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    20 gennaio 2009 - 24 Tevet 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Roberto Della Rocca Roberto
Della Rocca,
rabbino
“…..colui per il quale il timore della trasgressione precede la sapienza, la sua sapienza si mantiene; ma colui per il quale la sapienza precede il timore della trasgressione la sua sapienza non si mantiene….” (Pirqè Avòt, 3; 11). Secondo i nostri Maestri il timore ha la funzione di ingenerare nell’uomo umiltà e purezza di cuore. Viceversa, l’arroganza e l’egoismo sono ingredienti di una sapienza che si trasforma  facilmente in strumento di potere ed esibizionismo. Il senso della responsabilità è pertanto privilegiato all'erudizione poiché una sapienza dissociata dall'altruismo può trasformarsi in un futile gioco intellettuale. Nella lingua ebraica la parola acharaiut responsabilità, include la parola acher l'altro, le cui prime due lettere costituiscono la parola ach fratello ....la cui prima lettera è una Alef il paradigma della nostra ipseità. 
Forse non è consuetudine, su e giù per questa vetrina, lanciare complimenti. Ma tant'è. Il libro di Anna Foa, "Diaspora" (appena pubblicato da Laterza) mi ha scosso e affascinato al tempo stesso. Perché attraverso l'indagine, il racconto, la disamina, l'autrice mette allo scoperto quel meccanismo della storia intorno al quale vagavo confusamente da tempo, senza riuscire a definirlo. La vera portata rivoluzionaria del rapporto fra ebrei e modernità sta in quel capovolgimento drastico per cui dopo millenni di resa a simboli altrui, essi prendono in mano il proprio destino. E questo proprio nel secolo la cui cifra indicativa - per noi così come per gli altri – sembra essere la Shoah. Con questo libro, Anna Foa dà alla parola "emancipazione" una pregnanza tutta nuova. Per me illuminante. Elena Loewenthal,
scrittrice
Elena Loewenthal  
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  pilpulUnione delle Comunità Ebraiche e Comunità locali
equilibrio complesso e mai completamente risolto

Nel 2009 ricorre l'ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi, cioè del concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica.
Contestualmente alla definizione del regime pattizio con la religione di gran lunga maggioritaria, che veniva posta su un piano indubbiamente di favore rispetto alle altre, il regime fascista si pose il problema di disciplinare gli altri culti.
Si arrivò così alla legge sui culti ammessi (legge 24 giugno 1929, n. 1159), che dava tra l'altro facoltà al Governo del re  “di emanare le norme per l’attuazione della presente legge, e per il suo coordinamento con le altre leggi dello Stato, e di rivedere le norme legislative esistenti che disciplinano i culti acattolici”. Il riferimento era univocamente ad una nuova disciplina delle Comunità israelitiche, visto che l’unica legge allora esistente era la legge Rattazzi sulle Università israelitiche, risalente al lontano 1857 e quindi preunitaria, che si applicava soltanto ad una parte del territorio italiano.
Il Governo veniva autorizzato a dettare una nuova disciplina delle università israelitiche mentre fervevano quelle che potremmo definire vere e proprie trattative tra Stato e rappresentanti dell'ente rappresentativo dell'ebraismo italiano (allora il Consorzio delle università israelitiche). Si arrivò così al regio decreto 30 ottobre 1930, n. 1731, che istituì le comunità israelitiche italiane e l'Unione delle comunità, con un intervento legislativo che era nel contempo un chiaro esempio di un sistema giurisdizionalista (che vede cioè lo Stato attivo sul fronte della regolamentazione delle confessioni religiose) e di una legge derivante da lunghe trattative e da un accordo con la confessione religiosa destinataria. Ebbe un ruolo determinante nella vicenda il giurista ebreo Mario Falco.
Tutte le vicende che portarono all'istituzione del Consorzio prima, alla legge Falco poi e quindi – a distanza di molti anni, nel 1987 – all'intesa con lo Stato sono narrate in un bel volume di Stefania Dazzetti uscito l'anno scorso: L'autonomia delle Comunità ebraiche italiane nel novecento. Leggi, intese, statuti, regolamenti, (Torino, Giappichelli, 2008).
Leggendolo, ho avuto modo di ripercorrere le vicende istituzionali-organizzative dell'ebraismo italiano nel corso del novecento, prendendo ancora più coscienza che molte delle questioni che oggi ci dilaniano si ponevano in termini più o meno analoghi già decine di anni fa.
Penso alle polemiche, anche di questi giorni, sul ruolo anche mediatico della Comunità romana e quello rappresentativo di tutti gli ebrei italiani attribuito inequivocabilmente all'Unione.
Già quando si andava verso l'istituzione del Consorzio tra le comunità israelitiche (parliamo del secondo ventennio del novecento) il ruolo della comunità romana si andò facendo sempre più forte, fino a trovare una sorta di legittimazione nello statuto del Consorzio (1920), che fissava nella capitale – per esempio - la sede degli organi e delle riunioni dell'ente. Ebbene, la sede è (ovviamente) sempre a Roma ed anche il nuovo statuto dell'Unione delle comunità ebraiche italiane recita (articolo 41, comma 3): “Il congresso si riunisce a Roma, salvo diversa delibera del consiglio dell'Unione delle comunità adottata dai due terzi dei suoi componenti”.
Più in generale, uno dei fili conduttori è quello dei rapporti tra organismo centrale e comunità.
Il Consorzio delle università israelitiche nasceva a seguito di un processo – per così dire – confederale: la galassia delle organizzazioni ebraiche locali, che avevano assetti giuridici diversi in base allo Stato preunitario di derivazione, decidevano di creare un organismo centrale, lasciando insoluto il tema delle effettive competenze del Consorzio stesso, che avrebbero dovuto essere precisate negli anni successivi, “o nel senso della semplice tutela dell'autonomia delle comunità o, piuttosto, in quello di orientamento e controllo delle loro attività, secondo gli obiettivi e dentro i limiti di volta in volta fissati dagli organi centrali” (pag. 33 del libro citato).
Mutatis mutandis è il tema per molti aspetti ancora oggi al centro del dibattito, che rende sempre vitale e dinamico, proprio perché mai completamente risolto, il tema dei rapporti tra Unione e comunità. 

Valerio Di Porto, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
 
 
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Le analisi
Com’è finita davvero la guerra? Quali saranno le conseguenze per il futuro delle tre settimane di combattimenti? Un’analisi molto interessante è quella di Hetan Bronner sullo Herald Tribune (ma in realtà proveniente dall’autorevole New York Times). Israele avrebbe distrutto le infrastrutture e  ucciso molti militanti semplici, avrebbe prodotto stanchezza da parte della popolazione per Hamas, ma non avrebbe danneggiato gravemente la struttura militare, per via della tattica molto prudente e attendista dei terroristi, i cui dirigenti tutti, non solo i grandi capi si sarebbero nascosti. Arturo Diaconale sull’Opinione insinua che l’operazione di Israele fosse stata segretamente concordata con Usa e altri soggetti rilevanti (Stati arabi moderati, Ue) fino all’insediamento di Obama e abbia ottenuto il risultato di una “sterilizzazione” internazionale di Hamas. Sarebbe l’ultimo successo di Bush che mostrerebbe così la superiorità del realismo politico sul pacifismo ideologico. La stessa posizione è sostenuta da un articolo anonimo del Foglio. Molto pessimista sul futuro e critica verso l’interruzione dell’operazione è Carolyn Glick, opinionista del Jerusalem Post
Il punto fondamentale condiviso è comunque la sconfitta dei terroristi (Micalessin sul Giornale). A Gianandrea Gaiani, del Sole 24 ore, questa appare “una vittoria a metà per Israele”, in quanto “solo militare”. Luigi Spinola sul Riformista sostiene qualcosa di simile. Vedremo se sarà davvero così. Da leggere con interesse il bilancio in forma di domande e risposte scritto da Francesca Paci per La Stampa. Il solo che crede a una vittoria di Hamas è Garcia Ortega sul Pais, giornale una volta ritenuto autorevole e europeo, ma che oggi ci ricorda soprattutto il fatto che la Spagna, pur non avendo praticamente ebrei, è secondo le ricerche demografiche il paese più antisemita d’Europa. Ortega sostiene che la “sconfitta di Israele” ha confermato il bisogno di riconoscere l’Iran come potenza regionale egemone e di trattare solo con lui. Ogni paese ha i giornali che si merita (e viceversa: ogni sistema mediatico crea la propria opinione pubblica).
Antonio Ferrari sul Corriere parla di “vittoria del nuovo Faraone” proponendo l’idea che lo svolgimento della crisi abbia premiato il presidente egiziano Mubarak (anche se, sullo stesso giornale, il turco Erdogan si vanta di essere stato lui determinante nella mediazione con Hamas, che considera peraltro un movimento “legittimo” e da “riconoscere”). Adriano Sofri sul Foglio ripropone l’idea pannelliana di Israele nella comunità europea, che sembra sia stata anche rilanciata da Silvio Berlusconi durante la conferenza stampa dopo la riunione dei leader europei con l’Egitto a Sharm, due giorni fa.
I giornali israeliani si occupano molto dell’influsso furturo di  Obama sulla crisi. Così per esempio due articoli di Shlomo Avineri e Nehemia Shtrasler su Haaretz. Sul tema interviene anche Lucia Annuziata sulla Stampa, sostenendo che il nuovo presidente si accinge a trattare con l’Iran. Ma c’è anche chi rimpiange Bush, come Yossi Ahimer sul Jerusalem Post

La situazione
Completato il ritiro di Tzahal “in tempo per l’inaugurazione” della presidenza Obama, Abu Mazen ha proposto un governo di unità nazionale, che è stato respinto da Hamas (Battistini sul Corriere, Alberto Stabile su Repubblica) Continua il viaggio di Lorenzo Cremonesi nella striscia. Dal suo reportage sul Corriere iniziano a emergere le voci di dissenso verso Hamas. La tregua tiene e Hamas canta vittoria (Gulli sul Giornale, Andrea Colombo su Libero). L’Italia è pronta a schierare navi e truppe sul confine (Caprettini sul Giornale). Baquis, sulla Stampa, come molti altri giornalisti, parla dei danni alle strutture della Striscia e accenna al problema della gestione degli aiuti, che non saranno fatti gestire ad Hamas – almeno così si impegna a fare l’Unione Europea (ancora Francesca Paci sulla Stampa).

Le proposte per il futuro
Dino Cofrancesco, che insegna storia delle dottrine politiche all’università di Genova, scrive sul Secolo XIX che la soluzione dello stato unico su Israele e i territori, molto propugnata a sinistra e fra gli arabi, è impraticabile, e che si impone invece un progresso veloce verso i due stati.
David Grossman pubblica su Repubblica un appello a “parlare con i palestinesi, anche quelli che ci sono nemici, anche quelli che ci rifiutano” dunque con Hamas e continuare a parlare “anche se  urtiamo contro un muro”, aggiungendo la discutibile considerazione che “se ci guardassimo allo specchio come un altro popolo ci faremmo orrore”. Sono parole che certamente si possono dire che appaiono nobili. Ma parlare di che, contro chi è disposto a far subire gravissime al suo popolo pur di danneggiarci? Parlare di che con chi vuol di nuovo mandare gli attentatori suicidi (ieri c’è già stato un attentato con un ferito gravissimo). Parlare di che con chi ti vuole solo morto? Delle circostanze della tua esecuzione? Meno utopistica e più concreta l’intervista all’altro grande scrittore israeliano, Meir Shalev, che si trova sul Secolo XIX.

Antisemitismo
C’è chi, con argomenti storici (ma che a me paiono viziati dal whishful thinking o dall’“ottimismo della volontà” di una sinistra perbene - ebraica e non - che certamente esiste ancora ma oggi appare fuori gioco, priva di influenza e di capacità di intervenire sulle dinamiche reali) preferisce non credere alla diffusione delle minaccia antisemita e al suo legame con le masse islamiche sia immigrate che residenti nei paesi arabi. E’ il caso di Anna Foa, intervistata da Nicoletta Tiliachos sul Foglio. Eppure in queste settimane abbiamo assistito a un fatto storico, per l’Italia e in parte anche per l’Europa – un fatto purtroppo assai sgradevolmente storico: la consapevole irruzione degli immigrati non solo nei sagrati delle cattedrali, ma soprattutto nello spazio pubblico, nella sfera politica, con un’agenda islamista, fortemente antisionista e tendenzialmente antisemita, cui si sono accodate le scarse e confuse ma aggressive pattuglie dell’ultrasinistra e dei settori antisraeliani del Pd e della Chiesa.
Le preghiere sui sagrati e le altre manifestazioni sono stati definiti da una persona notoriamente prudente come ex ministro degli interni  Beppe Pisanu: «un tentativo di dare contenuto religioso all'antiebraismo, un'operazione fondamentalista, anticamera del terrorismo» (Luca Liverani su Avvenire). Bisogna riflettere che i protagonisti della mobilitazione anti-israeliana sono stati questa volta non i D’Alema e i Diliberto, sempre più irrilevanti, ma gli islamisti (per fortuna non tutti gli immigrati, ma una loro frazione consistente), che ormai sono una forza politica determinata e capace di mobilitazione pubblica in Italia e in genere in Europa.
Vedremo nei prossimi anni gli sviluppi di questa presenza, che sono certo preoccupanti per la democrazia italiana e per il mondo ebraico. Eurabia c’era già, ma ora è venuta alla luce. Angiolo Bandinelli, pieno anche lui di wishful thinking, ci invita sul Foglio a non averne paura, a “scegliere Montaigne contro Huntington” e a ispirarsi all’incrocio di simboli di Santa Sofia a Istambul. Peccato che quell’incrocio sia il frutto di una guerra secolare, di un assedio terribile, della pulizia etnica dell’intera popolazione cristiana. Invito a chiedere agli armeni per capire meglio. Insomma il multiculturalismo alla turca è meglio predicarlo che viverlo sulla propria pelle.
Molti pensano ora a limitare i danni riportare sotto controllo le tendenze teologico-politiche che oggi fanno di molte moschee luoghi di intervento politico”di minaccia verso il popolo italiano” (Maurizio Gasparri). Per questo suscita consenso, anche fra i moderati del mondo islamico la proposta di Fini di obbligare gli imam non a leggere il Corano ma a predicare in italiano.(Luca Liverani su Avvenire). Ma la teologia politica sta al cuore dell’islamismo, anche quello che si vuole moderno. Per convincersene basta leggere (ma con molta attenzione, perché l’ambiguità qui è un metodo) l’intervento di Tariq Ramadan sul Riformista: con l’aria di essere equanime e amico della pace, Ramadan incita alla continuazione guerra contro Israele, con un finale di stile guevarista: “Ma la vittoria è ancora lontana… non lo dimentichiamo!”
Un’analisi molto importante sulle tendenze antisemite, in netto contrasto con l’intervento di Foà si legge nel bell’articolo di Giulio Meotti sul Foglio. Consonante con Meotti la lettura di Andrea Romano sul Riformista dello “stereotipo di Erode usato contro Israele” Da leggere anche sullo stesso giornale una lettera aperta di Alessandro Schwed alla Chiesa sulla “bestemmia antisemita e perciò anticristiana” usata nei cortei islamici “Gesù non è ebreo”. Qualche segno di preoccupazione per l’”etnicizzazione” della politica si trova anche sui giornali della sinistra più radicale: si veda per esempio l’articolo di Alessandra Ravetta su Liberazione.
Per quanto riguarda le minacce concrete, da registrare la solidarietà dell’arcivescovo di Firenze Brettori alla comunità ebraica per l’ordigno trovato vicino alla sinagoga (Avvenire). Nel frattempo si continuano a bruciare bandiere, com’è successo ieri a Torino in una manifestazione di ultrasinistri e islamisti davanti al Comune. Il presidente del consiglio comunale, Beppe Castronovo di Rifondazione Comunista, ha pensato bene di ricevere i manifestanti/incendiari. Ed è toccato al sindaco Chiamparino (Pd) criticarlo, ribattendo che “il nemico è il terrorismo e quindi Hamas” (La Stampa)

Altre notizie
Il Messaggero, Libero, Repubblica e altri giornali riportano la polemica del capo della Destra, Storace, contro il museo della Shoà a Roma, “spreco di denaro pubblico” e le risposte di Alemanno e Pacifici.
Molto interessante il servizio di Amir Mizroch sul Jerusalem Post a proposito dei Bnei Menashé, il clan dell’India Nord orientale che si è riscoperto discendente da esiliati ebrei.

La cultura
Interessante la recensione di Mario Garofalo sul Corriere al libro di Alessandro Schwed “La scomparsa di Israele”, un romanzo, come si sa, in cui si ipotizza paradossalmente, alla maniera di Morselli, l’improvvisa scomparsa degli ebrei dalla Terra Santa. Va letta anche l’intervista di Michele Anselmi (Il Giornale) al protagonista di “Defiance” il film in cui si racconta un episodio della resistenza ebraica antinazista in Polonia. Non si parla tanto del film quanto della storia poco nota ma vera che l’ha ispirato

Ugo Volli

 
 
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notizieflash    
 
 
Missione solidarietà                                                                                
Israele, 20 gen -
“Un incontro con le popolazioni civili delle città del Sud di Israele coinvolte nel conflitto”. Così il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna ha definito il viaggio che da oggi fino a giovedì vedrà una delegazione dell’Ucei e di altre organizzazioni ebraiche italiane in Israele.
“Porteremo alle autorità civili delle città la solidarietà degli ebrei italiani – ha aggiunto Gattegna – che si è augurato al tempo stesso che la tregua si stabilizzi e che diventi definitiva e sia di preludio a una trattativa completa fra le parti”. La delegazione sarà ad Ashkelon, dove avrà un incontro con il sindaco Beni Ouaknine, domani invece ci sarà una visita al “Trauma Emergency Center” di Sderot, cittadina più volte colpita dai missili lanciati da Hamas. Lo stesso giorno la delegazione farà visita ai soldati israeliani feriti nelle operazioni. Infine giovedì l’incontro con il ministro degli Esteri Tzipi Livni.
“Diamo atto con soddisfazione del grande impegno profuso dai leader europei per creare le condizioni di una ripresa della vita civile nella regione – ha concluso Gattegna - nella garanzia della sicurezza di Israele e di tutte le popolazioni civili coinvolte”.


Israele: apetura dei valichi vincolata al rilascio di Gilad Shalit
Gerusalemme, 20 gen -
“Nessun progresso riguardante l'apertura dei valichi può avvenire fino a quando non si verificano progressi su un un punto importante per noi: la liberazione del caporale Gilad Shalit"- Lo ha affermato oggi il ministro degli Esteri, Tzipi Livni, in una nota nella quale ha indicato le due questioni come "legate fra loro". 
Nella stessa nota la Livni ha sottolineato che Israele è consapevole delle pressioni che, oltre ad Hamas, anche la comunità internazionale esercita sulla piena riapertura dei confini. Ma è pronto a rispondere "chiaramente" che "se Hamas vuole ottenere qualcosa da Israele, noi vogliamo recuperare qualcosa, vale a dire Gilad Shalit". La famiglia del militare nei giorni scorsi si è lamentata del fatto che il cessate il fuoco proclamato da Israele nella Striscia di Gaza non sia stato condizionato fin da subito al rilascio di Shalit. Mentre Hamas, da parte sua, non ha fatto finora aperture esplicite sulla questione, avvertendo invece che se Israele non accompagnerà il ritiro da Gaza con la riapertura dei varchi, le milizie palestinesi non si sentiranno più vincolate ad alcuna tregua d'armi.
 
 
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