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L'Unione informa |
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18 gennaio 2009 - 22 Tevet 5769 |
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alef/tav |
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Benedetto Carucci Viterbi, rabbino |
Anno
zero è quello della creazione di Adamo. Un uomo che è costitutivamente
complesso, fatto di istinto del bene e del male, composito: la polvere
di cui è fatto è tratta da tutti gli angoli della terra. Per
questo deve essere in grado di evitare ogni interpretazione univoca
della realtà, che è sempre faziosa. |
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A
nove anni dalla sua istituzione il Giorno della Memoria è in crisi.
Apparentemente dalla carica emotiva che lo ha investito, dalla retorica
con cui viene rappresentato e vissuto, da ultimo dalle scene di Gaza.
In realtà la scommessa intorno al Giorno della Memoria è incerta da
tempo. Quella scommessa riguardava e ancora riguarda la costruzione di
una coscienza storica attrezzata e soprattutto la costruzione di
un’identità europea che sopravanzasse le singole identità nazionali. L’insuccesso
di questo processo segnato dal risorgere delle identità nazionali e
dalla crisi della costruzione dell’Europa, entra in rotta di collisione
con il contenuto culturale del Giorno della Memoria. Che cos’è la
nazione? Se consideriamo quanto indicato da Ernest Renan nella sua
celebre lezione tenuta nel marzo 1882, dedicata appunto all’identità
della nazione (un testo classico della cultura contemporanea) tutti i
segni che nel corso del Novecento sono stati assunti come il marchio
profondo della nazione sono rimessi in discussione dal genocidio. Non
si tratta più – a differenza di quanto affermava Renan – di
assumere il passato indiviso ma di farne severamente l’inventario. Alla
gloria succede così la vergogna; al ricordo dei torti subiti, il trauma
della partecipazione al male; al posto della pietà filiale per gli
antenati, il culto delle loro vittime. Lo slogan con cui Renan nel 1882
chiudeva la sua conferenza sottolineando come l’inno di ogni patria,
rivolgendosi ai propri antenati, dovesse essere “noi siamo
quel che voi foste, saremo quel che voi siete”, risulta rovesciato nel
Giorno della Memoria. L’inno che oggi viene proposto della patria
postcoloniale, posthitletriana, è semplicemente “Non come voi”. Per
quanto ancora può reggere? |
David Bidussa, storico sociale delle idee |
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Il linguaggio e la nostra attesa nella Grammatica dei tempi messianici
Comincia
questa settimana a far sentire la propria voce attraverso il notiziario
quotidiano l'Unione informa e il Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it
la professoressa Donatella Di Cesare. Docente di Filosofia del
linguaggio all'Università La Sapienza di Roma, al Corso di laurea in
studi ebraici dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e
all'Università di Heidelberg, allieva del pensatore tedesco Hans-Georg
Gadamer, autrice di molte opere dedicate al pensiero ebraico, la
professoressa Di Cesare ha appena pubblicato un'opera dedicata al
Messianesimo e al linguaggio. Nel testo che segue, utile anche a
inaugurare questa nuova collaborazione, il professor Ugo Volli ne parla
oggi ai lettori.
Il pensiero ebraico è attaccato al
senso letterale di ogni singolo versetto del Tanakh e non vi rinuncia
mai, come insegna Rashì, ma nemmeno se ne accontenta. Guarda il testo
più da vicino del versetto, interroga ogni singola parola, arriva fino
a porsi il problema delle lettere e delle loro particolarità grafiche
(Perché la Torah inizia con la bet? E perché vi sono dei punti che
sottolineano certe parole, in una ventina di casi? E perché ancora
certe parashot sono aperte, cioè separate da uno spazio che arriva fino
al margine della colonna e altre no?). E guarda anche assai più
lontano, cerca per l’intera Scrittura rime di senso e di espressione,
ricorrenze verbali, contrapposizioni e somiglianze, prende ispirazione
nei brani aggadici del Talmud e nel Midrash, compone percorsi
ermeneutici che ripiegano il Testo in mille corrispondenze capaci di
generare senso col crepitio e le scintille di contatti elettrici. E’ un
lavoro difficile, che necessita del più grande rigore per
controbilanciare la familiarità che inevitabilmente si prende con la
linearità del Testo. In esso si trova il piacere intellettuale dello
studio e la peculiare sapienza di Israele, ma anche la sua irriducibile
originalità rispetto al sapere dell’Occidente, cioè alla filosofia. E’
sempre interessante quel che accade quando un filosofo ebreo non fa
semplicemente della propria fede l’oggetto di un’apologia o di una
traduzione nel linguaggio della razionalità europea (alla maniera di
Filone, di Hermann Cohen e di tanti altri) ma si accosta
intenzionalmente alla ricchezza della pratica intellettuale ebraica per
riproporla coi suoi mezzi. E’ quanto ha fatto magistralmente molte
volte Emmanuel Lévinas ed è una prospettiva di lavoro culturale di
nuovo attuale in questo momento anche nell’ebraismo italiano, che pure
nell’ultimo secolo o due almeno non può vantare che pochi episodi
isolati di pensiero ebraico significativo. Ne è una prova importante il
libro, breve ma importante, che Donatella Di Cesare ha dedicato alla
Grammatica dei tempi messianici (Albo Versorio, Milano, pp. 76, € 12). Donatella
Di Cesare insegna nella facoltà di Filosofia della Sapienza e nel Corso
di laurea in studi ebraici dell'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane, è stata l’ultima allieva di Hans-Georg Gadamer, al cui
pensiero ha dedicato una importante monografia; ha scritto degli
Humboldt, di Benjamin, di Jaspers oltre che di molti argomenti ebraici.
In questo libro torna a un tema centrale del suo pensiero, quello del
rapporto fra linguaggio ed ebraismo e lo fa seguendo un percorso tutto
interno all’ermeneutica biblica. Il problema centrale che si pone è
quello del Nome e della sua possibile unità. Di Cesare parte
dall’episodio della torre di Babele, mettendo in evidenza alcune delle
caratteristiche del racconto che danno più da pensare: la problematica
”unicità” o “unità” del linguaggio e delle parole (“safah echat u
devarim achadim) che contrassegnavano i suoi abitanti secondo il testo
del Genesi; la loro strana ambizione di “farsi un nome” (ma che nome e
a che pro, se erano totalmente rinchiusi all’interno della loro città?)
e il loro rapporto con la tecnica (i mattoni per pietre e il bitume per
cemento). Il problema del nome desiderato dai babelici e della
sua unità rimanda per contrasto a un altro nome, il Nome divino
rivelato a Mosè all’inizio dell’Esodo, il Tetragramma. Lavorando sui
tentativi moderni di traduzione e sulle interpretazioni talmudiche, Di
Cesare mostra che fra le caratteristiche più pregnanti e
caratteristiche della rivelazione del Nome vi è il suo rapporto col
tempo (“sarò che sarò”), la quale non dev’essere pensata come eternità
nel senso della semplice sintesi di presente, passato e futuro (sintesi
che pure è grammaticalmente presente nella forma del Tetragramma) ma
come qualcosa di molto più ricco e dinamico, un’unificazione che è
anche una promessa, come insegna il Talmud (“sarò con voi”).
L’unificazione è un compito, uno dei lavori del hassid, come insegnava
il Baal Schem Tov – lo sottolinea un saggio magistrale nel libro di
Scholem appena tradotto in italiano. E l’unificazione (il
riconoscimento e la realizzazione concreta dell’unità del divino) è il
centro permanente dell’identità e della storia del popolo ebraico. Il
carattere profondamente enigmatico di questo rapporto col tempo e con
la promessa emerge nel libro di Di Cesare con un celebre passo
profetico di Zacharià, che è entrato con un ruolo rilevante nella
liturgia ebraica: “in quel giorno Hashem sarà uno e il suo Nome uno (u
shmo echad)” (Zc. 14: 9). Perché questa dilazione al futuro, bisogna
chiedersi, che sembra rimandare l’affermazione monoteista dello Shemà?
E’ chiaro che si tratta in primo luogo del riconoscimento dell’unità e
del fatto che la profezia messianica vuole che tutti i popoli arrivino
a inchinarsi al Santo benedetto. Ma è chiaro che in questa
“unificazione” del Nome, o almeno del suo apprezzamento umano vi sono
profonde conseguenze filosofiche rispetto al funzionamento del
linguaggio e della nominazione, si nasconde l’idea di una verità
profonda del linguaggio in quanto tale; una verità che si ritrova non
nella chiusura o tautologia dell’identità totalitaria della parola
(come la praticavano i babelici) ma nell’apertura all’unità dinamica
del senso; per esempio nella traduzione, come la seppe individuare
Walter Benjamin in un celebre saggio sul “compito del traduttore”. Per
sviluppare questo punto Di Cesare si avvale di un altro importante ed
altrettanto enigmatico passo profetico, quello di Zfanià (3: 11-13) in
cui si parla di “safah brurah” (la traduzione è problematica: Di Cesare
usa il senso letterale “labbro chiaro”). Si tratta di una modalità
linguistica che è pensata come conseguenza (o forse come condizione)
dell’era messianica, un modo radicalmente diverso di “chiamare”
attraverso il linguaggio. E’ questa la “grammatica dei tempi
messianici” del titolo del libro: un’utopia o forse una promessa del
linguaggio che caratterizza profondamente la natura dell’ebraismo e lo
contrappone alla teologia (al discorso sul Divino) che il cristianesimo
trae dal pensiero greco. Il percorso di questo libro è profondo ma
limpido, passa dall’errore del safah echat di Babele, attraverso il
“Mio Nome per sempre” del Sinai, fino alla riparazione dello safah brurah (al singolare) e dello shmo echad
previsti dai profeti nel tempo messianico. Ma ogni pagina è piena di
suggestioni, di possibili deviazioni, di osservazioni che gettano luce
sulla dimensione linguistica della Torah e dell’ebraismo. Densissimo ma
chiaro e comprensibile da chiunque, la “Grammatica” di Donatella Di
Cesare è un libro da leggere e da rileggere, come sguardo esemplare e
contemporaneo sul pensiero ebraico.
Ugo Volli |
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La sinistra in coda al corteo
Ha detto bene Peppino Caldarola: il problema per certa sinistra
italiana è di trovare una discarica dove smaltirla. Non ho mai
apprezzato il precetto di Rosa Luxemburg «dimmi con chi vai e ti dirò
chi sei». Ma quando si finisce in coda al corteo dei musulmani
bruciatori di bandiere israeliane per assistere inebetiti (loro, i
laici) alla preghiera verso la Mecca sul sagrato del Duomo e davanti
alla Stazione Centrale di Milano; quando ci si ritrova fianco a fianco
con i neonazisti che hanno preso di mira Alemanno e Pacifici; quando ci
si ritrova accanto al Cardinale Martino e ai suoi paragoni ("Gaza come
un campo di concentramento"); quando ci si trova come "maîtres à
penser" Massimo D'Alema, Barbara Spinelli (la Hannah Arendt de
noantri), Dario Fo e Luisa Morgantini; beh, allora c'è decisamente
qualcosa che non va.
Giorgio Israel |
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rassegna stampa |
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I media come arma Le
polemiche innescate dai contenuti della trasmissione televisiva «Anno
Zero» sulla guerra di Gaza possono aiutarci a riflettere su un aspetto
cruciale di questo conflitto (come di altri che lo hanno preceduto): il
ruolo dei mass media, delle televisioni in primo luogo, non come
strumenti di informazione sulla guerra ma come armi della guerra e
nella guerra. E' qualcosa che va al di là delle tradizionali forme di
propaganda, più o meno pianificata, che hanno sempre accompagnato i
conflitti e li accompagnano tuttora. La prima volta che si
comprese appieno il nuovo (e imprevisto) ruolo attivo giocato dalle
televisioni nei conflitti asimmetrici fu all'indomani della conclusione
della guerra del Vietnam: si disse allora, con qualche esagerazione ma
anche con qualche elemento di verità, che gli Stati Uniti avevano perso
quella guerra non nelle risaie e nelle giungle dell'Indocina ma nelle
case americane dove ogni sera il piccolo schermo faceva entrare le
immagini delle devastazioni prodotte dai bombardamenti statunitensi. Da
allora, nessun governo o gruppo armato impegnato in una guerra ha più
dimenticato che le immagini televisive e i commenti che le accompagnano
sono parte integrante, non accessoria, dei conflitti, e dei conflitti
asimmetrici soprattutto: è da essi che dipende lo spostamento, a favore
di uno dei belligeranti, dell'orientamento delle opinioni
pubbliche delle democrazie occidentali. E poiché nelle democrazie i
governi devono tenere conto delle opinioni pubbliche, lo spostamento di
queste ultime da una parte o dall'altra non è senza effetti
internazionali: spinge o può spingere i governi delle democrazie ad
esercitare pressioni diplomatiche a favore del belligerante che ha
conquistato il sostegno dell'opinione pubblica. Il caso di Gaza
(una guerra che forse è ora giunta a conclusione) è da manuale. Dal
punto di vista strettamente militare la disparità delle forze fra
l'esercito israeliano e Hamas era massima. Hamas ha avuto quindi a
disposizione, in questa guerra, soprattutto una carta e l'ha giocata
fino in fondo: le vittime civili. Il calcolo era semplice: più vittime
civili ci sono (e non possono non esserci vittime civili data la natura
del onflitto), più i networks televisivi ne parlano, più è probabile
che le opinioni pubbliche, soprattutto europee, si schierino contro
Israele e che, infine, la «comunità internazionale » (leggi: le
democrazie occidentali) sia costretta a tenerne conto. La contromossa
israeliana (vietare l'ingresso a Gaza ai giornalisti finché durano i
combattimenti) è parte della stessa logica. Si considerino gli scopi
bellici dei due contendenti. Per Israele «vincere» significava
ridimensionare Hamas militarmente (mettere il gruppo in condizione di
non lanciare più missili sul territorio israeliano) e politicamente
(creare le condizioni per una successiva riconquista del potere a Gaza,
a spese di Hamas,da parte della fazione palestinese moderata, Fatah).
Per Hamas, invece, «vincere» significava sopravvivere, quali che
fossero le perdite subite, essere ancora in grado di riorganizzare le
forze per colpire di nuovo Israele fra qualche tempo. Come in Libano
nel 2006: Hezbollah «vinse» la guerra semplicemente perché sopravvisse
all'offensiva israeliana. In queste condizioni, e data questa disparità
degli obiettivi dei due contendenti, usare i civili come scudi era per
Hamas una necessità di guerra, il solo modo per tentare di ottenere una
pressione internazionale tale da fermare Israele. Il che, dal punto di
vista di Hamas, avrebbe significato vincere. Per Israele valeva la
regola contraria: meno civili cadono, meno è probabile che la comunità
internazionale si metta di mezzo. Per questo, la guerra è stata
condotta simultaneamente in due ambiti diversi (sul terreno e sui mass
media). Il contenzioso sul numero di vittime civili (ovviamente
difficile da stabilire, dato che i combattenti di Hamas sono mescolati
alla popolazione) diventa parte integrante della guerra. Come mostra
anche il fatto che le notizie, più o meno attendibili, sui caduti
civili sono, fra tutte le notizie di guerra, quelle a cui i mass media
danno in assoluto più risalto. Per i sostenitori occidentali di Israele
le vittime civili sono, in parte, una tragica conseguenza della natura
di questa guerra e, in parte, il frutto dell'azione deliberata di
Hamas. Per gli avversari di Israele sono invece la prova della natura
criminale di quello Stato. Le televisioni svolgono un ruolo nel far
pendere la bilancia dell'opinione pubblica da una parte o dall'altra.
Però, va subito aggiunto, a mò di correttivo, il fatto che contano
anche le più generali condizioni politiche in cui si svolge il
conflitto. Se il calcolo di Hamas, come sembra ora possibile, si
rivelerà alla fine sbagliato non sarà perché l'arma di guerra
massmediatica sia di per sé spuntata o debole, ma perché essa è stata
neutralizzata, almeno in parte, dall'atteggiamento prudente tenuto per
tutta la durata del conflitto dai governi arabi (spaventati
dall'alleanza fra Hamas e l'Iran) e dalla ostilità dei palestinesi di
Abu Mazen per Hamas. Insieme alla compattezza della società
israeliana nel sostenere l'azione del proprio esercito e all'efficacia
di quella stessa azione (niente a che vedere con quanto avvenne in
Libano nel 2006), questi fattori hanno giocato un ruolo importantissimo
nella guerra. Hanno impedito o ritardato uno spostamento massiccio, «a
slavina», delle opinioni pubbliche occidentali a favore di Hamas.
Angelo Panebianco - Corriere della Sera - 18 gennaio 2009 |
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Roma: Meir, Gattegna e Pacifici commentano Anno Zero Roma, 16 Gen - L'ambasciatore
israeliano a Roma Gideon Meir ha scritto una lettera al Presidente
della Rai Petruccioli per esprimere il proprio disappunto per la
trasmissione Anno Zero condotta da Michele Santoro giovedì sera sulla
terza rete "Siamo certi, dice nella missiva Meir, che Lei saprà
adottare le necessarie misure per far sì che un simile spettacolo
vergognoso non si ripeta più, e che possiate trovare la maniera
adeguata per spiegare che si è trattato di una trasmissione che ha
esulato da qualsiasi standard di etica giornalistica basilare". Il
presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna
commentando la trasmissione ha detto "E' stata una trasmissione
di pura propaganda indegna, incompatibile con il servizio pubblico che
la Rai dovrebbe svolgere". "Ammirevoli - ha proseguito Gattegna-
per dignità e coraggio i comportamenti di Lucia Annunziata ieri sera e
oggi del presidente della Camera Gianfranco Fini che ha giustamente
richiamato la Rai ad un corretto svolgimento del proprio ruolo".
"Il dialogo e il confronto delle idee è un valore irrinunciabile nel
quale credo fermamente. Per questo sono rimasto prima sorpreso poi
indignato nell'assistere alla trasmissione. E' stata deliberatamente
impostata e realizzata in maniera così parziale che certamente non ha
svolto nessuna funzione per facilitare la comprensione del conflitto.
Al contrario - ha aggiunto - ha gettato nuovi semi di rancore e di odio
di cui non si stente certo il bisogno in questo periodo". Anche
il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici è
intervenuto sulla questione, chiedendo l'intervento dell'Ordine
nazionale dei giornalisti. Pacifici ha inoltre rivelato che
da parte della trasmissione "é stata rifiutata senza alcun motivo
plausibile" la presenza del vicepresidente della Comunità Stefano
Valabrega, indicato da Pacifici, come suo sostituto."Avevo accettato
l'invito di Santoro - ha raccontato - consapevole dello stile
giornalistico al quale ci ha abituati e mi ero imposto di non cedere
alle sue aberranti provocazioni. Il rifiuto opposto a Valabrega è stato
il preludio di una trasmissione che invece di sensibilizzare l'opinione
pubblica sul dramma del conflitto in Medio Oriente è stata improntata
fin dall'inizio ad un becero e pericoloso meccanismo che potrebbe
alimentare ulteriore odio e divisioni".
Firenze, ordigno rudimentale lasciato vicino alla Sinagoga Firenze, 18 gen - "Un
gesto molto grave che ci dimostra come da parole irresponsabili si
possa passare ad azioni come questa", così il rabbino capo di Firenze
Josef Levy ha commentato il ritrovamento dell'ordigno ritrovato ieri
mattina davanti alla porta della 'Chabad House', la sede del centro
Lubavitch, un gruppo religioso ebraico ortodosso, che svolge funzioni
di accoglienza e ritrovo, a pochi metri dalla sinagoga di Firenze. "Chi
è in una posizione di responsabilità - ha aggiunto Levy - deve sempre
misurare le proprie parole". L'ordigno era stato confezionato con una
bomboletta da campeggio collegata ad una miccia di carta, imbevuta di
liquido infiammabile, a cui era stato dato fuoco ma che si è spenta
prima di riuscire a fare da detonatore ed aveva la possibilità di
esplodere anche se la sua potenzialità, come hanno spiegato gli
inquirenti, "era limitata", A chiamare i carabinieri, poco prima
delle 20 di ieri sera, è stato proprio il rabbino Josef Levy. In
realtà il piccolo ordigno era stato trovato la mattina, intorno alle
10,30, da uno dei gestori del centro che, secondo quanto si è appreso,
ha deciso di non dare immediatamente l'allarme sia perché ha giudicato
la cosa un atto dimostrativo e non pericoloso, sia per una questione di
rispetto del sabato ebraico. La piccola fiamma non ha lasciato tracce
all'ingresso del centro. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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