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L'Unione informa |
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16 gennaio 2009 - 20 Tevet 5769 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
"Non
uno solo si levò contro di noi per distruggerci" (Hagadà di Pesach) -
Forse i Maestri vogliono insegnare che solo l’incapacità di essere
un popolo uno, unito nei momenti di gioia e nei momenti di
pericolo, può mettere in pericolo l’esistenza d’Israele. Se solo
qualche anno fa tutti insieme avessimo lottato per la nostra terra,
senza divisioni e discussioni, non ci troveremmo ora a soffrire e a
temere per il nostro futuro. (rav Yissachar Teichtel, Ungheria 1943)
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"In guerra, determinazione. Nella vittoria, magnanimità" - Winston Churchill |
Vittorio Dan Segre, pensionato |
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Memoria 4 - 'Dopo l'ultimo testimone' Non basterà dire: "Mai più!"
Arriva in questi giorni nelle librerie l'ultimo libro di David Bidussa.
“Dopo l'ultimo testimone” (Einaudi, 132 pagine, 10 euro) costituisce
un'opera breve ma preziosa, straordinariamente densa e ricca di
indicazioni e stimoli per comprendere e ridefinire il rapporto fra la
Shoah e noi. Nelle prossime settimane sarà certamente al centro del
dibattito, sul fronte ebraico e su quello di tutta la società civile.
Per offrire al lettore un primo spunto di conoscenza abbiamo scelto un
brano dal terzo capitolo (“Politica e cultura del Giorno della
memoria").
(…)
Un aspetto mi sembra rilevante: la convinzione che il Giorno della
memoria riguardi solo la comunità ebraica e non sia un’occasione di
riflessione pubblica sull’antisemitismo e sul razzismo. E un argomento
che da allora si è più volte ripresentato nella discussione pubblica. E
che costituisce un segnale significativo dei «non detti» che
sottostanno alla pratica del Giorno della memoria. Significativamente,
infatti, essi si ripresentano il 27 gennaio 2001 per la celebrazione
del primo Giorno della memoria. In quell’occasione si stabiliscono e si
definiscono le forme della riflessione pubblica, i luoghi del
«pellegrinaggio», la struttura delle manifestazioni e dei cortei
(percorsi, ripartizione degli oratori, voci, scenografia e parole) che
determinano nel giro di breve tempo la costruzione di una tradizione. Quella
spaccatura che si presenta nelle manifestazioni è confermata dalla
tipologia della partecipazione e si manifesta soprattutto con le parole
pronunciate nella discussione pubblica, durante le giornate di
approfondimento nelle scuole e le mostre storiche che accompagnano i
programmi di formazione scolastica ed extrascolastica. A questa
prima caratteristica se ne aggiunge un’altra. Nei luoghi pubblici la
presenza della destra è sporadica affidata al personaggio locale,
spesso solo in qualità di amministratore (sindaco, presidente della
Provincia o presidente della Regione), mentre il «popolo della destra»
semplicemente diserta l’occasione. L’opinione pubblica di destra non
aderisce alle manifestazioni del 27 gennaio perché il Giorno della
memoria è vissuto — tanto a destra come a sinistra — come una data che
ripropone in forma monotematica lo schema culturale del 25 aprile. E
questo perché, per motivi diversi, sia la destra sia la sinistra — e in
Italia anche il mondo cattolico — non fanno i conti con una parte
consistente del proprio bagaglio culturale. Una parte della
destra non si misura con il razzismo che ha segnato profondamente la
sua fisionomia politica e culturale nel Novecento; l’altra parte fa
finta di non sapere che quando si parla di «zona grigia», di mondo
dell’indifferenza, è di lei che si parla. Entrambe pensano di risolvere
il problema del genocidio ebraico ricorrendo alla retorica del «ben
altro» ed evocando il Gulag. La sinistra pensa che sia sufficiente
includere l’antisemitismo nell’antifascismo per risolvere il problema,
evitando cosi di affrontare le questioni che da più di un trentennio
hanno minato alcune fondamenta essenziali del suo schema mentale in
merito a eguaglianza e differenza (peraltro senza mettere nel conto un
confronto serrato con il suo antisemitismo, che non è nato casualmente,
ha più di un secolo di vita sia nelle file dei riformisti che in quelle
degli intransigenti). Il mondo cattolico, in una porzione che in
questi anni è sempre più aumentata, pensa che sia sufficiente predicare
e praticare il perdono per risolvere il problema culturale del suo
antigiudaismo, senza contare il fatto che, al suo interno, una
minoranza numericamente consistente ha in mente di pensare Auschwitz
come un luogo del martirio cristiano. Nessuno in realtà mette in
discussione il proprio profilo culturale e politico. E soprattutto
nessuno percepisce il fatto che il proprio vocabolario non è capace di
essere universalistico, da solo, se vuole riflettere su quell’evento. Tutto
questo non toglie, tuttavia, che fuori da quelle piazze, e per certi
aspetti in contrapposizione a esse, prevalgano il linguaggio e il gergo
del revisionismo storico, che spesso ripropone consumati luoghi comuni,
i quali fanno dell’Italia delle leggi razziali un paese senza
responsabilità, spostando il discrimine all'8 settembre 1943, al
momento della cosiddetta «morte della patria», quando inizia la
deportazione, evento che sarebbe avvenuto senza una responsabilità
italiana, appunto, quindi interamente attribuibile al tedesco occupante
e perciò «estraneo» allo spirito italiano. Quello che si
intendeva affrontare attraverso il Giorno della memoria tende
immediatamente a tradursi in «uso politico del passato». Ossia
un’operazione che propone una lettura del presente attraverso la scelta
di un particolare del passato, ma in relazione agli interessi che si
hanno qui e ora. E significativo che sul Giorno della memoria
nessuno polemizzi, anche perché criticare il genocidio ebraico nei
fatti equivale a riaprire la questione del possibile negazionismo. In
questo senso tanto a destra come a sinistra, ma anche nel mondo
cattolico, il Giorno della memoria è riferito a un atto né scusabile,
né contrattabile, e dunque percepito e presentato come barriera ultima
non valicabile. Ma questo aspetto apre tuttavia un problema a
chi voglia proporre culturalmente una riflessione pubblica sul Giorno
della memoria e sui suoi possibili contenuti. Il tema è come si discute
della storia del genocidio ebraico, in che forme, in che modo e con
quali domande. Più precisamente, affrontare la storia del genocidio
ebraico richiede di indagare la storia politica, culturale, civile
della società italiana. Non solo gli aspetti generali, ma anche le
singole storie di vita. Si deve tentare di descrivere e di
affrontare la fotografia in movimento di una società o di uno spaccato
di ambiente, confrontarli con altri, cercare di vederli come risultanti
di tante singole storie o di vicende sospese tra pubblico e privato,
dove il dato di vita non deve essere osservato con spirito
voyeuristico, bensì con la delicatezza che richiede l’entrare per la
prima volta nell’intimità e nel privato altrui. In questo senso, si
potrebbe dire, la storia del genocidio ebraico rispetto alle domande
che dovrebbe sollecitare il Giorno della memoria riguarda i molti modi
possibili di affrontare una «microstoria» attuale, al cui centro stanno
i sentimenti, i sistemi di relazione, i legami e i conflitti locali che
tante volte hanno riguardato le singole vicende e il loro intrecciarsi.
Tuttavia la vicenda del genocidio ebraico analizzata dal punto di
vista del Giorno della memoria non dovrebbe essere solo questo. Essa
sollecita contemporaneamente una storia di «medio periodo» e una di
«corta durata». Sono due velocità diverse ma che si uniscono e
consentono due percezioni complementari degli avvenimenti. Avere
uno sguardo di «medio periodo» nel fare la storia del genocidio ebraico
richiede uno studio sulla vita quotidiana di un quartiere, di una
comunità, al cui centro stanno le relazioni tra individui lungo un
ciclo di vita. Proporre un’analisi di «corta durata» significa mettere
in evidenza la costruzione in tempi stretti di un corpo dileggi,
atteggiamenti, sentimenti, opinioni, che consentano di isolare una fase
della storia di una società in modo da poterla studiare e analizzare
come un segmento compiuto all’interno di un più lungo periodo. La
questione delle leggi razziali in Italia è stata studiata spesso come
lenta fuoriuscita da un sistema costruito troppo in fretta. Il problema
tuttavia è che quella velocità allude a un sistema per certi
individuabile nel paradigma già proposto da Hilberg a proposito della
dinamica della Germania nazista, ovvero un meccanismo che non nasce
intenzionalista, già definito a-priori, ma che si definisce attraverso
progressivi aggiustamenti, correzioni, con l’ausilio di un archivio
fatto di frasi, parole, concetti costruiti e consolidati nel tempo. Così,
affrontare la storia del genocidio ebraico significa comporre
contemporaneamente delle storie di vita, ricostruire ambienti, ma anche
proiettare quelle storie in un contesto e in un processo molto più
lunghi, cercando nel passato la formazione di elementi a diverso titolo
strutturanti il lessico dell’Italia delle leggi razziali. Un lessico
che spesso è anche molto precedente a quello dell’Italia fascista e
delle politiche seguite dal regime per la creazione non solo di uno
«stile», ma di un linguaggio nazionale. (...)
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Il Tizio della Sera: "A Gaza si incide un bubbone. Non c'è anestesia"
Secondo una recente scoperta scientifica destinata a fare epoca, Hamas
è forza legittima in quanto eletta democraticamente. La scoperta, su
cui si è a lungo lavorato, è opera di uno scienziato annoverabile tra
le massime menti della Matematica Trovata, o della trovata che è
matematica, il professor Massimo D’Alema. L’ultima Trovata è destinata
a un grande futuro. Si pensi solo alle prospettive che la scoperta può
aprire alla camorra ove questa forza interessante decidesse finalmente
di legittimarsi nelle urne.
***
So in
modo totale, cioè sento, cosa sia in atto in questi momenti per le vie
di Gaza; e so in modo totale, cioè sento, quale terrore di solitudine
schiacci gli ebrei ovunque lavorino e abitino in tutto il mondo.
Eppure, anche se il mondo non ne vuole sapere, e neanche noi vorremmo,
è in corso un’operazione chirurgica altamente drammatica: si incide un
bubbone che minaccia la vita di due nazioni. Non c’è
anestesia.
il Tizio della Sera |
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C’è
forse un aspetto positivo nelle situazioni di crisi: le maschere
cadono. Quegli atteggiamenti calcolati, finti, ovvero di falsa
disponibilità, da molti intrattenuti per puro esercizio di stile o
obbligo di circostanza, vengono ora meno. E le persone rivelano di che
pasta sono fatte. Le vicende di Gaza, per molti nemici di Israele, sono
come la manna dal cielo. Permettono di urlare la rabbia che alligna in
corpo, l’insulto estremo, quello antisemitico, che il clima di
«politicamente corretto» aveva precluso ai più. Insomma, se fino a poco
tempo fa non si poteva dire ma lo si pensava, adesso lo si pensa e lo
si urla. Va in questo senso quanto è accaduto in un corteo in Olanda,
alla presenza di due deputati dell’opposizione socialista, i
partecipanti si sono messi a fare una bella serie di coretti del tipo
«Hamas, Hamas, gli ebrei nelle camere a gas!». Ce ne parla Luigi
Offeddu su il Corriere della Sera così come si accompagna sulla medesima testata
il commento di Piero Ostellino. Su quali siano certi inquietanti
aspetti, in questo caso di genere, trattandosi di giovani donne, della
protesta musulmana in Europa contro Israele (e gli ebrei) si soffermano
invece Cristina Giudici e Diana Zuncheddu su il Foglio. Che peraltro le posizioni del mondo musulmano non siano sempre e comunque le medesime, ce lo ricorda Stella Pende su Panorama,
dove tratteggia un ritratto degli arabi israeliani a tante tinte, nelle
quali se l’aspetto umano è sempre prevalente, non di meno molte ed
estremamente variegate sono le posizioni politiche e le opinioni
correnti su quel che sta capitando a Gaza. Hamas, pare di capire, è ben
lontana dal raccogliere un qualche assenso di principio. Sul fatto che
vi siano diversità di accenti nel mondo arabo, sarebbe bene che ne
prendessimo tutti atto. Le immagini correnti, quelle che ci mostrano
continuamente cortei attraversati da odio e rancore contro Israele,
colgono solo un aspetto, quello estremistico, radicale di un universo
di idee invece assai frastagliato. Certo, la questione umanitaria – il
destino dei civili in quella che è divenuta una trappola per topi, Gaza
per l’appunto – colpisce l’attenzione e l’immaginazione dei più. È del
tutto legittimo, da questo punto di vista, nutrire ansie e perplessità.
Non ci si deve sottrarre al diritto al dubbio. Si legga in tal senso
l’articolo di Anna Momigliano su il Riformista.
Detto questo, passiamo alla questione centrale di come le cose sono
raffigurate (in fondo la madre di tutte le guerre, a ben pensarci)
rifacendoci ad un incidente di percorso che ha avuto come
protagonista Lucia Annunziata. La quale, forse, non ha tutti i
torti a comportarsi così come ha fatto. Infatti, nella puntata di ieri
sera della trasmissione «Annozero», dopo essersi autodefinita con toni
poco cortesi (risparmiamo al lettore il contenuto delle sue parole), ha
consumato un duro affondo contro Michele Santoro, abile comunicatore
della televisione italiana che, con consumata furbizia, dava delle
vicende in corso a Gaza una rappresentazione compiaciutamente emotiva
(e sostanzialmente priva di qualsiasi spessore analitico e
interpretativo). Nel mezzo della trasmissione, dopo avere bacchettato
il conduttore, che le rispondeva sgraziatamente per le rime, Annunziata
si alzava e se ne andava. Ce ne parlano diffusamente Silvia Fumarola su
la Repubblica, e Fabrizio Caccia su il Corriere della Sera. Che
gli animi siano accesi (non c’era da dubitarne) ce lo fa capire anche
l’intervista a Rosetta Loy, a cura di Maurizio Caprara su il Corriere della Sera,
dove senza mezzi termini si dice che «la politica di Israele iniziata
da Ariel Sharon ha significato palate di fango sulle vittime della
Shoah». Registriamo senza commentare, trattandosi di uno dei tanti
indici di un clima pesantissimo che è andato determinandosi in queste
ultime due settimane. Peraltro è ripartita a pieno titolo la campagna
per il boicottaggio delle merci e delle relazioni con Israele. Una
delle paladine di questa posizione, non da oggi, è Naomi Klein che
su l’Espresso
ci dice che Tel Aviv (non Gerusalemme, ovviamente) è come Pretoria ai
tempi dell’apartheid. Insomma, la vecchia equazione
Israele-Sudafrica, torna in auge. La fanno propria in molti, a partire
dai collettivi studenteschi di molte facoltà che chiedono la cessazione
degli scambi con le università israeliane, come ci racconta Libero quotidiano e Laura Mari su la Repubblica, nella cronaca di Roma. Sull’evoluzione
degli scontri nella striscia di Gaza si soffermano invece, e
diffusamente, tutti i giornali. Segnaliamo, nella diversità di accenti,
Lorenzo Cremonesi su il Corriere della Sera, il Foglio dove viene detto che «Hamas negozia e si gioca la sopravvivenza sui varchi con l’Egitto», Francesca Paci su la Stampa, Gian Micalessin su il Giornale, Andrea Colombo su Libero, Eric Salerno su il Messaggero, Guido Rampolli su la Repubblica e, ancora sulla stessa testata, Alberto Stabile. Lorenzo Bianchi intervista su la Nazione - Carlino - Giorno
Eli Karmon, esperto di intelligence, che tratteggia i possibili gli
scenari in divenire. Andrea Margelletti, a sua volta intervistato da
Felice Massimo De Falco su Italia Oggi
esprime invece tutte le sue perplessità sulla sostenibilità di una
operazione militare come quella intrapresa da Israele contro Hamas. Il
suo, più che un giudizio di valore, è una opinione molto critica ma
senz’altro interessante poiché riconduce il problema della condotta
dell’organizzazione radicale islamica a questione eminentemente
politica che, per essere risolta, richiede per l’appunto il ricorso
alle armi della politica. È di questo avviso anche il ministro degli
esteri britannico Miliband che, come ci dice il Messaggero per
la penna di Deborah Ameri, ritiene che «il terrorismo non si batte con
la guerra». Di avviso diverso è invece Edward Luttwak che su Liberal afferma che Israele ha già vinto. Una riflessione più ampia, legata al ruolo dei militari nelle decisioni di Gerusalemme, è invece quella di Gigi Riva su l’Espresso, così come l’articolo di Dan Rabà su Europa, dove l’autore fa un ritratto del riservista israeliano. Non meno interessante è anche l’intervento su la Stampa
di Andrea Riccardi, dedicato a «La Chiesa e la guerra». Come il
lettore avrà modo di riscontrare, gli spunti di riflessione sono
talmente così tanti da lasciare un poco storditi. Mai come in queste
settimane il tema Israele-ebraismo ha assunto una così grande
rilevanza. Forse, a fare luce se certi antefatti culturali, ci può
aiutare David Bidussa, del cui ultimo libro la Repubblica pubblica una anticipazione.
Claudio Vercelli |
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Gaza:
Nirenstein, "trasmissione Santoro
fonte di disinformazione mestatoria" Roma, 16 gen - Fiamma
Nirenstein (Pdl), vicepresidente della Commissione Esteri ha dichiarato
questa mattina "La trasmissione di Santoro di ieri sera sul conflitto
fra Israele e Hamas (che non è il conflitto israelo-palestinese, come
si è suggerito durante tutto il dibattito) altro non è stato che una
fonte di disinformazione mestatoria e confusiva tesa a creare la
criminalizzazione dello Stato d'Israele". "Bene ha fatto la
collega Lucia Annunziata - aggiunge Nirenstein - ad abbandonare
un dibattito disinformativo. Il servizio pubblico dovrebbe intervenire
per verificare un minimo di livello culturale e morale dei suoi
prodotti, pena la trasformazione dell'informazione in incitamento
pericoloso e primitivo". |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
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offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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