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L'Unione informa
 
    8 gennaio 2009 - 12 Tevet 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Le regole sempre più complicate sul diritto alla privacy che invadono la nostra quotidianità non sono una novità nel diritto ebraico, dove sono presenti da secoli e sono molto severe. Nella serie dei rigorosi divieti imposti con la grave pena del cherem (interdetto) da Rabbenu Gershom Meor haGolà (960-1028) c'è quello di "leggere una lettera mandata da una persona a un'altra, a meno che il destinatario non l'abbia buttata via". Nell'opinione dei Maestri contemporanei in questo ambito non c'è differenza tra una lettera scritta, un fax, una mail o un sms. Per questo motivo - e per tutte le altre regole che proibiscono la divulgazione di notizie private su altre persone, a tutela della loro dignità o della loro sicurezza - bisogna stare molto attenti non solo a non leggere la corrispondenza altrui, in qualsiasi forma sia stata scritta, ma anche a non "inoltrare" ad altri o divulgare su blog o fogli analoghi le corrispondenze private, a meno che non vi sia un esplicito permesso del mittente.
La recente scomparsa del politologo di Harvard, Samuel Huntington, ha riacceso il dibattito sulla sua teoria della guerra delle civiltà, al centro della quale si troverebbe oggi lo scontro fra l’Islam e l’Occidente. Huntington è stato accusato di eccessivo schematismo e conservatorismo, e in realtà ha commesso un errore. Lo scontro di civiltà non è effettivamente fra un blocco culturale e geopolitico occidentale e uno islamico, ma passa all’interno di ciascuna di queste due grandi matrici. Da un lato, occidentali o islamici, i fautori di una società civile, di un sistema democratico, del pluralismo culturale, o in mancanza di meglio, della tolleranza; dall’altro, occidentali o islamici, i fautori dell’intolleranza religiosa, della soppressione del dibattito, della negazione dell’altro, del terrorismo. Da un lato, occidentali e islamici, i fautori dell’incendio di bandiere, dei missili sulle case dei civili, degli attentati suicidi negli autobus urbani, delle autobombe davanti alle moschee di Baghdad, delle stragi di Mumbai, di Madrid, di Londra, dell’11 settembre, di Piazza Fontana, di Brescia, dell’Italicus, della Stazione di Bologna, della Rue de Copernic, dell’Achille Lauro, di Stefano Taché, di Carlo Casalegno, dell’amputazione della mano, e della ripristinata crocifissione. Dall’altro lato, occidentali e islamici, gli altri.  Sergio
Della Pergola,
demografo, Università ebraica di Gerusalmme
Sergio Della Pergola  
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  gabriela_shalev Una donna in prima linea
al Palazzo di vetro per Israele


Ieri sera a margine del Consiglio di sicurezza dell'Onu ha affermato che lo Stato ebraico "prende molto seriamente" la proposta egiziana per un cessate il fuoco a Gaza, Gabriela Shalev, prima donna israeliana nominata ambasciatore alle Nazioni Unite da qualche mese ha lasciato la sua  cattedra di diritto al Ono Academic College, un prestigioso istituto universitario privato che si trova nei sobborghi di Tel Aviv (di cui era anche rettore) per rappresentare le ragioni dello Stato di Israele al Palazzo di vetro.
Sessantasette anni, nata a Tel Aviv durante il Mandato britannico, Gabriela Shalev si laurea in Giurisprudenza alla Università ebraica di Gerusalemme, si fa una famiglia, ma la sua vita viene colpita poco dopo aver compiuto i trent'anni da un fatto tragico. Suo marito muore nel 1973 durante la Guerra del Kippur e la lascia da sola a crescere due figli. Ma Gabriela non si perde d'animo. Esperta di contratti e di diritto comparato, scrive nove libri e centinaia di articoli, fino al 2002 insegna diritto alla Università ebraica di Gerusalemme e molte sono le sue collaborazioni con prestigiose università europee e del Nord America.
Nel 1989 conquista il Susman Law Prize, nel 1991 lo Zeltner Law Prize e nel 2003 il premio della Israeli Bar Association, l'associazione che in Israele assicura lo standard e l'integrità della professione legale.
Solo sei mesi fa il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni le affida l'incarico di ambasciatore alle Nazioni Unite, al posto di Dan Gillerman con il quale si era interrotto un rapporto di fiducia. A chi critica la sua scelta la Livni risponde "Era fondamentale per me assegnare a una donna l'incarico di rappresentare Israele in un luogo così importante...".
Un ruolo delicato il suo, viste le posizioni spesso ostili a Israele espresse dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Di certo si aspettava di dover lavorare duramente per mostrare l'altro volto di Israele, non quello della guerra e del terrore, ma quello dello sviluppo in campo scientifico, agricolo e tecnologico. Forse  allora non sapeva che si sarebbe trovata nel giro di poche settimane sotto il fuoco di una guerra, ma negli ultimi tempi deve averne avuto consapevolezza: in una lettera al Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon della fine di dicembre la Shalev aveva reso noto che se si fosse reso necessario Israele avrebbe agito militarmente per proteggere i suoi abitanti nel Negev e qualche giorno dopo aveva avvertito che Israele stava per perdere la pazienza e che presto avrebbe risposto ai crescenti attacchi missilistici provenienti dalla striscia di Gaza, per porre fine all'incubo della popolazione israeliana.
Dall'inizio dell'operazione Piombo fuso il 27 dicembre scorso ha rilasciato decine di interviste sostenendo che Hamas e l'Iran non sono soltanto nemici israeliani, ma di tutto il mondo occidentale e ha ringraziato la Casa Bianca e la Comunità ebraica americana per il sostegno allo Stato di Israele. Gabriela ha poca esperienza in campo diplomatico, ma sa parlare di diritti e di giustizia e, quel che è più importante, sa farli valere. A poche ore dal bombardamento israeliano su una scuola Onu a Gaza, che ha causato la morte di numerosi civili, la Shalev deve far valere le ragioni di Israele,  che pretende che la fine delle ostilità sia collegata alla cessazione degli attacchi alla popolazione civile.
Sono ore difficili per Gabriela Shalev, importanti, decisive. Dalle sue capacità, dal suo saper mantenere il sangue freddo e far valere le ragioni del popolo ebraico, dipende una parte del futuro dello Stato di Israele.
“Faccio solo il mio lavoro, non mi lamento. E' un grande onore rappresentare Israele in questo momento” afferma in questi giorni, confessando di sentire la mancanza della sua famiglia  e dei suoi studenti. Ma in questo momento così teso, così difficile, continua a ripetere di non essere mai sola. Attorno a lei ci sono tutti coloro che credono nella democrazia e nel progresso in Medio Oriente. Dietro la sua scrivania, al Palazzo di vetro, i ritratti dei suoi cari, suo marito, che per difendere l'indipendenza di Israele non ha fatto ritorno a casa, suo nonno Siegfried Manheim che ha portato la famiglia in Israele. E tutti gli altri portati al massacro, negli anni bui della Shoah, da un'Europa che mandò a morte milioni di civili indifesi e innocenti.

Lucilla Efrati
 
 
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Arduo il compito di operare una selezione tra le centinaia di notizie che il vento della guerra in medio oriente porta con se in questi giorni. Per questo è preferibile utilizzare le notizie apparse oggi sui quotidiani come lenti di ingrandimento su fenomeni più ampi e complessi.
Sorvolando sull’effetto deja vu, poiché non si finirà mai di rimanere stupiti da come a volte, tristemente, la storia si ripete, fa rabbrividire nel nostro paese la serie di accuse e iniziative volte a penalizzare lo Stato israeliano attraverso gli ebrei presenti sul territorio italiano. L’iniziativa di un sindacato autonomo romano di boicottare i negozi gestiti da ebrei, lascia sgomenti e costringe a uno sgradito tuffo nel passato (La Repubblica). Altrettanto sgradevoli, le dichiarazioni del Cardinal Martino (La Stampa, Il Mattino, Il Messaggero, La Repubblica ..) che, paragonando Gaza a “un grande campo di concentramento”, ha forse (!) scelto un paragone azzardato per affrontare il problema dell’emergenza umanitaria nei territori in guerra. L’Italia purtroppo non è, dunque, di fatto immune all’ondata di antisemitismo che ha colpito l’Europa dopo l’inizio delle operazioni militari israeliane lo scorso 27 dicembre.
A prescindere dalle “scaramucce”, mancati inviti e lo scambio di reciproche accuse tra opposizione ed esponenti di Governo, la guerra continua e, con essa, il frenetico impegno del fronte diplomatico, all’opera per stabilire una tregua tra le parti (Corriere della Sera, Europa). Punta di diamante dello sforzo diplomatico in medio oriente l’energico Sarkozy, il cui raggio di azione è fortemente amplificato dal vuoto di potere lasciato dagli Stati Uniti nel momento del passaggio dei poteri al neoeletto presidente Barack Obama e, dalla posizione ricoperta dalla Francia nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di cui è presidente di turno. Il piano Sarkozy-Mubarak (Avvenire, Repubblica) ha ricevuto la timida accoglienza di entrambe le parti che seppure non l’abbiano ufficialmente accettato, non l’hanno neppure ufficialmente respinto. Terreno fertile per esperti e geopolitici, le cui penne sono spesso ospitate dai quotidiani. In un’ intervista riportata da Il Messaggero, Moisi, esperto di geopolitica, sostiene che l’unica soluzione al conflitto potrà arrivare dagli USA. Mentre tra le pagine de Il Foglio, l’ipotesi più accreditata sembra quella della possibilità di una tregua duratura solo quando la prova di forza avrà reso impotente Hamas. Nel frattempo le truppe israeliane hanno dato il via alla terza fase dell’operazione che prevede l’ampliamento delle forze di terra.
Durante questi giorni di tensione e apprensione per le sorti del conflitto mediorientale, un’altra notizia offre uno spunto di forte dibattito e riflessione nella stampa italiana. Lascia infatti uno strascico di perplessità l’atto, probabilmente non preordinato, ma lo stesso fortemente suggestivo di circa 800 musulmani che, alla fine di un corteo non autorizzato contro le violenze nella striscia di Gaza, si sono ritrovati durante l’ora della preghiera, rivolti alla Mecca, sul sagrato del Duomo di Milano (Il Foglio, Liberal, Libero
, L’opinione, La Repubblica, L’Avvenire).
Con la solita lente di ingrandimento fornita dall’informazione, la notizia in questione solleva questioni inerenti il multiculturalismo, l’integrazione e la tolleranza (nonostante, in questi giorni, siano arrivate delle scuse ufficiali da parte della comunità islamica).
 
Melissa Sonnino

 
 
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Riccardo Pacifici: "Guerra dovuta, è un'azione di difesa"            Roma, 8 gen -
"Una guerra dovuta ma che ci procura angoscia e sofferenza" - ha dichiarato oggi il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, in merito al conflitto israeliano in corso. Lo stesso ha definito questo conflitto come "una guerra di difesa", "ma  - ha aggiunto - allo stesso tempo, sappiamo che vuole arrivare a un obiettivo molto chiaro e netto: rinvigorire il dialogo con le forze moderate del mondo palestinese, oggi rappresentate dal presidente Abu Mazen".

Boicottaggio negozi di ebrei,
il sindacato Flaica Cub fa chiarezza
Roma, 8 gen -
In merito al boicottaggio dei negozi appartenenti a ebrei, proposto ieri dal sindacato di base, Gianfranco Desiderati, segretario provinciale del sindacato Flaica Cub, fa chiarezza.
In una nota afferma che non esiste né sarà diffusa alcuna lista di attività commerciali in cui non comprare perché appartenenti a esponenti della Comunità ebraica. Nella stessa nota precisa che "non è mai stata nominata nei nostri comunicati la Comunità ebraica romana, a cui esprimiamo tutta la nostra solidarietà per le sofferenze che ha subito nel passato e che riconosciamo quale composta da cittadini e lavoratori onesti". "Condanniamo - spiega Desiderati - a prescindere qualunque forma di antisemitismo di destra e di sinistra e siamo per l'integrazione completa di tutte le etnie culturali. Quello che proponiamo con la nostra iniziativa è il boicottaggio finale di Israele perché chiunque usi mezzi militari contro civili inermi, sia palestinesi che israeliani, commette un crimine contro la vita umana: il boicottaggio economico deve impedire di continuare ad acquistare altre armi da guerra".


Israele autorizza gli stranieri a lasciare la Striscia
Valico di Erez , 8 gen -
Circa 250 stranieri e palestinesi con doppia nazionalità sono stati autorizzati oggi da Israele a lasciare la Striscia di Gaza. Lo riferiscono la Croce rossa e l'esercito israeliano. Le 250 persone sono state trasportate a bordo di sei autobus da Gaza City al valico di Erez, tra il nord della Striscia e Israele, ha detto un portavoce della Croce Rossa internazionale. L'esercito israeliano ha confermato il passaggio degli stranieri. Il 2 gennaio scorso, alla vigilia dell'inizio dell'offensiva di terra Israeliana diverse centinaia di stranieri erano stati autorizzati a lasciare la Striscia di Gaza.
 
 
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