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L'Unione informa
 
    14 gennaio 2009 - 17 Tevet 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  alfonso arbib Alfonso Arbib,
rabbino capo
di Milano
La parashà di Vayechì  è una parashà setumà, letteralmente chiusa, cioè non c'è uno spazio fra la fine della parashà precedente e l'inizio di quella di Vayechì. Rashì dice che questa parashà è chiusa
perché, con la morte di Ya'akòv, si sono chiusi gli occhi degli ebrei per la durezza della schiavitù. Questo commento di Rashì è problematico perché la schiavitù comincia molto dopo la morte di
Ya'akòv e per di più alla morte di Ya'akòv, non solo gli ebrei non sono schiavi ma Yosèf è viceré d'Egitto. Come si fa allora a parlare di schiavitù? Rav Moshè Feinstein sostiene che Rashì vuol dire che la schiavitù comincia già allora. Yosèf, per riuscire a seppellire suo padre nella grotta di Machpelà deve supplicare il faraone e far
intercedere per lui tutta la corte. E' vero. Yosèf è viceré d'Egitto però è comunque sotto il dominio di qualcun altro. Per il momento questo dominio è benevolo, ma in ogni momento la situazione può
cambiare. 
L'operazione militare israeliana a Gaza ha fatto una vittima in America, il tradizionale fronte filo-palestinese si e' dissolto. I gruppi dell'ebraismo liberal non sono riusciti a organizzare  manifestazioni significative contro "Piombo fuso", gli editorialisti più ostili a Israele hanno evitato di difendere apertamente Hamas e perfino le organizzazioni più filo-arabe hanno scelto un profilo basso, mentre organi di stampa in genere molto critici con Israele, come il New York Times e la tv Cbs si sono soffermati nella denuncia dell'uso di scudi umani da parte di Hamas. Sono molteplici i fattori all'origine dell'indebolimento del fronte filopalestinese - dalla solidarietà per le vittime israeliane del terrorismo alle similitudini ideologiche fra Hamas e Al Qaeda - ma forse ciò che è stato più determinante è il dissenso della comunità arabo-palestinese nei confronti di Hamas, percepita come un nemico giurato della prospettiva di uno Stato indipendente a fianco di Israele, in pace e sicurezza.
Maurizio Molinari, 
giornalista
maurizio molinari  
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  anna foaMemoria 3 - Anna Foa: Attenti ai rischi
di istituzionalizzare quello che è stato
 

Delicatezza. Pudore dei sentimenti. I semi della Memoria si possono coltivare solo così. Lontano dai pressappochismi ignoranti e dalla bulimia dell'orrore. Lontano dal ricordo dovuto per rituale e dalla burocrazia che soffoca e paralizza.
Per Anna Foa, storica, docente all'Università La Sapienza di Roma, una delle più acute testimoni della realtà ebraica del nostro tempo, a sessant'anni dall'apertura dei cancelli di Auschwitz la memoria della Shoah rischia di smarrire se stessa. In una sorta di perverso gioco dell'oca la buona intenzione del ricordo, irrigidita dalle cerimonie e svuotata di senso, minaccia infatti di generare indifferenza e ostilità riportando la coscienza collettiva proprio lì dove si era partiti: alla casella del razzismo e dell'antisemitismo.
Anna Foa, in una recente intervista pubblicata da Moked la storica Annette Wiewiorka ha additato, tra i prodotti dell'estrema istituzionalizzazione della Memoria in Francia, la nascita di una vera e propria classe di “impiegati della Memoria”, di funzionari che hanno l'unico compito di presidiare il ricordo della Shoah. Come stiamo in Italia da questo punto di vista?
Questa della Wiewiorka è un'osservazione che mi ha colpito molto. In Italia il fenomeno non è certo visibile come in Francia, dove la presenza e le istituzioni ebraiche sono molto numerose e forti. Ma anche da noi non mancano i segni di un'istituzionalizzazione marcata. Ad esempio mi colpisce il fatto che a Roma vi sia un apposito delegato del sindaco per la Memoria. La Memoria va collegata alla vita. Istituzionalizzarla significa confinarla in un angolo, congelarla, privarla di impulsi progettuali per il futuro.
Un rischio non da poco, soprattutto se si considera che la genesi della Memoria anche in Italia non è stata semplicissima.
La costruzione della Memoria ha richiesto quasi 15 anni. Li ricordo bene quei silenzi, nei primi anni Cinquanta. A scuola non si parlava né della Resistenza né degli ebrei. Io sapevo dalle conversazioni in famiglia, dai libri. Ma non potevo condividere queste conoscenze né con i compagni né con gli insegnanti.
Anche da parte ebraica non è stato facile iniziare a parlare della Shoah.
Non era un elemento che poteva incitare alla ricostruzione. In quegli anni, in cui le energie erano tese alla sopravvivenza la tendenza era quella di soffocare il dolore. Era difficile parlare al mondo di quanto accaduto. E proprio questo era stato l'incubo di Primo Levi e di tanti altri internati nei lager: parlare e non essere ascoltati.
Poi è stato il momento della presa di consapevolezza.
La coscienza della Shoah ha avuto un'esplosione verso la fine degli anni Cinquanta attraverso la memorialistica e il teatro. Il Diario di Anna Frank, rappresentato a teatro da Anna Maria Guarnieri, fu visto ad esempio da centinaia di scolari. Un fenomeno notevole, se si considera che erano anni in cui le scuole non usavano andare agli spettacoli.
Fu un'esplosione contrassegnata da una forte emotività.
All'inizio sì. Poi iniziò l'opera della storia e dunque una fase d'indagine e di riflessione. Ma anche questa trovò non poca difficoltà, anche se il primo libro sull'argomento, “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei” di Leon Poliakov, fu pubblicato in Italia già nel '55. Ma per l'affermarsi di un filone specifico di indagine storica fu necessario attendere gli anni Settanta. La stessa minuziosa ricostruzione di Raul Hillberg, rimasta l'opera basilare sull'argomento, trovò inizialmente grosse difficoltà di pubblicazione negli stessi Stati Uniti. Non parlerei però di precise volontà di occultamento, piuttosto di una sorta di rimozione.
Il processo culmina nel 2000 con la nascita del Giorno della memoria.
La sua istituzione è stata un passaggio molto importante. Allora ne discussi spesso con mio padre, Vittorio Foa, che invece nutriva molti dubbi sui rischi di una progressiva burocratizzazione. Questa mia certezza è però entrata in crisi quando mi sono resa conto che questa ritualità stava diventando troppo istituzionale, che si rischiava di perdere di vista il fatto che la Shoah non è una questione dei soli ebrei ma un tema comune a tutti e che si andava esercitando una sollecitazione estrema della memoria, quasi una sorta di bulimia.
Negli ultimi anni il tema della Shoah in effetti è divenuto un vero e proprio genere: in letteratura, al cinema, in tivù. E spesso è divenuta terreno d'incontro anche politico.
Persino la memorialistica è divenuta un genere… Ormai la Shoah è diventata il tutto. E' stata il grande trauma che ha segnato il Novecento. Da lì non si può tornare indietro. Il rischio è però che questa consapevolezza finisca per divenire il filtro unico con cui ci si occupa del mondo.
Allude al fatto che spesso la Shoah è pietra di paragone per altre tragedie?
Non c'è alcuno scandalo nel dire che la Shoah ha aspetti di grande somiglianza con altri genocidi. Trovo invece preoccupante che la nostra società abbia un rapporto così intimo con il dramma della Shoah, che la Shoah sia divenuto l'argomento che più interessa e più suscita dibattiti. Come se con quest'evento il mondo fosse cambiato e non si sappia ancora in che direzione si sta andando.
Neanche il mondo ebraico ha ancora trovato una linea comune nell'affrontare la Shoah.
Vi è conflitto tra una parte religiosa per cui l'ebraismo non va identificato con la Shoah ed è ebreo solo chi conduce una vita ebraica e i laici. Il laico fonda la sua identità sulla storia e tende a concentrarsi dunque sulla Shoah trascurando invece aspetti vitali e progettuali dell'ebraismo. D'altronde non è facile essere un popolo di sopravvissuti, soprattutto quando l'attacco è stato così violento.
Come si può controbattere all'eccessiva pervasività della Shoah?
Servono rigore e grande equilibrio per non perdere questo pezzo di storia ed  eliminare le scorie e la sovrabbondanza. L'eccesso, penso ad esempio alle immagini di morte così spesso esibite negli incontri o nelle esposizioni, può divenire assuefazione con grande facilità. La mia esperienza di docente mi ha mostrato che non occorre invece mostrare cataste di morti per comunicare l'orrore. Dobbiamo riuscire a ritrovare il pudore delle emozioni. Senza cercare di cambiare il nostro interlocutore  con la violenza dell'orrore, gettando dei semi con delicatezza.
Il Giorno della memoria va dunque ripensato?
Senz'altro. Se potessi toglierei le ufficialità, le approssimazioni e cercherei di parlarne in modo pacato. Suggerirei qualche lettura, Primo Levi innanzi tutto. Inviterei allo studio e alla conoscenza perché la Memoria si costruisce sulla base del sapere. Proseguire sulla strada attuale di proliferazione incontrollata del ricordo rischia di generare una grande stanchezza nell'opinione pubblica alimentando la rinascita di forme d'antisemitismo.

Daniela Gross
 
 
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Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi «cinquanta anni di storia» nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: l’accusa del rabbino capo di Venezia Elia Enrico Richetti è forte, conquista le prime dei giornali, e supera per un attimo, anche nella nostra rassegna, l’attenzione al Medio Oriente.

Richetti ha scritto sul mensile dei gesuiti Popoli le ragioni per cui il rabbinato italiano non parteciperà alla Giornata sull’ebraismo della Cei, il prossimo 17 gennaio. La scelta è «la logica conseguenza di un momento particolare che sta vivendo il dialogo interconfessionale». Richetti ricorda la decisione di Benedetto XVI di reintrodurre, con il messale pre-conciliare, la preghiera del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei. Se poi si considerano, ha continuato «le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perché in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant'anni di storia della Chiesa». Riportano le parole di Richetti tutti i principali giornali italiani (Corriere, Repubblica, Sole, Stampa ecc); su Avvenire il vescovo Vincenzo Paglia, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, risponde dicendo che cinquant’anni di dialogo «non si cancellano. Indietro non si torna». «Chi condivide gli stessi valori di fondo farebbe meglio a non dividersi» dice invece il Cardinale Walter Kasper a Gian Guido Vecchi, sul Corriere. «Il dialogo ebraico-cristiano è un processo difficile e necessario che deve andare avanti malgrado le difficoltà», sostiene il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni. La chiesa, suggerisce il Foglio, «dovrebbe rileggere» le parole pronunciate anni da da Elio Toaff al cospetto di Giovanni Paolo II: «Il ritorno del popolo ebraico alla sua terra deve essere riconosciuto come un bene e una conquista irrinunciabile per il mondo».

Si continua a combattere a Gaza, ieri 60 obiettivi colpiti, e continua il lancio di razzi su città israeliane. Quello di ieri è comunque il «secondo giorno di combattimenti relativamente leggeri», dice l’International Herald Tribune. Marco Cremonesi entra nella Striscia e il Corriere gli dedica l’apertura in prima. «Hamas resiste all’offensiva» scrive Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore, ma «apre a un’ipotesi di tregua» e dice di «poter accettare una forza d’interposizione internazionale nel caso i soldati fossero turchi». La proposta della diplomazia egiziana, dunque, guadagna in credibilità. «Israele dice che le forze di Hamas sono danneggiate ma sostanzialmente intatte», riporta invece l’Iht, scrivendo anche che «L’Iran sta furbescamente attenuando il suo supporto al gruppo palestinese».

Dagli Stati Uniti si delinea intanto la posizione della presidenza Obama. «L’America non può rinunciare alla prospettiva della pace in Medio Oriente - ha detto ieri il segretario di Stato in pectore Hillary Clinton (su Repubblica e Corriere) - ma non possiamo negoziare con Hamas se non rinunciano alla violenza, se non riconoscono Israele». «Hamas è come Al Qaeda - dice Benjamin Nethanyau a Francesco Battistini, sul Corriere - coi terroristi non si colloquia, li si sconfigge e basta». Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, intanto, è arrivato in Medio Oriente, ma il Corriere definisce fin d’ora, la sua, una «missione impossibile».
Sul Foglio Toni Capuozzo, dal confine di Gaza, racconta la guerra tra i riservisti. Sul Sole sempre Ugo Tramballi analizza la libertà di stampa israeliana in tempi di guerra.

Tra gli altri articoli della rassegna, ancora sul Foglio lo storico Daniel Goldhagen racconta a Giulio Meotti come «l’Islam politico ha mutuato dal nazismo il suo antisemitismo, Hamas è orientato in modo nazista e genocida verso gli ebrei». Sull’Unità Loretta Napoleoni scrive che «La capitolazione di Hamas deve avvenire entro il 21 gennaio», prima dell’insediamento di Obama. Francesco Bonami sul Riformista se la prende con i genitori irresponsabili che mandano per le strade i loro bambini con il cartello stella di David / svastica nazista».

Nelle cronache molti giornali riportano dell’episodio antisemita di Pisa, dove la sinagoga è stata imbrattata con uova di vernice rossa.

Beniamino Pagliaro

 
 
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Gaza: Fassino, intervento israeliano a Gaza non è una spedizione punitiva
Roma, 14 gen -
Il ministro degli Esteri ombra Piero Fassino, intervistato a "Panorama del giorno" riguardo alle affermazioni di D'alema sull'intervento israeliano a Gaza, ha affermato: "Non credo che sia una spedizione punitiva: credo che questa espressione non corrisponda a quello che sta succedendo effettivamente sul campo, ma non mi pare che non si debba impiccare il pensiero di un uomo politico ad una parola più o meno infelice".
Quanto alla necessità di trattare con Hamas, sottolineata da D'Alema, Fassino osserva: "Io ho sempre detto una cosa molto chiara che mi pare corrisponda all'orientamento di tutta comunità internazionale. Hamas è certamente un protagonista della scena palestinese ma se vuole essere parte del processo di pace per risolvere quel conflitto deve riconoscere il diritto di Israele ad esistere perché la pace in Medioriente si fa soltanto se si riconoscono i diritti dei due popoli che in quella terra vivono . Patria per i palestinesi, sicurezza e certezza di futuro per lo Stato di Israele. Chi non riconosce uno di questi due diritti non solo non lavora per la pace ma impedisce la realizzazione quindi si mette fuori dal processo di pace, Hamas vuole essere parte del processo? Deve riconoscere il diritto di Israele ad esistere. Non lo riconosce? E' fuori da processo. D'Alema non dice cose diverse da queste, D'Alema sottolinea in particolare il fatto che Hamas non è solo un'organizzazione militare ma anche un'organizzazione politica che ha vinto le elezioni. Bisogna tenerne conto, ma tenerne conto significa avere una strategia precisa verso Hamas che è quella che ho indicato io".



Pisa, imbrattata con vernice rossa la sinagoga di Via Palestro

Pisa 13 gen -

Il Sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, si è recato alla Sinagoga di Via Palestro, imbrattata con uova contenenti vernice rossa, per esprimere la solidarietà della città di Pisa al presidente della Comunità ebraica Guido Cava.
"Il rapporto fra Pisa e la sua Comunità ebraica è forte e radicato, l'oltraggio alla sinagoga offende gli ebrei pisani e Pisa." - ha detto Filippeschi. 
"Non ci può essere giustificazione alcuna; noi consideriamo il gesto sconsiderato e pericoloso. La città saprà, al di là delle singole e diverse  posizioni, respingere il tentativo di trovare negli ebrei e nella loro religione, i colpevoli dei mali attuali. E' semmai vero il contrario. Istituzioni e comunità ebraica sapranno, come sempre hanno fatto, lavorare insieme per la pace possibile". 

 
 
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