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L'Unione informa |
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6 gennaio 2009 - 10 Tevet 5769 |
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alef/tav |
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Roberto
Della Rocca, rabbino |
Oggi,
decimo giorno del mese di Tevèt, celebriamo il digiuno istituito
per l'assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, continuato per
tre anni, che segnò l'inizio della tragedia del popolo ebraico
con la distruzione del primo Tempio e l'inizio dell'esilio. Non
è casuale che il Rabbinato Centrale dello Stato di Israele, alla
fine degli anni ‘50, abbia proposto di associare questa data alla
commemorazione e alla recitazione del Kaddìsh per le vittime
della Shoà di cui resta ignota la data della morte. Questa
coniugazione di date, oltre a ribadire quanto tutti gli avvenimenti
della nostra storia siano concatenati, costituisce una dolorosa
supplica al Creatore perché la Shoà sia l' ultima delle
tragedie vissute dal popolo ebraico iniziate proprio il 10 di
Tevèt di 26 secoli fa. A queste due tragiche esperienze
trascorse, quest’anno si aggiunge la nostra angoscia per la
situazione di pericolo in cui versano i nostri fratelli nello Stato di
Israele. Un' angoscia che ancora una volta cerca conforto e speranza
nel digiuno, nella lettura di Salmi e preghiere dedicati, senza mai
offendere simboli e valori di altre culture. |
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Seguo con ovvia apprensione quanto sta accadendo
a Gaza e in Eretz Israele. Cerco, per quanto mi riesca, di distinguere
le mie valutazioni politiche dagli impulsi e dai sentimenti. Ogni
civile che muore è per me una pena tremenda. Ogni soldato
israeliano uno strazio: hanno l'età dei miei figli. Provo ad
allontanare un poco l'obiettivo del mio sguardo, e allora vengono le
riflessioni. E le preoccupazioni. Su Barack Obama, ad esempio. Reduce
da una campagna elettorale fra le più "estroverse" della storia
(e non solo americana), ricordo il neopresidente americano nel suo tour
in Europa e Medio Oriente. Non fu certo avaro di dichiarazioni. Adesso,
a due settimane dall'insediamento,si trincera nel silenzio.
Perché? Non mi pare un buon segno. Certo non sul profilo
dell'impegno e della personalità. Ero così fiduciosa, in
e verso di lui. Speriamo in bene. |
Elena Loewenthal ,
scrittrice |
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Renzo Gattegna: “La crisi di Gaza e gli ebrei italiani. Facciamo chiarezza”.
La
crisi mediorientale e gli ebrei italiani. Emozioni, tensioni, drammi,
solidarietà. Che cosa possono fare le istituzioni della
minoranza ebraica in Italia? Come possono essere d’aiuto? Come
possono proteggere la realtà di Israele e il suo esempio, il suo
modello prezioso di democrazia e di civiltà in Medio Oriente?
Qual è, in sostanza, in momenti tanto difficili la vocazione, la
missione della più antica comunità della Diaspora? Interrogativi
che in queste giornate accompagnano inevitabilmente tutti noi e che di
ora in ora si fanno sempre più pressanti.
“Prima di tutto – afferma Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
– le istituzioni degli ebrei in Italia possono e devono
contribuire a fare chiarezza. Chiarezza ed equilibrio, anche nei
momenti più duri e più difficili. Equilibrio, anche di
fronte ai tentativi di strumentalizzazione e di distorsione che
provengono da più parti”.
Ma
in concreto, Presidente, le istituzioni degli ebrei italiani devono
intervenire sulla crisi di Gaza, o dovrebbero invece restare piuttosto
a guardare, neutrali e silenti?
“E’ molto
importante – riprende Gattegna – essere chiari. Dobbiamo
riaffermare non solo la nostra solidarietà con le ragioni della
democrazia israeliana continuamente aggredita da parte di forze che
predicano la violenza cieca e ingiustificata e cercano di imporre in
tutta la regione mediorientale una aberrante cappa di terrore e di
intolleranza. Dobbiamo riaffermare la nostra ferma opposizione nei
confronti di organizzazioni terroristiche che attaccano popolazioni
civili in Israele e al tempo stesso tengono in ostaggio le popolazioni
civili di Gaza, del Libano meridionale e di altri territori,
dimostrando di avere in spregio la dignità della vita umana. E
per farlo non possiamo limitarci all’esecrazione, alle
dichiarazioni di principio”.
E di conseguenza, Presidente, cosa altro possiamo fare?
“Dobbiamo
opporci a questo stato delle cose in quanto ebrei e in quanto italiani.
Dobbiamo farlo per i valori di un mondo democratico, civile e
progredito in cui crediamo, che abbiamo contribuito con fatica e
sofferenze a costruire e di cui rappresentiamo, in quanto minoranza
radicata da due millenni nella società italiana, il sigillo di
garanzia. Ma dobbiamo farlo anche per dimostrare quali sono i valori
ebraici che sono in gioco di fronte a una crisi di questa portata e di
questa natura”.
A cosa si riferisce?
“Nella
tradizione ebraica è connaturata una forte cultura della
solidarietà, di capacità di partecipazione alle
sofferenze altrui. Non serve scomodare tutte le numerose possibili
citazioni bibliche. Per spiegare la nostra vocazione è
sufficiente conoscere anche solo a grandi linee la nostra storia. Noi
in quanto ebrei non siamo mai stati insensibili alle sofferenze altrui.
Resto convinto che il nostro ruolo in questo mondo sia quello di essere
i garanti e i difensori dei diritti dei più deboli”.
A chi fa riferimento?
“Alla
popolazione civile di Gaza tenuta in ostaggio da terroristi senza
scrupoli. Quando le necessarie, inevitabili azioni di una democrazia
attaccata che reagisce, di uno Stato che interviene come è suo
dovere per difendere i cittadini di cui porta la responsabilità
e le sue popolazioni inermi minacciate, quando queste azioni rischiano
inevitabilmente di colpire anche altri civili, avviene qualcosa di
inevitabile, ma non per questo di meno doloroso. Abbiamo il dovere di
dirlo e di trarne le conseguenze”.
Tutto qui?
“No.
C’è dell’altro, ben altro. Noi ebrei italiani siamo
un elemento piccolo, ma importante della società italiana
nell’ambito della quale viviamo. Il mondo politico, le
realtà sociali, i mezzi di comunicazione ci tengono gli occhi
puntati addosso. Alcuni lo fanno esprimendo una sincera attenzione,
altri forse perché sperano di cogliere nelle contraddizioni e
nelle inevitabili debolezze di una minoranza che conta appena poche
decine di migliaia di componenti qualche elemento che possa
giustificare l’odio nei confronti di Israele. Il nostro ruolo
è quindi un ruolo di mediatori. Forse non tutti capiscono. Ma
noi abbiamo il dovere di capire e di spiegare. Abbiamo il dovere di
continuare a fare da ponte e da garanti”.
E in concreto?
Prendiamo
a esempio l’iniziativa degli scorsi giorni. Il ministro degli
Esteri Franco Frattini ha lanciato un appello umanitario per venire in
aiuto delle popolazioni civili colpite in Medio Oriente. Mi sento di
dire che si è trattato di un appello trasparente e utile, che fa
onore al nostro Paese e che le istituzioni degli ebrei in Italia non
possono ignorare. Contemporaneamente un benefattore che
comprensibilmente ha domandato di mantenere l’anonimato ha preso
contatto con la Comunità Ebraica di Roma e con l’Ucei
mettendo a disposizione medicinali per un controvalore importante. Mi
è sembrato molto positivo connettere queste diverse
potenzialità, provenienti dal mondo diplomatico, politico,
imprenditoriale e offrire le migliori garanzie perché questa
operazione andasse a buon fine.
Quali garanzie?
Prima
di tutto la garanzia di totale sintonia e correttezza nei confronti
della democrazia di Israele costretta a difendersi. Se aiuto umanitario
da parte dell’Italia deve essere, allora deve certo provenire
nella regione sulla base di assicurazioni molto chiare. Il Governo
italiano deve fare da garante. Le istituzioni degli ebrei italiani
devono fare da garanti. Lo Stato di Israele, impegnato in
un’azione di difesa tanto delicata, deve essere pienamente
consapevole e concorde. Abbiamo creato sintonia e agito in piena
sintonia con tutte queste realtà così diverse. E abbiamo
riaffermato i valori che ci stanno a cuore.
Ma qualcuno ha dimostrato di non aver gradito.
Credo
che qualcuno abbia dimostrato di non aver compreso. O forse non
è stato correttamente informato di come stavano le cose. Ma non
importa. Quando si lavora onestamente, la verità presto o tardi
viene sempre a galla.
Alcuni
israeliani di origine italiana hanno contestato il fatto che si
spendano risorse per creare una sensazione di equidistanza,
distribuendo aiuti sui due fronti, quello degli israeliani e quello dei
palestinesi.
Non esistono due fronti, ma un solo
fronte, quello delle popolazioni civili coinvolte dalle azioni
terroristiche di chi non vuole che il progresso e la democrazia si
facciano strada in Medio Oriente. Il compito delle realtà
progredite è quello di proteggere e aiutare queste popolazioni.
Esattamente la stessa preoccupazione con cui si muove l’esercito
israeliano. Nelle scorse ore, infatti, verso Gaza sono passati
centinaia di convogli di aiuti. Il compito degli ebrei italiani
è quello di abbattere l’intolleranza, l’odio e
l’antisemitismo attraverso la pratica degli ideali di coesistenza
e di progresso civile.
Allora perché queste incomprensioni?
Sono
giorni difficili. Capisco che alcuni, soprattutto coloro che vivono
quotidianamente in prima persona e sulla propria pelle la minaccia del
terrorismo islamico, abbiano i nervi a fior di pelle. Capisco meno chi
dall’Italia non vuol capire o fa finta di non capire, forse nella
speranza di trascinare le realtà ebraiche italiane in una
spirale di polemiche che non hanno senso e non possono avere costrutto.
Il nostro gesto ha un significato ben chiaro, chi ha voluto intenderlo
lo ha inteso. E credo che molti, fra la gente comune come fra i mezzi
di informazione, lo abbiano compreso per quello che voleva essere.
Tutto il resto sono chiacchiere inutili e in una situazione tanto
delicata anche fuori luogo.
Con
questa azione, Presidente, gli ebrei italiani hanno quindi da insegnare
anche qualcosa a una società israeliana esasperata e sulla
difensiva?
Non lo credo. Una volta di più non
possiamo che imparare dalla compostezza della società
israeliana. Dalla solidarietà che dimostra nei momenti di crisi
in tutte le sue articolazioni, dalla destra alla sinistra. Dalla
sobrietà del suo mondo politico, che alla vigilia di una
consultazione elettorale delicatissima mette da un canto i mille motivi
di divisione fra i partiti. Dalla professionalità di un sistema
di informazione che è fra i più liberi e sviluppati al
mondo. Dalla sua forte capacità di testimoniare i valori ebraici
di rispetto della vita umana, preoccupandosi della salute e
dell’incolumità non solo dei propri cittadini, ma di tutte
le parti coinvolte nel conflitto. Israele è una realtà
dove ragazzi poco più che maggiorenni rischiano la vita di
persona per evitare al massimo il pericolo che qualche innocente venga
coinvolto nei combattimenti. Esattamente il contrario del comportamento
di chi cerca di farsi scudo delle popolazioni civili che tiene in
ostaggio. Israele ha aperto le porte dei propri ospedali alla gente di
Gaza. Ha aperto i confini per far passare quanti più aiuti era
possibile. Ha abbassato le difese assumendosi gravi rischi, strategici
e politici, per diminuire quanto più possibile perdite e
sofferenze. E chi porta le responsabilità di governo a
Gerusalemme lo ha più volte ribadito che il nemico non è
certo la popolazione civile di Gaza. Noi non abbiamo certo inventato
nulla. Cerchiamo solo, fra mille difficoltà, di fare quel poco
che è in nostro potere e di dimostrarci all’altezza della
situazione.
E il problema di come si spendono le risorse?
Ripeto
che si è trattato del gesto generoso di un donatore, i magri
bilanci degli enti ebraici italiani non sono stati intaccati in alcun
modo. Noi abbiamo speso ben altre risorse: la capacità di fare
da tramite e di creare sintonie fra realtà diverse. A tutto
vantaggio di chi crede nella pace e di chi pretende sicurezza in Medio
Oriente.
Torniamo agli
italkim, agli ebrei di origine italiana in Israele. Alcuni segnali di
malessere hanno dimostrato che una parte di loro non si sente compresa.
Questo
lo posso capire. La situazione non è solo tesa, ma anche
delicatissima e difficilissima. Voglio ribadire quanto siamo vicini a
questi nostri fratelli e voglio ripetere che una delle mie maggiori
ambizioni è quella di comprendere le esigenze di questa
realtà di ebrei italiani che ha onorato la minoranza ebraica
italiana. Si tratta di una realtà importante nei valori, ma
anche quantitativamente in relazione ai nostri piccoli numeri. Di una
delle più grandi comunità di lingua italiana in assoluto.
Di una delle comunità più significative e più
vitali nell’ambito della società israeliana che le
istituzioni degli ebrei italiani devono attrezzarsi a comprendere e a
valorizzare sempre meglio. Nei prossimi mesi spero di poter dimostrare
con iniziative tangibili che gli ebrei italiani insediati in Israele
costituiscono la migliore risorsa per realizzare il compito comune per
questo appuntamento inevitabile di gettare ponti e creare nuove intese
che portino pace, sicurezza e prosperità fra tutti i popoli del
Mediterraneo. |
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La
guerra è entrata nel suo momento più duro e
decisivo, con l’assalto di Tzahal alle roccheforti del terrorismo
(si vedano, fra gli altri, i resoconti di Davide Frattini sul Corriere, di Fabio Scuto su Repubblica, di Giorgio Raccah sul Mattino)
. E molti in Europa, anche quelli che all’inizio riconoscevano il
carattere terrorista di Hamas e le giustificazioni dell’azione
israeliana, parlano ora di interromperla, di concludere al
più presto una tregua. Alle tante voci esterne, come
quella del presidente francese Sarkozy, (ma si legga anche Gideon
Rachman sull’influente Financial Times e Fassino su Repubblica,
che pure si rifugia nell’utopia di un dovuto
“riconoscimento di Israele da parte di Hamas” come premessa
alla pace, e perfino Emma Bonino su Il Giorno – Nazione – Carlino) si sono aggiunte anche quella di Tullia Zevi (intervista sul Corriere) A.B.Yehoshuah (La Stampa) e una lobby pacifista ebraica americane (come riferisce Mazzonis sul Liberazione). Ma basta leggere le reazioni a un intervento di D’Alema a Matrix (registrate per esempio da Giovanna Vitale su Repubblica; per l’opinione del dirigente del Partito Democratico si veda la sua intervista sull’Unità)
per capire che la pressione verso il riconoscimengto di Hamas aumenta
in Italia, come in Europa e nel mondo. Dev’essere ben
chiaro che è un errore. Se Israele non riesce a spiantare, o
almeno a indebolire fortemente Hamas e a farlo vedere chiaramente, la
vittoria sul campo si trasformerà in una sconfitta politica. Lo
spiegano bene Franco Venturini sul Corriere e Carlo Panella sul Foglio.
Che una vittoria israeliana sarebbe un grande vantaggio per Obama e uno
stop all’Iran lo afferma anche William Kristol sull’Herald Tribune;
sullo stesso giornale il libanese Rami Kauri sostiene che la semplice
sopravvivenza e la capacità di tirare qualche razzo su Israele
sarebbe una vittoria per Hamas. Nello stesso senso troviamo su Repubblica un’intervista
allo storico Benny Morris. Da leggere anche l’editoriale di
Vittorio Feltri su
Liberohttp://80.241.231.25/ucei/MvieW.aspx?ID=2009010611506962. Per questa ragione sono opportune le precisazioni del presidente dell’Ucei Renzo Gattegna in un’intervista al Corriere e dell’ambasciatore Meir in un’intervista a E-polis. Particolarmente lucido e chiaro l’intervento di Sergio Della Pergola sul Giornale.
Sono voci che corrispondono ai sentimenti di gran lunga maggioritari
delle comunità ebraiche. Per un’inchiesta su questi
sentimenti, si vedano le voci raccolte da Maria Lombardi sul Messaggero. Su
come vadano i combattimenti non vi sono molti dubbi. Sul terreno Tzahal
sta vincendo: anche se le operazioni sono difficili e sanguinose, le
minacce apocalittiche di Hamas risultano infondata. Troviamo una buona
analisi tattica sul Foglio, oltre alla solita interessante nota di Guido Olimpio sul Corriere. Edward Luttwak ipotizza che “stanca degli islamici, la popolazione di Gaza indichi agli israeliani dove colpire (Il Giorno – Nazione – Carlino). Il generale Arpino, già capo maggiore della Difesa, sul Tempo, ritiene che la strategia israeliana possa avere successo, ma abbia bisogno ancora di qualche settimana. Quella che sicuramente è fallita è la diplomazia europea, come sostengono per esempio Singer su Liberal, Zatterin su La Stampa e Luca Sebastiani sul Riformista.
Nello stesso senso, ma con una dimensione più storica che
cronachistica bisogna leggere l’intervento di Furio Colombo
sull’Unità. Le ragioni del fallimento le troviamo dichiarate dal ministro degli esteri Frattini in un’intervista su Libero:
in realtà non vi sono vere proposte concrete europee per la
soluzione della crisi, solo una spinta a evitare la violenza della
guerra. Frattini capisce bene che questo atteggiamento buonista non
può bastare. Ma c’è anche ‘assenteismo
puro e semplice, forse segno della capacità di comprendere che
ora non c’è molto da fare per le diplomazie: molti
giornali (per esempio La Stampa)
riportano una malignità su Tony Blair da parte del suo
successore Brown: non si è affatto sentito finora, pur essendo
l’inviato del Quartetto in Medio Oriente, “perché
era in vacanza”, a quanto pare ospite di Armani. Ma, sostengono
coloro che vogliono una tregua subito, anche “il silenzio di
Obama delude” soprattutto “gli arabi” (Il Mattino, Ennio di Nolfo sul Messaggero). Interessante infine, nell’ambito diplomatico, l’analisi di Da Rold sul Sole 24 ore:
l’Iran usa la crisi e non cerca di risolverla (per esempio non ha
fatto intervenire finora la sua longa manus di Hezbollah) per
nascondere la sua crisi economica. Nel frattempo le analisi sulla possibile conclusione della guerra continuano. Sul Corriere
Ferrari parla delle difficoltà di Abu Mazen (che promette di non
entrare a Gaza sui carri armati israeliani, come riporta La Repubblica). Battistini, ancora sul Corriere
riferisce del dibattito sulla stampa israeliana, al solito molto
acceso. Che il panorama dell’opinione pubblica israeliana e
palestinese sia più complesso di come normalmente si crede, lo
si ricava da un’interessante inchiesta di Luciano Gulli
da Gerusalemme: vi sono palestinesi che hanno il coraggio di
pronunciarsi Hamas e israeliani che mettono al centro della loro
analisi l’ira e la frustrazione per dover riconquistare
sanguinosamente quel che si era ceduto senza contropartita tre
anni fa. Daniele Ranieri sul Foglio ipotizza
“un accordo a quattro” (Israele, AP, Egitto, Stati Uniti)
come obiettivo israeliano. Molto articolata e nello stesso senso
l’analisi del generale Carlo Jean sul Messaggero,
dedicata in particolare alla posizione dei paesi arabi moderati, che
attenderebbero l’eliminazione di Hamas da parte di Israele per
proporre una soluzione di compromesso. Continua la polemica sulle
manifestazioni estremiste di sabato, con preghiere islamiche sul
sagrato delle cattedrali di Milano e di Bologna. I rappresentanti della
comunità islamica ora pretendono che sia stato “un
caso” (Pfaender sul Giornale). Il Foglio
riporta l’opinione di Massimo Cacciari, Angelo Panebianco e altri
intellettuali di varie estrazioni. Un’altra rassegna di
interventi si trova sul Secolo d’Italia. Sul Corriere
interviene Alberto Asor Rosa, vecchio intellettuale comunista, che
certo non è a favore di Israele, per condannare
l’”aberrante” mescolanza di religione e politica. La
cosa invece non scandalizza affatto il sociologo Alessandro Dal Lago,
in un articolo molto militante sul Manifesto: la religione sarebbe “l’ultima speranza” per Gaza. Gian Guido Vecchi sul Corriere
registra le reazioni molto modeste del Vaticano (il cardinal Martino si
dice “infastidito” dalle bandiere bruciate, ma poi rincara
la dose sulla “dignità umana calpestata da decenni a
Gaza”. Una posizione così morbida da lasciare sconcertato
Antonio Socci (Il Giornale),
che chiede almeno un intervento del cardinale Tettamanzi, arcivescovo
di Milano. Interessante un’analisi di Baget Bozzo sul Giornale
che vede la piazza del Duomo “invasa” dalla preghiera
islamica come una “metafora” dell’identità
musulmana in occidente. Fra le altre notizie, da leggere il resoconto di un viaggio ad Auschwitz di Vladimir Luxuria su Liberazione:con
qualche ingenuità ma sincero dolore. Gli ebrei morti,
soprattutto sei in mezzo a Rom e omosessuali, sono buoni anche
all’estrema sinistra. Sullo stesso giornale e nello stesso senso
buonista per il passato, antisraleiano per il presente, si può
leggere una recensione di Guido Caldiron dell’”Archivio antiebraico” di Sullam. L’Avvenire continua
la campagna per Pio XII, dando notizia di un carteggio fra André
Chouraqui, Jacques Maritain e Ellul Claudel, contenuto in un libro di
prossima uscita (Il destino di Isarele, Edizioni Paoline). Ma
più che alle domande di Chouraqui, ebreo algerino traduttore
delle scritture e molto impegnato nel dialogo inter-religioso
(“perché ha taciuto papa Pacelli), il giornale dei vescovi
dà rilievo alla difesa dell’intellettuale cattolico.
Interessante anche la lettera voluta dal suo predecessore, Papa Ratti,
ai direttori delle scuole superiori cattoliche, in cui si proclamano
come “assurde” le tesi principali del razzismo e della
statolatria nazifascista. L’articolo, sempre su Avvenire è di Gianfranco Turrini
Ugo Volli |
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Gaza:
i numeri del conflitto
Tel Aviv, 6 genn - Gaza
- 130 è il numero dei combattenti di Hamas uccisi da quando
è iniziata l'offensiva di Israele nella Striscia, lo ha
riferito un portavoce dell'esercito israeliano. Fonti palestinesi
sono ferme invece alla cifra di 560 palestinesi uccisi e più di
2000 feriti, con riferimento però a tutto il periodo
dell'offensiva, iniziata con i combattimenti aerei il 27 dicembre.
I dirigenti di Hamas si nascondono in Ospedale Tel Aviv, 6 genn - Per
sfuggire al fuoco di Israele alcuni dirigenti di Hamas si sarebbero
rifugiati nell'ospedale di Gaza e in edifici vicini alle istituzioni
internazionali fra cui la Croce Rossa e organizzazioni Onu. La
notizia è stata fornita dal quotidiano israeliano Haaretz. Fonti
palestinesi hanno riferito al giornale di aver visto nei giorni scorsi
dirigenti di Hamas nel dipartimento di ostetricia dell'ospedale Shifa
di Gaza. Haaretz ha riferito che proprio al Shifa sono state
improvvisate conferenze stampa nella persuasione che l'ospedale non
sarebbe stato colpito da Israele. Lo stesso giornale ha
sottolineato che i miliziani di Hamas hanno intenzionalmente attaccato
le forze israeliane dall'interno di rioni fittamente abitati.
Ferrando (Pcl):”scendiamo in piazza con i palestinesi” Roma, 5 genn - "E'
necessario e urgente promuovere una grande manifestazione nazionale a
Roma capace di coinvolgere unitariamente, a fianco dei palestinesi,
tutte le forze della sinistra e dell'associazionismo" - lo ha detto
Marco Ferrando del Pcl, spiegando che tale manifestazione avrebbe il
fine di rivendicare il diritto di protestare sotto Palazzo Chigi e
sotto le ambasciate filosioniste, come in tutti gli altri Paesi, e che
respinga “ogni isteria e intimidazione da parte del governo e del
Pdl” - infatti, ha aggiunto - "Sotto il fuoco terrificante della
macchina da guerra di Israele, i palestinesi non hanno alleati presso i
vertici dell'Onu, nell'alta diplomazia europea o in Barack Obama:
possono contare solamente sulla propria eroica resistenza, su una
possibile sollevazione araba in tutto il Medio Oriente e sullo sviluppo
della mobilitazione in Occidente". Ferrando, in merito alle
bandiere di Israele, bruciate nelle piazze, ha voluto spiegare che tali
azioni non significano disprezzo del popolo ebraico, ma disprezzo e
rifiuto del regime sionista. “Un disprezzo - ha tenuto a
precisare – verso un regime che non solo nega le migliori
tradizioni dell'ebraismo ma che si fa scudo del popolo ebraico per
giustificare l'oppressione dei palestinesi: e che proprio per questo,
oltretutto, espone cinicamente il popolo ebraico ai rischi di ritorno
dell'antisemitismo nel mondo" |
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