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Raccogliamo
i tasselli del mosaico e ricomponiamoli in una trama unitaria, ovvero
possibilmente dotata di un qualche senso. Primo passaggio: la
denigrazione basata sulla finzione di un equivoco che non c’è. Un
sindacatino autonomo, il Flaica-Uniti- Cub, evidentemente molto
militante, ha invitato a «boicottare tutti i negozi romani gestiti da
ebrei». Così ce lo raccontano le cronache di Maria Rosaria Spadaccino
su il Corriere della sera, Giacomo Sette su Libero, Raffaela Troili su il Messaggero e il Messagero Roma, Paolo Brera su la Repubblica, Guido Ruotolo su La Stampa, Fabio Perugia su il Tempo, Giovanni Grasso su l’Avvenire, Marta Rossi e Delfina Santoro su Epolis Roma, Stefania Scarpa su il Giornale e Paolo Guzzanti sempre su il Giornale, Carlo Bucci su la Repubblica, Valeria Forgnone su la Repubblica Roma, Alessandro Ferrucci su L’Unità Roma ma anche il Mattino. La
défaillance commessa non sta nella menzogna evocata dai suoi
“dirigenti” che, chiamati in causa, hanno frettolosamente rettificato
dicendo che il loro era un invito a non acquistare prodotti israeliani,
punto e basta. Piuttosto è l’indice di una sprovvedutezza, quella di
avere voluto fare il passo più lungo della gamba, dicendo a viva voce
quello che tanti altri pensano ma che sanno di non potere (ancora)
pronunciare apertamente. Se vi fate un giretto tra la miriade di blog e
di pagine web in internet vedrete come la “proposta” del Flaica sia
semplicemente la forma, neanche troppo esacerbata, di un odio che sta
montando, alimentato com’è dalla ferocia di un antico e nefasto
pregiudizio. L’equivoco che non c’è è invece il fingere, colti con le
mani nel sacco, di avere “confuso” gli ebrei con gli israeliani.
“Scusateci - fanno finta di affermare questi signori - ci siamo
un po’ sbagliati: mica ce l’abbiamo con gli ebrei. Piuttosto sono gli
israeliani che ci stanno antipatici”. Dimitri Buffa, su L’opinione,
ci racconta di una di queste derive culturali e morali, quello
dell’antropologa Ida Magli (la cui portata che va ben al di là
dell’episodio appena menzionato) e di come possa sfondare una fragile
porta, quello del senso comune. Fa da pendant al delirio
politico-ideologico di certuni quello pseudoteologico espresso dal
calciatore Nicola Legrottaglie e riportato dalla Gazzetta dello Sport,
per il quale «il conflitto a Gaza è una profezia della Bibbia. Il
popolo d’Israele era quello prediletto da Dio. Ma non l’ha riconosciuto
e ora ne sta pagando le conseguenze». Bagatella, ad onore del vero, già
tante volte sentita in giro ma rafforzata nella sua strafottenza dal
fatto che a pronunciarla è un calciatore, archetipo del vero e proprio
maître à penser nella società dei consumi e delle veline. Che le acque
e i pensieri siano molto confusi, poi, ce lo ricorda con la sua solita
autorevolezza padre Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di
Bose su la Repubblica,
che spende più di una assennata parola sul significato spirituale della
preghiera. Di contro, aggiungiamo noi, al suo uso politico, come è
avvenuto nei giorni scorsi sul sagrato del Duomo milanese, fatto sul
quale ritorna Gad Lerner con una intervista per la Repubblica. Una nota della Conferenza episcopale italiana, richiamata da il Riformista,
enuncia un passo importante: «l’antisemitismo facilmente si sposa con
l’antisionismo». È un importante richiamo poiché, come ricorda Sergio
Minerbi nell’intervista resa a Fabio Scuto per la Repubblica,
l’atteggiamento della gerarchia vaticana fino ad oggi è stato assai
poco equidistante. Peraltro, come pare indicare Andrea Bevilacqua su Italia Oggi,
nelle stanze del Vaticano rispetto alla crisi che si sta consumando a
Gaza è in corso senz’altro un confronto “dialettico” tra opinioni
contrastanti. Chi invece è della stessa opinione, e da sempre, è il
granitico Francesco Bifo Berardi su Liberazione che ripropone, a modo suo, la sostenibilità della tragica equazione tra religione e politica. Secondo
passaggio: se tra le strade di Gaza e delle cittadine limitrofe si
combatte una battaglia con pallottole e bombe sulla stampa nazionale e
internazionale (e ancora di più tra le televisioni) si sta svolgendo
uno scontro non meno pesante, giocato sul destino delle immagini che
vengono prodotte ed utilizzate per definire i protagonisti del
conflitto in corso. Ci ragiona sopra il rabbino Marvin Hier, su The Wall Street Journal Europe.
Due sono i riscontri da cui partire per quel che riguarda casa nostra.
Il primo demanda ai linguaggi e all'immaginario che essi evocano: a
scorrere le pagine di alcuni dei nostri giornali pare di essere
ripiombati nella cupa atmosfera che contrassegnò la campagna militare
libanese del 1982, quando Israele, ma anche e soprattutto gli "ebrei",
furono indicati come i responsabili diretti di un crimine, da alcuni
definito senza mezzi termini come "genocidio" dei palestinesi. Le
azioni dell'esercito di Gerusalemme (ma la quasi totalità dei
commentatori fa riferimento, non a caso e non per sbadataggine, a Tel
Aviv come capitale di Israele), infatti, vengono giudicate senza nessun
tipo di contestualizzazione. L'esercito israeliano bombarda i civili,
uccide i bambini, massacra le famiglie, affama la popolazione della
Striscia e così via. Non c'è un prima e neanche un durante: il focus
mediatico è ossessivamente concentrato sugli effetti dell'azione
militare, amplificati oltre misura. Si tratta di un infelice
ritornello che viene offerto quotidianamente ai lettori, condito
con la salsa dell'ovvietà. Che vi siano eccezioni al riguardo è
non meno vero ma a passare, come messaggio principale, è il più
delle volte il richiamo alla "colpa a prescindere" di
Israele. Il secondo riscontro, e si intreccia al primo, è nel
merito della modalità in cui viene ricostruita tutta la vicenda in
corso a Gaza: si tratterebbe di un problema squisitamente "umanitario"
che, tradotto, in parole povere, vorrebbe dire che Israele è, nelle sue
condotte, disumana per definizione. Così, tra i tanti possibili esempi,
Stefano Sarfati su il Manifesto (o i capitomboli della ragione fatti Tommaso di Francesco, sempre su il Manifesto, riguardo al sindacatino autonomo di cui dicevano in apertura). Terzo passaggio: le notizie dal fronte e dagli annessi e connessi. Ce le ricordano, tra gli altri, Reuel Marc su il Foglio e la quotidiana corrispondenza di Toni Capuozzo sempre per la medesima testata. C’è il rischio di un secondo fronte, si interroga Fiamma Nirenstein su il Giornale cosi come fanno Liberal e Andrea Morigi su Libero pronunciandosi
sugli orizzonti libanesi? Improbabile, ma su questo aspetto avremo modo
senz’altro di tornare sopra. Per la serie dell’analisi, più o meno
condivisibili ma sempre informate e interessanti, si legga oggi il
pezzo di Antonio Ferrari su il Corriere della Sera
riguardo a «la svolta di Fatah». Forse un po’ più perplessi può
lasciare invece l’intervista a Todd Gitlin di Marlisa Palumbo su Europa,
dove si contesta la strategia mediatica di Israele rispetto a Gaza, ma
certe affermazioni hanno pure un qualche fondamento. Ancora, tra le
cose da leggere c’è Giuseppe Mammarella su il Messaggero. Da segnalare, infine, l’articolo di Barbara Schiavulli su l’Espresso, un viaggio inquietante dentro Hamas, insieme all’intervista di Gigi Riva a Ely Karmon, sempre su l’Espresso.
Claudio Vercelli |
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