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L'Unione informa |
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19 gennaio 2009 - 23 Tevet 5769 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma |
Nella
manifestazione pro Palestina del sabato scorso a Roma, il momento,
ormai tradizionale, della preghiera islamica si è svolto a
metà di via dei Fori Imperiali, a poca distanza dal Colosseo.
Questa volta forse non c'è stata la provocazione anticristiana,
anche se il Colosseo è un simbolo per i Cristiani; quasi nessuno
protesta per l'uso di quella strada per le parate militari e quindi non
dovrebbe farlo neppure per una preghiera. Per gli Ebrei c'è
invece qualcosa di significativo e inquietante nella scelta di quel
luogo per la preghiera, forse dovuta al caso (?), quasi certamente non
a una consapevolezza da parte degli organizzatori. Il luogo usato per
la preghiera islamica corrisponde esattamente alla piazza antico-romana
dove Vespasiano eresse il Foro e il Tempio della Pace per celebrare la
vittoria sulla Giudea e lì furono ospitati ed esibiti i cimeli
del Santuario di Gerusalemme distrutto, descritti nell'arco di Tito,
tra cui la Menorà d'oro. Gli imperatori Flavii chiamarono "Pace"
la nostra rovina. Oggi si manifesta e si prega nello stesso luogo per
la "pace". |
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Mentre
a Gaza tacciono infine le armi, i toni delle polemiche si fanno sempre
più aspri e violenti. Hamas presenta all'opinione pubblica
mondiale e ai media il conto dei morti civili, dei bambini ammazzati
dalle bombe: bombe che non hanno fatto distinzione fra ostaggi di
Hamas e miliziani di Hamas, bambini che sono stati seppelliti
circonfusi dall'alone del martirio. Che ad Hamas quei bambini servano,
che li abbia usati e continui ad usarli, è indubbio, ma
questo basta davvero a farci dimenticare che sono morti? A
livello politico, si discute se queste vittime siano state "effetti
collaterali" o "vittime innocenti di un attacco sproporzionato e
indiscriminato". E ci si è anche dimenticati, nel bagno di
sangue che è seguito, che esso è stato scientemente
scatenato da Hamas. Ma era davvero possibile continuare a ricordarsene?
Personalmente, perchè sto parlando a titolo rigorosamente
personale, penso che la soluzione possa solo essere politica, non
militare, e non credo che quello che è successo in queste settimane
possa contribuire a risolvere il problema di Gaza e a fare uscire
israeliani e palestinesi dalla trappola in cui si trovano. Speravamo
che spaccasse Hamas, che separasse definitivamente Hamas dai
palestinesi e dai paesi arabi. Solo il futuro dei negoziati ci
dirà se è davvero stato così. Per ora, stiamo
parlando solo delle vittime. Ma basta il fatto che sia un parlare a
senso unico a farci dimenticare che sono vittime? Nel frattempo, si
è assistito a fenomeni nuovi e inquietanti. Una crescita
esponenziale dell'antisemitismo, diretto, come in molti casi,
direttamente contro gli ebrei e non più solo contro la politica
di Israele. Manifestazioni in cui l'ultrasinistra europea e americana
(ho visto immagini di una manifestazione a San Francisco molto simile a
quelle di Milano e di Roma) ha fatto da fanalino di coda ai gruppi
islamici presenti in Occidente, dove le preghiere si sono mescolate
all'odio antisemita e alle invocazioni alla distruzione dello Stato di
Israele. Certo, di fronte al conteggio dei morti sono fenomeni
marginali. Ma politicamente sono segni di un cambiamento inquietante.
Eppure, non posso certo essere d'accordo con Paolo Guzzanti quando
scrive sul Giornale che l'antisemitismo di oggi è peggiore
di quello del 1938. Vada a (ri)leggersi La difesa della razza e le
leggi del 1938, se ha dei dubbi. La stessa cosa di Guzzanti dice, in un
modo diverso, la grande scrittrice americana Cynthia Ozick, che
sostiene in una sua intervista al Corriere che in Europa è come
nel 1938 e che l'Europa "ha irrimediabilmente imbrattato di fango" il
giorno della Memoria. No, non possiamo pensarla così, vuol dire dar
ragione agli
estremisti di tutte le parti, a chi vuole solo ascoltare il fragore
delle armi. In questo oscuro panorama, un raggio di luce e di ragione
filtra dal bell'articolo di Henry Bernard-Lévy, che ci spiega
con grande pacatezza perché Gaza non è Sarajevo e che ci
racconta anche del riservista israeliano Asaf, che interrompe la sua
missione su un Cobra volta a uccidere un miliziano di Hamas quando
questi viene raggiunto da un bambino. No, nonostante tutto Gaza non
è Sarajevo. |
Anna Foa,
storica |
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Donne d'Israele 1 - Tzipi Livni La nuova Golda guarda avanti
Il prestigioso settimanale Time la considera fra le persone
più influenti al mondo, la rivista Forbes l'ha inserita nella
classifica delle cento donne più potenti che esistano. E' la
seconda donna nella storia, dopo Golda Meir, a ricoprire la carica di
ministro degli Esteri di Israele. Ora con ogni probabilità
quarant'anni dopo Golda ci sarà un'altra donna a guidare il
governo israeliano. Il suo nome è Tzipora Malka, ma tutti sono
abituati a chiamarla Tzipi. E Tzipi Livni può essere ormai
considerata tra le donne più conosciute al mondo. Le sue capacità diplomatiche hanno impressionato Washington. Il
Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, che ovviamente l'ha
spesso frequentata, parla di lei come un'amica, e in un articolo del
Time racconta del profondo affetto e dell'altissima stima che nutre per
lei, non solo per le sue capacità politiche ma ancor di
più per il suo lato umano. Sentirla parlare con così
tanto orgoglio della famiglia e dei figli l'ha emozionata. La
Rice definisce la loro amicizia intramontabile, non cesserà
nemmeno quando entrambe abbandoneranno il palcoscenico del mondo. Tutti sanno che è una donna tenace, coraggiosa, forte, e decisa. Raccontare
la storia della famiglia Livni equivale a raccontare la storia dello
Stato di Israele. I suoi genitori servivano l'Irgun, il gruppo
militante sionista che operò nel corso del Mandato britannico
sulla Palestina (1931-1948) per la costruzione dello Stato ebraico. E'
evidente come l'amore per la patria, per il progetto biblico di una
Grande Israele, valori fortemente sentiti dalla Livni, nascano da qui,
dai suoi genitori. Eli Livni, fratello di Tzipi, intervistato dal
New York Times ha affermato: “nella famiglia Livni tuo padre e
tua madre non ti abbracciano mai. Quello che ti trasmettono è
un'educazione rigida, costituita da alti valori morali, fra i
quali l'attaccamento alla patria”. La dote del coraggio
sembra averla ereditata dalla madre, Sara Rosenberg, che giovanissima,
arrestata dagli inglesi, per farsi liberare, si iniettò in vena
del latte di mucca e si procurò un febbrone. Gli ideali
politici sembrano invece essergli stati trasmessi dal padre, Eitan
Livni, sulla sua tomba un'incisione, richiesta espressamente prima
della morte ai familiari, la mappa della Grande Israele con un fucile
che la taglia trasversalmente e una frase “Solo
così”. Ma qualcosa non torna.. Tzipi Livni attuale
leader del partito di Kadima non è lo stesso politico che si
batte per “due popoli, due stati”? Come riesce a far
coincidere i valori e i principi tramandati da suo padre e allo stesso
tempo tenere un linea politica distante dalla realizzazione della
Grande Israele? In molti le hanno fatto questa domanda, lei spiega che
il padre le ha trasmesso un combinazione di valori, per lui, oltre
all'Irgun contava il rispetto per la vita degli altri. Dice di essere
dovuta scendere a compromessi, e una linea coerente l'ha trovata,
è disposta a rinunciare al territorio ma non al rispetto
per le vite umane. Difende e difenderà sempre lo stato di
Israele da coloro che ne minacciano la distruzione, un insegnamento
molto importante, al primo posto nella scala dei suoi valori. Il
suo carattere forte e la sua inclinazione al mestiere politico erano
evidenti fin dall'infanzia. Il New York Times ha raccontato un aneddoto
sulla Livni dei tempi della scuola: “ Tzipi Livni
già a 12 anni era in grado di far sentire le proprie ragioni,
era a scuola, e un'insegnate faceva una lezione sulla storia di
Israele, citò i due partiti simbolo della nazione
Haganah e Palmach, con un coraggio tutto speciale, unica tra la classe,
la Livni si alzò e si ribellò, manifestando il suo
dissenso per ciò che ascoltava, ha chiesto all'insegnante il
perché dell'omissione nel suo discorso dell'importanza anche
dell'Irgun e della banda Stern”. Alla stessa età la decisione di diventare vegetariana, lo è ancora oggi. Ha
fatto il militare, ricoprendo la carica di ufficiale, e ha ottenuto
grandi riconoscimenti per il suo servizio. Sarà per questo che a
22 anni è entrata nel Mossad, i servizi segreti israeliani. Fu
mandata a Parigi a tenere in “caldo” un appartamento che il
servizio avrebbe potuto utilizzare per le sue operazioni, svolse tale
compito ma ufficialmente studiava alla Sorbonne. Tornata a Tel Aviv, si è laureata in legge all'Università Bar Ilan, e ha lavorato per dieci anni come avvocato. Si è sposata nel 1983 con Naftali Spitzer, proprietario di un'agenzia pubblicitaria, con il quale ha avuto due bambini. Il
suo esordio in politica nel 1996, quando candidata fra le liste del
Likud, partecipò alle elezioni ma purtroppo non ottenne i
voti necessari per entrare alla Knesset. Nel 1999 finalmente mette
piede nel parlamento israeliano, eletta fra i membri del partito Likud
di Ariel Sharon. Più volte ministro, prima della cooperazione
regionale, poi dell'agricoltura, per lo sviluppo rurale, per
l'immigrazione, per la sicurezza, quindi degli Esteri. Oggi guida il partito di maggioranza relativa, Kadima e punta dritta all'incarico di Primo ministro. Nel 2004 ha vinto il premio Abirat Ha-Shilton per l'alta qualità del lavoro prestato. Nel marzo 2006 viene nominata viceprimo ministro. Con Olmert in disparte dopo le sue dimissioni, alle primarie di Kadima, del settembre 2008, vince su tutti. E
con fermezza dichiara: “Voglio essere Primo ministro e
lavorerò per questo obiettivo: dobbiamo cambiare le cose,
perché la gente non ha più fiducia nei politici e bisogna
ripristinare questa fiducia” - parole, chiare, ferme e decise, e
ancora: “Sono pronta per essere messa alla prova non solo per
quanto ho detto, ma anche per quanto ho fatto: ho tutte le carte per
diventare primo ministro”. In attesa delle elezioni
politiche di febbraio, comunque vada, per molte donne di Israele
è un grande esempio. Che diventi o meno Primo ministro, Tzipi ha
già vinto: è riuscita a tenere assieme i ruoli di madre,
di donna in carriera e di leader politico in una stagione difficile e
drammatica per tutto il Medio Oriente.
Valerio Mieli |
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Yehudah haLevi e il suo amore per Israele
Yehudah haLevi, poeta, medico, filosofo, tra le maggiori figure
dell’ebraismo medievale spagnolo, ha introdotto nella sua grande
opera il "Kuzari" (1140 circa) un confronto suggestivo tra il popolo di
Israele e il cuore. Ha scritto haLevi: “Israele fra le
nazioni è come il cuore fra le membra: è il più
malato di tutte e il più sano di tutte”. È il
più malato per le preoccupazioni, le ansie, i timori, i desideri
che lo fanno sussultare. Ma è anche il più sano per la
sua estrema sensibilità che è insieme la sua grande
forza. Che ne sarebbe delle membra, se il cuore non resistesse? Deciso
a recarsi in Eretz Israel, aspirazione di tutta la sua vita, Yehuda
haLevi morì prima di raggiungere Gerusalemme, trafitto –
racconta la leggenda – sotto le sue mura mentre cantava il
più celebre dei suoi inni d’amore per Sion.
Donatella Di Cesare, filosofa |
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La
sospensione delle attività dell’operazione “Piombo
fuso” e l’inizio del ritiro di Tzahal (raccontato, fra gli
altri da Battistini sul Corriere, Micalessin sul Giornale)
ci obbliga a riflettere sulle prospettive e sulle conseguenze delle tre
settimane degli scontri. Cos’è cambiato nel rapporto fra
Israele e il mondo? Come si è modificata l’opinione
pubblica in Europa e in Italia? Qual è la situazione oggi
dell’ebraismo? I giornali affrontano la questione con punti di
vista molto diversi e spesso in maniera molto confusa.
In Italia e in Europa Possiamo
partire dal punto di vista piuttosto ottimista e tranquillizzante
espresso dal presidente dell’Ucei Renzo Gattegna in
un’intervista sul Giornale.
Il presidente Gattegna vede un’opinione pubblica italiana
piuttosto razionale e comprensiva delle ragioni di Israele, a parte i
personaggi dell’estrema sinistra schierati da sempre su posizioni
filoarabe e antisraeliane, come D’Alema e Santoro.
Nell’intervista emerge però anche il tema centrale di una
riflessione futura: l’irrompere degli immigrati islamici nella
sfera pubblica, alla testa dei cortei, con tutto l’armamentario
dell’odio a Israele. Non si è arrivato in Italia a gridare
“Hamas – ebrei al gas” come in Olanda, ma ci si
è andati vicini. A proposito dell’atteggiamento di D’Alema, va certamente letto l’intervento di Peppino Caldirola sul Giornale,
che lo spiega come una manovra scissionista dentro il PD, nel tentativo
di fondare un partito di massa filoarabo, antimaericano e antisraeliano
(e, aggiunge l’autore sostanzialmente anche se tacitamente
antisemita), compattando l’ultrasinistra, i dalemiani, i
cattolici alla Prodi, Parisi, Bindi. Per quanto riguarda gli
immigrati, appare evidente oggi un rischio per la democrazia italiana
nella mescolanza del discorso religioso e di quello politico
caratteristico delle manifestazioni islamiche. Gianfranco Fini ha
proposto nei giorni scorsi e ha ripetuto ieri (Marco Nese sul Corriere) l’idea di obbligare gli imam a predicare in Italiano; il Corriere
registra oggi alcune reazioni: parzialmente negativa quella di Lele
Fiano, positiva quella di Monsignor Vecchi, vescovo ausiliare di
Bologna. Francesco Bej su Repubblica registra altre reazioni miste da parte islamica. Paolo Guzzanti sul Giornale
analizza “le piazze dell’odio” islamico, sostenendo
che mai in Italia, neppure sotto Mussolini, si era visto un tale
antisemitismo di massa. Un allarme sulla mobilitazione degli immigrati
viene anche dall’ex-ministro degli interni Pisanu sul Messaggero. Il presidente dell’Ari, rav Laras, indica in un’intervista a Repubblica
un altro problema determinante per il nostro futuro. Accanto
all’estrema sinistra e al mondo islamico, c’è stato
un terzo soggetto forte che sul conflitto ha preso posizioni più
o meno esplicite, ma sempre sbilanciate a favore di Hamas: è il
mondo cattolico, nei suoi settori estremisti di base (si pensi a Pax
Christi di Monsignor Bettazzi) ma anche ad alti livelli della gerarchia
(il cardinale Martino), fino ai discorsi del Papa: è di ieri la
rinnovata e assurda accusa a Israele di “inaudita violenza sui
civili” (si vedano le cronache di Franca Giansoldati sul Messaggero e quella di Marco Politi su Repubblica).
Anche questa è una posizione tradizionale (il Vaticano ha
riconosciuto Israele solo negli anni Novanta), ma che certamente delude
chi si aspettava da questo papato una “ferma difesa
dell’Occidente”. Con questo atteggiamento, oltre che su
altri temi, certamente l’ebraismo italiano dovrà
continuare a fare i conti a lungo. Sull’atteggiamento
europeo e in parte anche italiano nei confronti dell’ebraismo,
bisogna leggere un durissimo intervento di Cynthia Ozyk sul Corriere,
che vede un prevalere dell’antisemitismo, fino ad avvicinarsi
alla situazione degli anni Trenta. Sono parole che fanno paura. In
effetti, aggiungiamo noi, i giornali italiani non hanno quasi
registrato le molotov sulle sinagoghe e gli accoltellamenti di ebrei in
Francia, la ripetuta proibizione della polizia tedesca a privati
cittadini di esporre la bandiera israeliana, mentre i manifestanti
pro-Hamas sono tollerati e guardati con simpatia; i cortei antisemiti
in Olanda frequentati da deputati socialisti, la presenza di un
ministro catalano a un corteo con incappucciati che agitavano armi
contro Israele e gli ebrei e tanti altri episodi ancora. Del resto,
l’accusa principale contro Tzahal non era quella di
“ammazzare bambini”, secondo il vecchio stereotipo
antisemita dell’accusa del sangue? Ozyk in conclusione propone di
abolire la giornata della memoria, ormai inutile o controproducente. A proposito di antisemiti, vale la pena di registrare che La Stampa
abbia confinato un intervento del suo collaboratore Gianni Vattimo a
sostegno di Santoro nella rubrica delle lettere: una evidente presa di
distanza. Sul tema è utile vedere anche l’intervento di Pierluigi Battista, sempre sul Corriere,
il quale ricorda, a partire da un film di prossima uscita
(“Defiance”), le imprese guerrigliere dei fratelli Belski
nella Polonia occupata dai nazisti per mostrare come sia sbagliata
l’immagine dell’ebreo remissivo trasformatosi
nell’israeliano “aggressivo”. L’ebraismo
è sempre stato resistenza all’oppressione, coi mezzi
disponibili. Lo stesso film è raccontato su Repubblica
da Gad Lerner, sempre per sostenere che dopo la fase in cui nella
Shoà si cercavano gli episodi di assistenza e aiuto, oggi sembra
emergere un altro lato, quello della resistenza ebraica.
La situazione e le conseguenze per Israele La
riflessione più importante però riguarda ovviamente il
Medio Oriente e il suo futuro. Reggerà la tregua? Come si
configureranno i rapporti di forza nel mondo arabo? E che sarà
dei palestinesi? Bisogna iniziare da una bella e importante inchiesta
di Bernard Henry Levy, pubblicata dal Corriere,
che aiuta a capire cos’è stata per davvero
l’operazione israeliana e come si è chiusa. Ed è
bene completarla subito con l’analisi di R.A. Segre sul Giornale:
Israele ha forse perso la guerra psicologica sui media occidentali, ma
ha certamente vinto sul campo: speriamo solo che i politici israeliani
non sprechino la vittoria. Molto interessante la lettura di Moshe Arens
su Haaretz delle conseguenze strategiche del conflitto e sulle lezioni da trarne. Le
altre analisi: interessante, anche se ostentatamente equidistante fra
Israele e Hamas, il modo in cui Vittorio Emanuele Parisi (La Stampa)delinea i compiti degli europei dopo la conclusione della tregua. Per
chi vuol capire le ragioni dell’intrinseca fragilità della
tregua e le forze aggressive contro Israele nel cuore stesso del mondo
islamico moderato, consigliamo uno sguardo all’intervista a
Mahadi Akef, leader dei fratelli musulmani di cui Hamas è una
branca sulla Stampa. Una critica al cessate il fuoco da fonte araba è l’intervento del libanese Daud Kuttab sul Jerusalem Post.
I fatti sul terreno Ci sarebbe una resa dei conti dentro Hamas fra “duri” e trattativisti (Francesco Battistini sul Corriere);
ma Hamas se la prende soprattutto con Abu Mazen che avrebbe aiutato gli
israeliani a colpire gli obiettivi più importanti (Renato
Caprile su Repubblica). Nel frattempo, contro l’evidenza, il gruppo terrorista sostiene di aver vinto la guerra (Aldo Baquis sulla Stampa) Una cronaca molto simpatetica per la parte palestinese è quella di Lorenzo Cremonesi sul Corriere,
che dopo la tregua ha attraversato tutta la striscia in macchina. Il
reportage di Cremonesi è però molto più lucido
della violenta propaganda antisraeliana ammanita da Guido Rampoldi in
un’analogo pezzo su Repubblica. Sulla conferenza dei leader europei a Sharm, un’opinione piuttosto scettica è espressa da Micalessin sul Giornale, su cui concorda sostanzialmente Garimberti su Repubblica. Sul Corriere
(Paola Di Caro) e su molti altri giornali, da registrare le parole di
amicizia di Silvio Berlusconi, che in occasione della conferenza ha
proposto una sorta di “Piano Marshall” per i palestinesi e
ha messo a disposizione i carabinieri per la sorveglianza dei valichi
di Gaza. Sintomi di violenza in Italia Nei
giorni scorsi c’è stato il ritrovamento di un ordigno
artigianale inesploso vicino alla Bet Habad di Firenze, a due passi dal
Tempio. La polizia indaga in ambienti dell’estremismo islamico (Il Messaggero).
A Torino è stata imbrattato l’uscio di un autorevole
rappresentante della comunità ebraica, spesso pubblicamente
impegnato nelle polemiche giornalistiche in difesa di Israele (La Stampa). Alle vittime di queste vili intimidazioni va tutta la nostra solidarietà e il nostro affetto.
La cultura Bruno Gavagnolo, sull’Unità, recensisce molto favorevolmente il saggio di Anna Foa “Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento”. Merita infine di essere studiato attentamente l’intervento di Harold Golinkin sul Jerusalem Post,
che elenca le fonti del pensiero ebraico che si possono applicare
all’operazione militare di Gaza. Non tutti sanno che
l’esercito israeliano si è dato un codice etico
rigorosissimo. Ma dietro alle regole di Tzahal, ci dev’essere e
c’è un’ispirazione specificamente ebraica, che rav
Golinkin espone con grande chiarezza.
Ugo Volli |
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notizieflash |
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Ricordo
di Becky Ottolenghi: "Ci ha educati
ai valori dell'ebraismo e della partecipazione"
"Avendo
assistito da bambina alla prima strage nazista in Italia a Meina,
salvatasi per miracolo, Becky non si è mai stancata di
testimoniare, di raccontare, di educare i giovani alla memoria. Ancora
in questo periodo, vicino al Giorno della memoria, aveva preso numerosi
impegni con scuole e istituzioni per raccontare i fatti della Shoah".
Lo ha detto il professor Ugo Volli, presidente di Lev Chadash,
ricordando la figura di instancabile attivista ebraica e di donna di
valore di Becky Ottolenghi, scomparsa a Milano dopo una brevissima
malattia. "Becky - ha aggiunto - era una persona da cui tutti noi
abbiamo imparato e ricevuto moltissimo. Chiunque ci abbia frequentato
anche solo un po' ha potuto misurare di persona
la sua generosità, la sua attenzione alle persone, il suo amore
per l'ebraismo, la sua disponibilità, la sua saggezza, il suo
entusiasmo, la sua bontà". "E'
stata una donna straordinaria - ha aggiunto la vicepresidente
dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane Claudia De
Benedetti - che ha educato tanti delle nuove generazioni, me compresa,
con profondo amore ai valori dell'ebraismo, della partecipazione e
della trasmissione dei nostri ideali".
Il governo iraniano contro la Coca Cola sionista Teheran, 19 gen - “I
prodotti a marchio Coca Cola sono considerati legati ai sionisti,
cioè Israele” con questa motivazione il ministro
dell'Industria iraniano ha chiesto all'azienda Khoshgovar Mashhad, che
si occupa della distribuzione di tale prodotti, di chiarire i suoi
rapporti con la casa di Atlanta. In sostanza deve far sapere se si
tratta del prodotto originale importato su licenza dalla casa madre o
meno. I responsabili della società iraniana smentiscono,
sottolineando che le bevande sono da loro prodotte utilizzando un
concentrato fornito da una compagnia irlandese. Il quotidiano iraniano
Ma Keyhan (ultraconservatore) sottolinea invece che la Khoshgovar
Mashhad paga annualmente alla Coca Cola circa 1,1 milioni di euro per
poter distribuire il suo prodotto in Iran. Esisterebbe quindi secondo
il quotidiano la prova di un legame diretto. L'azienda Coca Cola
non è il primo marchio colpito in Iran. Dall'inizio del
conflitto israeliano nella Striscia, gli ambienti fondamentalisti hanno
accusato molte aziende che vendevano i loro prodotti in Iran di avere
“legami” con Israele. Il gruppo Benetton è
stato fra i primi a pagarne le spese, un suo negozio a Teheran è
stato incendiato lo scorso 30 dicembre. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
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