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    19 gennaio 2009 - 23 Tevet 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Nella manifestazione pro Palestina del sabato scorso a Roma, il momento, ormai tradizionale, della preghiera islamica si è svolto a metà di via dei Fori Imperiali, a poca distanza dal Colosseo. Questa volta forse non c'è stata la provocazione anticristiana, anche se il Colosseo è un simbolo per i Cristiani; quasi nessuno protesta per l'uso di quella strada per le parate militari e quindi non dovrebbe farlo neppure per una preghiera. Per gli Ebrei c'è invece qualcosa di significativo e inquietante nella scelta di quel luogo per la preghiera, forse dovuta al caso (?), quasi certamente non a una consapevolezza da parte degli organizzatori. Il luogo usato per la preghiera islamica corrisponde esattamente alla piazza antico-romana dove Vespasiano eresse il Foro e il Tempio della Pace per celebrare la vittoria sulla Giudea e lì furono ospitati ed esibiti i cimeli del Santuario di Gerusalemme distrutto, descritti nell'arco di Tito, tra cui la Menorà d'oro. Gli imperatori Flavii chiamarono "Pace" la nostra rovina. Oggi si manifesta e si prega nello stesso luogo per la "pace".
Mentre a Gaza tacciono infine le armi, i toni delle polemiche si fanno sempre più aspri e violenti. Hamas presenta all'opinione pubblica mondiale e ai media il conto dei morti civili, dei bambini ammazzati dalle bombe: bombe  che non hanno fatto distinzione fra ostaggi di Hamas e miliziani di Hamas, bambini che sono stati seppelliti circonfusi dall'alone del martirio. Che ad Hamas quei bambini servano, che li abbia usati e continui ad usarli,  è indubbio, ma questo basta davvero a farci dimenticare  che sono morti? A livello politico, si discute se queste vittime siano state "effetti collaterali" o "vittime innocenti di un attacco sproporzionato e indiscriminato". E ci si è anche dimenticati, nel bagno di sangue che è seguito, che esso è stato  scientemente scatenato da Hamas. Ma era davvero possibile continuare a ricordarsene? Personalmente, perchè sto parlando a titolo rigorosamente personale, penso che la soluzione possa solo essere politica, non militare, e non credo che quello che è successo in queste
settimane possa contribuire a risolvere il problema di Gaza e a fare uscire israeliani e palestinesi dalla trappola in cui si trovano. Speravamo che spaccasse Hamas, che separasse definitivamente  Hamas dai palestinesi e dai paesi arabi. Solo il futuro dei negoziati ci dirà se è davvero stato così. Per ora, stiamo parlando solo delle vittime. Ma basta il fatto che sia un parlare a senso unico a farci dimenticare che sono vittime? Nel frattempo, si è assistito a fenomeni nuovi e inquietanti. Una crescita esponenziale dell'antisemitismo, diretto, come in molti casi, direttamente contro gli ebrei e non più solo contro la politica di Israele. Manifestazioni in cui l'ultrasinistra europea e americana (ho visto immagini di una manifestazione a San Francisco molto simile a quelle di Milano e di Roma) ha fatto da fanalino di coda ai gruppi islamici presenti in Occidente, dove le preghiere si sono mescolate all'odio antisemita e alle invocazioni alla distruzione dello Stato di Israele. Certo, di fronte al conteggio dei morti sono fenomeni marginali. Ma politicamente sono segni di un cambiamento inquietante. Eppure, non posso certo essere d'accordo con Paolo Guzzanti quando scrive sul Giornale che l'antisemitismo di oggi è  peggiore di quello del 1938. Vada a (ri)leggersi La difesa della razza e le leggi del 1938, se ha dei dubbi. La stessa cosa di Guzzanti dice, in un modo diverso, la grande scrittrice americana Cynthia Ozick,  che sostiene in una sua intervista al Corriere che in Europa è come nel 1938 e che l'Europa "ha irrimediabilmente imbrattato di fango" il giorno della Memoria. No, non possiamo pensarla così, vuol dire dar ragione agli estremisti di tutte le parti, a chi vuole solo ascoltare il fragore delle armi. In questo oscuro panorama, un raggio di luce e di ragione filtra dal bell'articolo di Henry Bernard-Lévy, che ci spiega con grande pacatezza perché Gaza non è Sarajevo e che ci racconta anche del riservista israeliano Asaf, che interrompe la sua missione su un Cobra volta a uccidere un miliziano di Hamas quando questi viene raggiunto da un bambino. No, nonostante tutto Gaza non è Sarajevo. 
Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Tzipi LivniDonne d'Israele 1 - Tzipi Livni
La nuova Golda guarda avanti


Il prestigioso settimanale Time la considera fra le persone più influenti al mondo, la rivista Forbes l'ha inserita nella classifica delle cento donne più potenti che esistano. E' la seconda donna nella storia, dopo Golda Meir, a ricoprire la carica di ministro degli Esteri di Israele. Ora con ogni probabilità quarant'anni dopo Golda ci sarà un'altra donna a guidare il governo israeliano. Il suo nome è Tzipora Malka, ma tutti sono abituati a chiamarla Tzipi. E Tzipi Livni può essere ormai considerata tra le donne più conosciute al mondo.
Le sue capacità diplomatiche hanno impressionato Washington.
Il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, che ovviamente l'ha spesso frequentata, parla di lei come un'amica, e in un articolo del Time racconta del profondo affetto e dell'altissima stima che nutre per lei, non solo per le sue capacità politiche ma ancor di più per il suo lato umano. Sentirla parlare con così tanto orgoglio della famiglia e dei figli l'ha emozionata.
La Rice definisce la loro amicizia intramontabile, non cesserà nemmeno quando entrambe abbandoneranno il palcoscenico del mondo.
Tutti sanno che è una donna tenace, coraggiosa, forte, e decisa.
Raccontare la storia della famiglia Livni equivale a raccontare la storia dello Stato di Israele. I suoi genitori servivano l'Irgun, il gruppo militante sionista che operò nel corso del Mandato britannico sulla Palestina (1931-1948) per la costruzione dello Stato ebraico. E' evidente come l'amore per la patria, per il progetto biblico di una Grande Israele, valori fortemente sentiti dalla Livni, nascano da qui, dai suoi genitori.
Eli Livni, fratello di Tzipi, intervistato dal New York Times ha affermato: “nella famiglia Livni tuo padre e tua madre non ti abbracciano mai. Quello che ti trasmettono è un'educazione rigida,  costituita da alti valori morali, fra i quali l'attaccamento alla patria”.
La dote del coraggio sembra averla ereditata dalla madre, Sara Rosenberg, che giovanissima, arrestata dagli inglesi, per farsi liberare, si iniettò in vena del latte di mucca e si procurò un febbrone.
Gli ideali politici sembrano invece essergli stati trasmessi dal padre, Eitan Livni, sulla sua tomba un'incisione, richiesta espressamente prima della morte ai familiari, la mappa della Grande Israele con un fucile che la taglia trasversalmente e una frase “Solo così”.
Ma qualcosa non torna.. Tzipi Livni attuale leader del partito di Kadima non è lo stesso politico che si batte per “due popoli, due stati”? Come riesce a far coincidere i valori e i principi tramandati da suo padre e allo stesso tempo tenere un linea politica distante dalla realizzazione della Grande Israele? In molti le hanno fatto questa domanda, lei spiega che il padre le ha trasmesso un combinazione di valori, per lui, oltre all'Irgun contava il rispetto per la vita degli altri. Dice di essere dovuta scendere a compromessi, e una linea coerente l'ha trovata, è disposta a rinunciare al territorio  ma non al rispetto per le vite umane. Difende e difenderà sempre lo stato di Israele da coloro che ne minacciano la distruzione, un insegnamento molto importante, al primo posto nella scala dei suoi valori.
Il suo carattere forte e la sua inclinazione al mestiere politico erano evidenti fin dall'infanzia. Il New York Times ha raccontato un aneddoto sulla Livni dei tempi della scuola: “ Tzipi Livni  già a 12 anni era in grado di far sentire le proprie ragioni, era a scuola, e un'insegnate faceva una lezione sulla storia di Israele, citò i due  partiti  simbolo della nazione Haganah e Palmach, con un coraggio tutto speciale, unica tra la classe, la Livni si alzò e si ribellò, manifestando il suo dissenso per ciò che ascoltava, ha chiesto all'insegnante il perché dell'omissione nel suo discorso dell'importanza anche dell'Irgun e della banda Stern”.
Alla stessa età la decisione di diventare vegetariana, lo è ancora oggi.
Ha fatto il militare, ricoprendo la carica di ufficiale, e ha ottenuto grandi riconoscimenti per il suo servizio. Sarà per questo che a 22 anni è entrata nel Mossad, i servizi segreti israeliani. Fu mandata a Parigi a tenere in “caldo” un appartamento che il servizio avrebbe potuto utilizzare per le sue operazioni, svolse tale compito ma ufficialmente studiava alla Sorbonne.
Tornata a Tel Aviv, si è laureata in legge all'Università Bar Ilan, e ha lavorato per dieci anni come avvocato.
Si è sposata nel 1983 con Naftali Spitzer, proprietario di un'agenzia pubblicitaria, con il quale ha avuto due bambini.
Il suo esordio in politica nel 1996, quando candidata fra le liste del Likud, partecipò alle elezioni ma purtroppo non ottenne i  voti necessari per entrare alla Knesset.
Nel 1999 finalmente mette piede nel parlamento israeliano, eletta fra i membri del partito Likud di Ariel Sharon. Più volte ministro, prima della cooperazione regionale, poi dell'agricoltura, per lo sviluppo rurale, per l'immigrazione, per la sicurezza, quindi degli Esteri.  
Oggi guida il partito di maggioranza relativa, Kadima e punta dritta all'incarico di Primo ministro.
Nel 2004 ha vinto il premio Abirat Ha-Shilton per l'alta qualità del lavoro prestato.
Nel marzo 2006 viene nominata viceprimo ministro.
Con  Olmert in disparte dopo le sue dimissioni, alle primarie di Kadima, del settembre 2008, vince su tutti.
E con fermezza dichiara: “Voglio essere Primo ministro e lavorerò per questo obiettivo: dobbiamo cambiare le cose, perché la gente non ha più fiducia nei politici e bisogna ripristinare questa fiducia” - parole, chiare, ferme e decise, e ancora: “Sono pronta per essere messa alla prova non solo per quanto ho detto, ma anche per quanto ho fatto: ho tutte le carte per diventare primo ministro”.
In attesa delle elezioni politiche di febbraio, comunque vada, per molte donne di Israele è un grande esempio. Che diventi o meno Primo ministro, Tzipi ha già vinto: è riuscita a tenere assieme i ruoli di madre, di donna in carriera e di leader politico in una stagione difficile e drammatica per tutto il Medio Oriente.

Valerio Mieli
 
 
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  Donatella Di CesareYehudah haLevi e il suo amore per Israele

Yehudah haLevi, poeta, medico, filosofo, tra le maggiori figure dell’ebraismo medievale spagnolo, ha introdotto nella sua grande opera il "Kuzari" (1140 circa) un confronto suggestivo tra il popolo di Israele e il cuore.
Ha scritto haLevi: “Israele fra le nazioni è come il cuore fra le membra: è il più malato di tutte e il più sano di tutte”. È il più malato per le preoccupazioni, le ansie, i timori, i desideri che lo fanno sussultare. Ma è anche il più sano per la sua estrema sensibilità che è insieme la sua grande forza. Che ne sarebbe delle membra, se il cuore non resistesse?
Deciso a recarsi in Eretz Israel, aspirazione di tutta la sua vita, Yehuda haLevi morì prima di raggiungere Gerusalemme, trafitto – racconta la leggenda – sotto le sue mura mentre cantava il più celebre dei suoi inni d’amore per Sion.

Donatella Di Cesare, filosofa 
 
 
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La sospensione delle attività dell’operazione “Piombo fuso” e l’inizio del ritiro di Tzahal (raccontato, fra gli altri da Battistini sul Corriere, Micalessin sul Giornale) ci obbliga a riflettere sulle prospettive e sulle conseguenze delle tre settimane degli scontri. Cos’è cambiato nel rapporto fra Israele e il mondo? Come si è modificata l’opinione pubblica in Europa e in Italia? Qual è la situazione oggi dell’ebraismo? I giornali affrontano la questione con punti di vista molto diversi e spesso in maniera molto confusa.

In Italia e in Europa
Possiamo partire dal punto di vista piuttosto ottimista e tranquillizzante espresso dal presidente dell’Ucei Renzo Gattegna in un’intervista sul Giornale. Il presidente Gattegna vede un’opinione pubblica italiana piuttosto razionale e comprensiva delle ragioni di Israele, a parte i personaggi dell’estrema sinistra schierati da sempre su posizioni filoarabe e antisraeliane, come D’Alema e Santoro. Nell’intervista emerge però anche il tema centrale di una riflessione futura: l’irrompere degli immigrati islamici nella sfera pubblica, alla testa dei cortei, con tutto l’armamentario dell’odio a Israele. Non si è arrivato in Italia a gridare “Hamas – ebrei al gas” come in Olanda, ma ci si è andati vicini. 
A proposito dell’atteggiamento di D’Alema, va certamente letto l’intervento di Peppino Caldirola sul Giornale, che lo spiega come una manovra scissionista dentro il PD, nel tentativo di fondare un partito di massa filoarabo, antimaericano e antisraeliano (e, aggiunge l’autore sostanzialmente anche se tacitamente antisemita), compattando l’ultrasinistra, i dalemiani, i cattolici alla Prodi, Parisi, Bindi.
Per quanto riguarda gli immigrati, appare evidente oggi un rischio per la democrazia italiana nella mescolanza del discorso religioso e di quello politico caratteristico delle manifestazioni islamiche. Gianfranco Fini ha proposto nei giorni scorsi e ha ripetuto ieri (Marco Nese sul Corriere) l’idea di obbligare gli imam a predicare in Italiano; il Corriere registra oggi alcune reazioni: parzialmente negativa quella di Lele Fiano, positiva quella di Monsignor Vecchi, vescovo ausiliare di Bologna. Francesco Bej su Repubblica registra altre reazioni miste da parte islamica. Paolo Guzzanti sul Giornale analizza “le piazze dell’odio” islamico, sostenendo che mai in Italia, neppure sotto Mussolini, si era visto un tale antisemitismo di massa. Un allarme sulla mobilitazione degli immigrati viene anche dall’ex-ministro degli interni Pisanu sul Messaggero.
Il presidente dell’Ari, rav Laras, indica in un’intervista a Repubblica un altro problema determinante per il nostro futuro. Accanto all’estrema sinistra e al mondo islamico, c’è stato un terzo soggetto forte che sul conflitto ha preso posizioni più o meno esplicite, ma sempre sbilanciate a favore di Hamas: è il mondo cattolico, nei suoi settori estremisti di base (si pensi a Pax Christi di Monsignor Bettazzi) ma anche ad alti livelli della gerarchia (il cardinale Martino), fino ai discorsi del Papa: è di ieri la rinnovata e assurda accusa a Israele di “inaudita violenza sui civili” (si vedano le cronache di Franca Giansoldati sul Messaggero e quella di Marco Politi su Repubblica). Anche questa è una posizione tradizionale (il Vaticano ha riconosciuto Israele solo negli anni Novanta), ma che certamente delude chi si aspettava da questo papato una “ferma difesa dell’Occidente”. Con questo atteggiamento, oltre che su altri temi, certamente l’ebraismo italiano dovrà continuare a fare i conti a lungo.
Sull’atteggiamento europeo e in parte anche italiano nei confronti dell’ebraismo, bisogna leggere un durissimo intervento di Cynthia Ozyk sul Corriere, che vede un prevalere dell’antisemitismo, fino ad avvicinarsi alla situazione degli anni Trenta. Sono parole che fanno paura. In effetti, aggiungiamo noi, i giornali italiani non hanno quasi registrato le molotov sulle sinagoghe e gli accoltellamenti di ebrei in Francia, la ripetuta proibizione della polizia tedesca a privati cittadini di esporre la bandiera israeliana, mentre i manifestanti pro-Hamas sono tollerati e guardati con simpatia; i cortei antisemiti in Olanda frequentati da deputati socialisti, la presenza di un ministro catalano a un corteo con incappucciati che agitavano armi contro Israele e gli ebrei e tanti altri episodi ancora. Del resto, l’accusa principale contro Tzahal non era quella di “ammazzare bambini”, secondo il vecchio stereotipo antisemita dell’accusa del sangue? Ozyk in conclusione propone di abolire la giornata della memoria, ormai inutile o controproducente.
A proposito di antisemiti, vale la pena di registrare che La Stampa abbia confinato un intervento del suo collaboratore Gianni Vattimo a sostegno di Santoro nella rubrica delle lettere: una evidente presa di distanza.
Sul tema è utile vedere anche l’intervento di Pierluigi Battista, sempre sul Corriere, il quale ricorda, a partire da un film di prossima uscita (“Defiance”), le imprese guerrigliere dei fratelli Belski nella Polonia occupata dai nazisti per mostrare come sia sbagliata l’immagine dell’ebreo remissivo trasformatosi nell’israeliano “aggressivo”. L’ebraismo è sempre stato resistenza all’oppressione, coi mezzi disponibili. Lo stesso film è raccontato su Repubblica da Gad Lerner, sempre per sostenere che dopo la fase in cui nella Shoà si cercavano gli episodi di assistenza e aiuto, oggi sembra emergere un altro lato, quello della resistenza ebraica.

La situazione e le conseguenze per Israele
La riflessione più importante però riguarda ovviamente il Medio Oriente e il suo futuro. Reggerà la tregua? Come si configureranno i rapporti di forza nel mondo arabo? E che sarà dei palestinesi? Bisogna iniziare da una bella e importante inchiesta di Bernard Henry Levy, pubblicata dal Corriere, che aiuta a capire cos’è stata per davvero l’operazione israeliana e come si è chiusa. Ed è bene completarla subito con l’analisi di R.A. Segre sul Giornale: Israele ha forse perso la guerra psicologica sui media occidentali, ma ha certamente vinto sul campo: speriamo solo che i politici israeliani non sprechino la vittoria. Molto interessante la lettura di Moshe Arens su Haaretz delle conseguenze strategiche del conflitto e sulle lezioni da trarne.
Le altre analisi: interessante, anche se ostentatamente equidistante fra Israele e Hamas, il modo in cui Vittorio Emanuele Parisi (La Stampa)delinea i compiti degli europei dopo la conclusione della tregua.
Per chi vuol capire le ragioni dell’intrinseca fragilità della tregua e le forze aggressive contro Israele nel cuore stesso del mondo islamico moderato, consigliamo uno sguardo all’intervista a Mahadi Akef, leader dei fratelli musulmani di cui Hamas è una branca sulla Stampa. Una critica al cessate il fuoco da fonte araba è l’intervento del libanese Daud Kuttab sul Jerusalem Post.

I fatti sul terreno
Ci sarebbe una resa dei conti dentro Hamas fra “duri” e trattativisti (Francesco Battistini sul Corriere); ma Hamas se la prende soprattutto con Abu Mazen che avrebbe aiutato gli israeliani a colpire gli obiettivi più importanti (Renato Caprile su Repubblica). Nel frattempo, contro l’evidenza, il gruppo terrorista sostiene di aver vinto la guerra (Aldo Baquis sulla Stampa)
Una cronaca molto simpatetica per la parte palestinese è quella di Lorenzo Cremonesi sul Corriere, che dopo la tregua ha attraversato tutta la striscia in macchina. Il reportage di Cremonesi è però molto più lucido della violenta propaganda antisraeliana ammanita da Guido Rampoldi in un’analogo pezzo su Repubblica
Sulla conferenza dei leader europei a Sharm, un’opinione piuttosto scettica è espressa da Micalessin sul Giornale, su cui concorda sostanzialmente Garimberti su Repubblica. Sul Corriere (Paola Di Caro) e su molti altri giornali, da registrare le parole di amicizia di Silvio Berlusconi, che in occasione della conferenza ha proposto una sorta di “Piano Marshall” per i palestinesi e ha messo a disposizione i carabinieri per la sorveglianza dei valichi di Gaza.
 
Sintomi di violenza in Italia
Nei giorni scorsi c’è stato il ritrovamento di un ordigno artigianale inesploso vicino alla Bet Habad di Firenze, a due passi dal Tempio. La polizia indaga in ambienti dell’estremismo islamico (Il Messaggero). A Torino è stata imbrattato l’uscio di un autorevole rappresentante della comunità ebraica, spesso pubblicamente impegnato nelle polemiche giornalistiche in difesa di Israele (La Stampa). Alle vittime di queste vili intimidazioni va tutta la nostra solidarietà e il nostro affetto.

La cultura
Bruno Gavagnolo, sull’Unità, recensisce molto favorevolmente  il saggio di Anna Foa “Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento”.
Merita infine di essere studiato attentamente l’intervento di Harold Golinkin sul Jerusalem Post, che elenca le fonti del pensiero ebraico che si possono applicare all’operazione militare di Gaza. Non tutti sanno che l’esercito israeliano si è dato un codice etico rigorosissimo. Ma dietro alle regole di Tzahal, ci dev’essere e c’è un’ispirazione specificamente ebraica, che rav Golinkin espone con grande chiarezza.

Ugo Volli

 
 
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Ricordo di Becky Ottolenghi: "Ci ha educati                                  
ai valori dell'ebraismo e della partecipazione"                                
"Avendo assistito da bambina alla prima strage nazista in Italia a Meina, salvatasi per miracolo, Becky non si è mai stancata di testimoniare, di raccontare, di educare i giovani alla memoria. Ancora in questo periodo, vicino al Giorno della memoria, aveva preso numerosi impegni con scuole e istituzioni per raccontare i fatti della Shoah". Lo ha detto il professor Ugo Volli, presidente di Lev Chadash, ricordando la figura di instancabile attivista ebraica e di donna di valore di Becky Ottolenghi, scomparsa a Milano dopo una brevissima malattia. "Becky - ha aggiunto - era una persona da cui tutti noi abbiamo imparato e ricevuto moltissimo. Chiunque ci abbia frequentato anche solo un po' ha potuto misurare di persona la sua generosità, la sua attenzione alle persone, il suo amore per l'ebraismo, la sua disponibilità, la sua saggezza, il suo entusiasmo, la sua bontà".
"E' stata una donna straordinaria - ha aggiunto la vicepresidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane Claudia De Benedetti - che ha educato tanti delle nuove generazioni, me compresa, con profondo amore ai valori dell'ebraismo, della partecipazione e della trasmissione dei nostri ideali".


Il governo iraniano contro la Coca Cola sionista
Teheran, 19 gen -
“I prodotti a marchio Coca Cola sono considerati legati ai sionisti, cioè Israele” con questa motivazione il ministro dell'Industria iraniano ha chiesto all'azienda Khoshgovar Mashhad, che si occupa della distribuzione di tale prodotti, di chiarire i suoi rapporti con la casa di Atlanta. In sostanza deve far sapere se si tratta del prodotto originale importato su licenza dalla casa madre o meno. I responsabili della società iraniana smentiscono, sottolineando che le bevande sono da loro prodotte utilizzando un concentrato fornito da una compagnia irlandese. Il quotidiano iraniano Ma Keyhan (ultraconservatore) sottolinea invece che la Khoshgovar Mashhad paga annualmente alla Coca Cola circa 1,1 milioni di euro per poter distribuire il suo prodotto in Iran. Esisterebbe quindi secondo il quotidiano la prova di un legame diretto.
L'azienda Coca Cola non è il primo marchio colpito in Iran. Dall'inizio del conflitto israeliano nella Striscia, gli ambienti fondamentalisti hanno accusato molte aziende che vendevano i loro prodotti in Iran di avere “legami” con Israele.
Il gruppo Benetton è stato fra i primi a pagarne le spese, un suo negozio a Teheran è stato incendiato lo scorso 30 dicembre. 
 
 
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