelle innescatasi
dinanzi alla scoperta di un falso (non certo il primo) sulla Shoah, il
libro «Angel at the fence». Il preannunciato best-seller, promosso nel
suo show televisivo da Ofra Winfrey, che parlava di un amore dietro il
filo spinato, si è rivelato un bluff. Le cose scrittevi non sono mai
successe. Così Mauro Baudino su La Stampa e Maria Serena Pallieri
su l'Unità. Più che a inquietare per
la messinscena, ad uso e consumo di un pubblico che vuole a tutti i
costi delle "storie", possibilmente a lieto fine, e di una editoria che
offre oramai testimonianze e fantasie sul medesimo piano, c'è di che
riflettere di come le memorie della Shoah si siano oramai trasformate
in un genere letterario a sé. Diventa secondaria la loro veridicità
mentre conta sempre di più il plot narrativo, che deve rispondere a
canoni precisi, in grado per l'appunto di appagare il lettore medio,
che si accosta alle storie delle deportazioni, soprattutto di quelle
individuali e familiari, non troppo diversamente da come apre e legge i
libri sulla storia romana ricostruita da abili divulgatori che
attualizzano fatti ed eventi trascorsi, rendendoli materia di facile
manipolabilità. Piace l'aspetto sentimentale e pietistico, in buona
sostanza, mentre disturba tutto il resto. Un giorno, ne possiamo essere
certi, anche il conflitto mediorientale verrà ricostruito secondando
questi canoni. O, forse, già sta avvenendo. Ma allora più che di
cronaca stiamo parlando di quella che certuni chiamano "storia attuale"
o storia del presente. La battaglia si svolge soprattutto sul terreno
delle rappresentazioni, a ben vedere. Non è per nulla detto, allora,
che Israele la possa vincere, data l'altrui potenza di fuoco.
Claudio Vercelli
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notizieflash
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MO:
Missione UE in medioriente per il cessate il fuoco
Bruxelles, 2 gen -
La missione di
pace in Medioriente, primo importante impegno per la nuova presidenza
ceca sotto la guida di Topolanek,che però non ne farà parte, si
accavallerà con il viaggio del presidente francese Nicolas Sarkozy che
si recherà in Egitto, Cisgiordania, Israele lunedì e in Siria e in
Libano martedì. Le due delegazioni terranno molto probabilmente un
incontro comune con il presidente dell'Autorità palestinese (ANP) Abu
Mazen. L'ottenimento di una tregua umanitaria a Gaza è stato l'ultimo
impegno della presidenza francese ed è il primo di quella ceca, ma
finora le risposte delle due parti sono state negative.La delegazione
europea sarà guidata dal ministro degli esteri ceco Karel Schwarzenberg
e si recherà al Cairo, a Tel Aviv, a Ramallah e ad Amman per incontri
"con personalità di alto livello". "L'obiettivo prioritario è ottenere
subito un cessate il fuoco che metta fine alla perdita di vite umane",
hanno sottolineato le fonti. Ieri, parlando alla televisione ceca, il
premier aveva rilanciato il ruolo della Ue nell'iniziativa per una
tregua, "non potendo contare - aveva detto - sull'Amministrazione
americana".
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili.
Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per
concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross.
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