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L'Unione informa
 
    30 gennaio 2009 - 5 Shevat 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Roberto Colombo Roberto Colombo,
rabbino
In ogni esilio gli ebrei furono sparsi tra i popoli. Accadde con la Babilonia e con Roma. Solo nell’esilio d’Egitto gli ebrei erano tutti assieme nella zona di Gòshen. Non è un caso, è parte del disegno divino. Tutti gli esili sono avvenuti dopo il dono della Torà. Seppur sparso tra le nazioni il popolo d’Israele può essere assieme nell’ideale e nella tradizione; divisi sì nel corpo ma uniti nel desiderio di trasmettere la memoria. Solo al tempo della schiavitù egiziana la Torà non era ancora stata data. Se gli ebrei fossero stati separati tra loro sarebbero irrimediabilmente scomparsi. (Avraham di Sochatcew)
Con “amici” come il vescovo Williamson, il Papa non ha bisogno di nemici.  Vittorio Dan Segre, pensionato Vittorio Dan Segre  
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  Mantovaa Sette mesi di lavoro, molti traguardi raggiunti
Articolo 3 lancia la sfida della Memoria viva


Sette mesi di lavoro, migliaia di casi presi in esame, equilibri quasi impossibili tenuti assieme, sfide difficili vinte con  il lavoro e con il coraggio di un pungo di volontari. L'Osservatorio Articolo 3 contro le discriminazioni, nato a Mantova attorno alla Rassegna stampa Lombardia del Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it è venuto a incontrare la gente e a presentare il primo Rapporto che documenta un lavoro fuori dall'ordinario. Accolti dal sindaco della città lombarda Fiorenza Brioni e dal Presidente della Comunità Ebraica di Mantova Fabio Norsa, centinaia di studenti, molti cittadini, autorità, giornalisti si sono riuniti nell'aula magna dell'Università per analizzare il lavoro compiuto in questi primi mesi di attività e ora pubblicato in due volumi che contengono centinaia di pagine di dati e documenti utili a controllare i fenomeni di discriminazione e di razzismo presenti nella società italiana. La manifestazione ha concluso il ciclo di appuntamenti organizzati in occasione del Giorno della memoria con il fine dichiarato di offrire uno spunto di memoria viva, di memoria al presente lontana dalle celebrazioni ritualistiche.
Articolo 3, che ha preso il nome dal terzo principio fissato dalla Carta costituzionale, lavora con la Rassegna stampa che l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha voluto aprire a tutti i cittadini e tiene sotto controllo in particolare i media locali dell'area lombarda. Gli enti locali mantovani, a cominciare dall'Amministrazione comunale e da quella Provinciale, sono intervenuti con propri mezzi per sostenere l'iniziativa, cui partecipano esponenti e volontari di organizzazioni espresse da diverse minoranze etniche, religiose e sociali.

MantovabDecine di studenti delle scuole superiori erano presenti in prima persona nel fitto dibattito, presentando i propri lavori con ricerche nate attorno all'Osservatorio e un documentario girato nei campi dei nomadi che si trovano in Lombardia, sollevando domande e interrogandosi sul futuro di questa esperienza.
E il presidente della Fondazione Primo Levi di Torino professor Fabio Levi, il sociologo Tommaso Vitale, Paolo Foschini del Corriere della Sera, i direttori di tutte le testate locali, hanno fatto comprendere con i loro interventi come il lavoro dell'Osservatorio sia decisivo, sia per comprendere la realtà circostante, sia per tenere sotto controllo l'inevitabile tendenza dei media di distorcere e strumentalizzare i fatti di cronaca.
Alcune delle tante anime del gruppo di lavoro, a cominciare da Angelica Bertellini e Maria Bacchi, hanno portato la loro esperienza viva.
“Oggi - ha rilevato il coordinatore dei dipartimenti Cultura e Informazione dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Guido Vitale - abbiamo costruito assieme strumenti formidabili di documentazione, di controllo e di ricerca che solo pochi mesi fa sembravano un sogno irraggiungibile”. Vitale ha reso omaggio alla lungimiranza dei leader ebraici italiani, che hanno deciso di condividere queste risorse con altre minoranze e di mettere a disposizione dei cittadini questo patrimonio di conoscenze. Ma ha anche indicato nuovi possibili orizzonti per un'esperienza che è cresciuta rapidamente in pochi mesi di lavoro convulso e difficile. “Articolo 3 – ha concluso – può ambire a crescere ancora, lavorando a fondo sull'intera realtà regionale lombarda e costituendo una scuola e un modello da esportare in altre regioni italiane fino a costituire una rete nazionale”.
Durante una pausa dell'intensa giornata, Fabio Norsa, che oltre a presiedere la Comunità della sua città è anche Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha aperto le porte dell'antica, preziosa sinagoga mantovana per accogliere i partecipanti ai lavori. Un gesto simbolico, che ha rinnovato la tradizione di ospitalità, di sincera amicizia e di esemplare collaborazione che da sempre gli ebrei di Mantova intrattengono con tutte le genti di buona volontà.


libro ottolenghiLa chiave del conflitto mediorientale
nell'analisi di Emanuele Ottolenghi


Durante le scorse settimane molti commentatori, che sostengono le ragioni di Israele, hanno spesso presentato la situazione in questi termini: la chiave del conflitto in corso fra lo Stato di Israele e Hamas non va cercata nella società palestinese, a Gaza o a Ramallah, bensì molto più a nord, a Damasco e soprattutto a Teheran. Il terrorismo di Hamas, come quello degli Hizbullah in Libano, va  inteso, più che come un episodio di lotta nazionali, come la proiezione dell’imperialismo sciita dell’Iran. E gli ultimi episodi bellici di Gaza e del Libano devono essere letti come capitoli di una guerra lunga e tortuosa che il regime iraniano conduce contro Israele, ma anche contro l’Occidente in genere. Solo su questa base si può spiegare l’atteggiamento sostanzialmente moderato (anche se retoricamente combattivo) di buona parte del mondo arabo, impaurito dai piani egemonici persiane. E solo così si spiega la moderazione sul terreno di Israele, attento a non superare i limiti sopportabili agli arabi moderati. C’è chi ha detto addirittura che l’Iran ha cinicamente usato i palestinesi di Gaza per un’azione diversiva contro le minacce al suo progetto nucleare.
Ma se tutto questo è vero, diventa essenziale comprendere che cosa sia l’Iran oggi, quale sia la sua politica estera e come sia possibile fronteggiarla. Tutti conoscono le continue minacce e gli insulti a Israele pronunciate dal presidente iraniano Mahamud Ahaminedjad e tutti hanno sentito parlare del tentativo iraniano di costruire un armamento nucleare. Ma che cosa sta dietro a questi fatti? E come si può scongiurare la concreta possibilità che un grande Stato (settanta milioni di persone) nemico fanatico di Israele si fornisca di armi nucleari? E’ questo il tema veramente cruciale dell’ultimo libro di un ricercatore ben noto nel mondo ebraico come Emanuele Ottolenghi: La bomba iraniana (Landau, 268 pagine, 16 euro). Non bisogna pensare a un’opera emotiva o propagandistica, pensata per infiammare la militanza degli amici di Israele. Al contrario, questo è un libro lucidamente analitico e volutamente freddo ricco di documentazione e di ragionamenti giuridici politici ed economici, che vuol parlare, ancor più che al mondo accademico degli studiosi di relazioni internazionali, ai politici e a coloro che prendono decisioni in Europa.  Un libro che vorremmo letto e meditato da primi ministri, ministri degli esteri e della difesa dei paesi europei o da almeno chi li assiste nelle decisioni importanti. Perché il suo messaggio è chiaro e completo. Non solo Ottolenghi mostra come sia essenziale fermare l’Iran, ma spiega anche come farlo se si vogliono usare gli strumenti economici del boicottaggio, piuttosto che quelli militari.
Il libro ricostruisce innanzitutto lo stato politico, tecnico e militare del tentativo iraniano di dotarsi di armi nucleare. Ottolenghi mostra che “l’Iran non è l’Iraq”, cioè cita prove precise e analitiche del cammino dell’Iran verso l’atomica e spiega come questo complicato percorso sia ormai arrivato nei pressi del traguardo. Mostra come un Iran atomico non costituisca solo una terribile minaccia alla sopravvivenza stessa di Israele, ma sia destinato a sconvolgere i rapporti di forza nelle due principali regioni da cui l’Europa attinge l’energia necessaria alla propria vita economica e sociale, l’area del golfo e quella del Caspio. Presenta alcuni scenari terrificanti che potrebbero verificarsi nell’ipotesi che l’Iran spingesse la propria ostilità a Israele fino a un’aggressione atomica (milioni di morti fra Haifa e la regione di Tel Aviv, decine di milioni in Iran, tutto il Medio Oriente in guerra). Ma spiega in maniera convincente il disastro possibile anche se questa terribile catastrofe non si realizzasse: basterebbe che l’Iran lasciasse trapelare la propria capacità nucleare per rendersi virtualmente inattaccabile (come mostra il caso analogo della Corea del Nord), per estendere almeno una parte dell’impunità ai propri satelliti siriani, libanesi e di Gaza, e infine per destabilizzare gli stati arabi moderati sottraendoli all’alleanza con l’Occidente.
Il libro mostra convincentemente che la politica estera iraniana è “rivoluzionaria” nel senso tecnico in cui lo era quella sovietica o quelle della rivoluzione francese o del nazismo: è una politica mossa dall’intenzione di “esportare la rivoluzione” e di rovesciare l’intero assetto strategico del quadro internazionale e non solo a acquisire vantaggi.
C’è un’obiezione che spesso si fa a chi individua l’Iran come un nemico pericoloso ed è il fatto che la sua società appare molto più moderna, pluralista e democratica di quella dell’Irak di Saddam, della Corea del Nord o della stessa Siria. Ottolenghi smonta quest’idea mostrando come il  processo elettorale non sia affatto né davvero libero né centrale nel sistema politico iraniano, come la libertà di culto abbia limiti molto stretti e quella d’opinione sia quasi inesistente, come i tribunali siano dipendenti dal potere politico, crudeli e privi del diritto di difesa, come l’Iran sia retto da una oligarchia clericale fornita di cospicue fonti di reddito, di polizia e esercito paralleli e del potere di veto su qualunque sviluppo politico reale.
Come reagire dunque? C’è l’intervento militare, che gli Stati Uniti possono certamente realizzare e forse anche Israele con il suo appoggio (che qualche mese fa è però mancato). Ottolenghi ridimensiona i pericoli che seguirebbero a un bombardamento dei siti usati dall’Iran per allestire l’atomica, sul piano militare, ma anche su quello politico ed economico. E però è certo che l’Europa non sarà mai disposta a seguire questa strada. La sola alternativa è dunque disponibile all’Europa è un boicottaggio efficace. E’ qui che l’analisi del libro diventa più penetrante e originale. C’è un intero capitolo che mostra i fittissimi intrecci -legali e non- che fanno dell’industria europea il principale fornitore di tecnologie e prodotti per l’Iran. Ottolenghi discute nei dettagli come un boicottaggio europeo potrebbe essere efficace nel bloccare questa rete di rifornimento, colpendo l’Iran quel tanto che basta per indurlo a fermarsi, senza cementare intorno al governo gli strati di popolazione che gli sono tendenzialmente contrari.
Siamo giunti a un momento molto delicato della storia contemporanea. Se l’Iran avrà la sua arma atomica, per la prima volta l’Islam rivoluzionario potrà sfidare non solo Israele ma forse l’Occidente coperto da una forte deterrenza. Se questo avverrà, tutto ciò che abbiamo visto nell’ultimo decennio (i grandi attentati a New York, Madrid, Londra, Mumbay, Bali, l’ondata di terrorismo in Israele ecc.) si intensificherà e aggraverà grandemente. Bisogna cercare di prevenirlo. Per capire come si può fare, leggete questo libro e parlatene. Soprattutto, dopo averlo letto, parlatene con il vostro sindaco, con il vostro partito, con il vostro deputato, con i potenti che eventualmente conoscete. Perché non resti una ricerca accademica, ma entri nel dibattito politico e lo influenzi. Ce n’è un grandissimo bisogno.

Ugo Volli

Il libro di Emanuele Ottolenghi "La bomba iraniana" sarà presentato con la partecipazione dell'autore questa domenica, 1 febbraio, alle 20.30 a Milano al Circolo Noam di via Montecuccoli 27 in una serata organizzata in collaborazione con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
 
 
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  Giorgio IsraelIl Giorno della Memoria
fra celebrazione e strumentalizzazione

Si è parlato di una certa ipertrofia di manifestazioni nel Giorno della memoria.  A mio avviso il problema - può sembrare strano - non è rappresentato tanto dalle manifestazioni ufficiali quanto dal proliferare di "eventi" (orrenda parola) in cui si affollano persone che vogliono esibire le loro realizzazioni letterarie, saggistiche, artistiche, pittoriche, musicali e quant'altro, sia pure connesse al tema della memoria della Shoah. Tutto ciò da una sensazione alquanto spiacevole di un uso strumentale della Giornata per farsi pubblicità. Forse per il futuro sarebbero opportuni atteggiamenti più austeri e un ritegno più consono alla circostanza.

Giorgio Israel, storico della scienza
 
 
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Che ci sia il rischio di una frattura è evidente a tutti. Parliamo delle tensioni che si sono andate cumulando con il Vaticano in questi ultimi mesi e che hanno trovato il loro apice nelle inquietanti manifestazioni negazioniste, succedutesi per bocca di alcuni esponenti del gruppo che si rifà a monsignore Marcel Lefebvre. Il ritorno di questi ultimi nel consesso ecclesiale, ancorché fatto di privato interesse, ovvero da ascrivere interamente agli “interna corporis” della Santa Sede, diventa invece questione di pubblico interesse quando coinvolge, nei suoi effetti, anche quanti non sono cattolici o che pur essendo tali, hanno comunque fatto proprie, senza ombra di dubbio, le posizioni del Concilio Vaticano II. Per l’appunto, le vicende, oramai ripetute, dei vari ecclesiastici che, a diverso titolo, dicono tutti le medesime cose – le camere a gas non sono mai esistite, ovvero se sono esistite non avevano la funzione di uccidere le persone ma solo di disinfestare abiti e corpi  – sono spie di un inquietante disposizione d’animo, probabilmente da sempre presente sotto pelle in alcune nicchie del mondo cattolico e che ora riemerge con virulente prepotenza (e una qualche indiretta e silente legittimazione per parte delle autorità ecclesiali). A Williamson, il vescovo negazionista ordinato da Marcel Lefebvre, ora si aggiunge tale don Floriano Abrahamowicz di Treviso, che dice fino in fondo qual è il suo intendimento quando afferma che spera che gli «ebrei si convertano». Ampia documentazione del nuovo caso (a quando il prossimo?), al riguardo, è quella offertaci da Guido Caldiron su Liberazione, Giacomo Gaelazzi su la Stampa e da Rodolfo Sala su Repubblica. Sempre su Liberazione Frida Nacinovich ci racconta un esempio di sofferto equilibrismo politico, intervistando un esponente della Lega, Mario Borghezio, che manifesta il disagio tra il riconoscersi nelle motivazioni religiose della confraternita Pio X e la condanna della deriva espressa da alcuni tra i suoi esponenti. Segnatamente, Abramovich è stata una delle voci di Radio Padania, dai cui microfoni ha in più di una occasione espresso articolati giudizi sul passato, rivelando un anticomunismo viscerale, condito di irrisolte attenzioni e condiscendenze per certi aspetti del neofascismo di Salò.
Resoconti su tutta l’aggrovigliata vicenda, differenti tra di loro ma che se letti in maniera incrociata, ci aiutano a dipanarla sono quelli che si trovano inoltre per le penne di Vincenzo Faccioli su Liberal
, Benedetto Ippolito su il Foglio, Andrea Tornielli su il Giornale, Mimmo Muolo su l’Avvenire, Luigi Santambrogio su Libero, Iaia Vantaggiato su il Manifesto, Marco Politi su la Repubblica, Rodolfo Lorenzoni su il Tempo, Umberto De Giovannangeli su l’Unità 
Sempre su Liberal
Rossella Fabiani si sofferma sull’incontro previsto in marzo tra rabbinato e Santa Sede mentre sulla medesima testata Giuseppe Baiocchi ricorda il fatto che il padre di Marcel Lefebvre è a sua volta morto in un lager. In realtà, a conti fatti, quest’ultima vicenda, così come la firma, a suo tempo, apposta del vescovo scismatico alla dichiarazione «Nostra Aetate» possono benissimo coesistere con la vocazione antigiudaica (il termine non è casuale) dei membri della Fraternità Pio X, prosecutori di una tradizione avversa agli ebrei, fratelli minori o, per meglio dire, cugini di un libro minore, il Pentateuco, superato dal Nuovo Testamento. Ario Gervasutti, su il Messaggero, ricostruisce il profilo biografico di don Floriano Abramovich. Leggerlo ci può aiutare a capire perché nella medesima persona possano coesistere origini, in parte ebraiche (e come tali riconosciute) e approdi spirituali e culturali (apertamente rivendicati) alternativi. Altrettando ci permette di fare Nicola Tedeschini in un colloquio con il diretto interessato su la Stampa. Gli ebrei, secondo un certo filone, esistono per testimoniare della necessità della loro conversione al cristianesimo. Non c’è comunque accordo, nella Chiesa, sugli atteggiamenti da assumere dinanzi alle infelici presi di posizione degli ultratradizionalisti. Andrea Tarquini, su la Repubblica, dà conto della posizione molto critica dell’episcopato tedesco, che contesta alla Santa Sede la scarsa trasparenza e i poco vigore nel contrastare le posizioni, ritenute inaccettabili, dei lefebvriani.
Il negazionismo è di moda, in buona sostanza, malgrado la Giornata della Memoria. Ce lo dicono Ugo Finetti su Libero e, con un bell’articolo, raffinato e colto, com’è nello stile dell’autore, Alessandro Portelli su il Manifesto. Non meno interessante è l’articolo di fondo di Marek Halter su la Repubblica.
Spostiamo per un attimo il fuoco della nostra attenzione dai fatti d’Europa, e di casa nostra, ai primi passi della nuova amministrazione americana leggendo l’articolo di Antonio Ferrari su il Corriere. Il Medio Oriente è peraltro in evoluzione. Una penna insospettabile di ostilità preconcette verso i palestinesi, quella di Michele Giorgio, ci racconta su il Manifesto della frattura, irricomponibile, tra Hamas, Anp e Fatah mentre Eric Salerno su il Messaggero e Francesco Ruggeri su Libero parlano, da diverse prospettive, di Israele dopo l’azione militare a Gaza. Su quest’ultima si sofferma anche Paul Salem su l’Espresso. Un quadro generale sul backstage di certi movimenti politici, in questo caso i Fratelli musulmani, è quello disegnato da Pino Buongiorno su Panorama.
Infine, sul tema in oggetto di tutte queste discussioni, ovvero lo statuto (debole, ad onore del vero) della laicità nelle nostre società si legga di Giovanni Fornero l’intervento raccolto da l’Unità e la ricostruzione storica e politica del modello concordatario fatta da Carlo Marroni su il Sole 24 ore.

Claudio Vercelli

 
 
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Stazione di Milano, binario 21 , il ricordo delle deportazioni        
Milano, 29 gen -
Alla Stazione Centrale di Milano, binario 21, si è svolta anche quest'anno una cerimonia in ricordo della deportazione degli ebrei.                         
Proprio dal binario 21, ora diventato luogo della memoria, il 6 dicembre 1943 partì il primo convoglio per Auschwitz e altri ne partirono fino al gennaio 1945.
Alla cerimonia, organizzata come ogni anno dalla comunità di Sant'Egidio, è intervenuto anche un coro di bambini nomadi che hanno così ricordato l'Olocausto nei campi di sterminio dei Rom e dei Sinti.
Fra i presenti: Giuseppe Laras, presidente dell'assemblea rabbinica italiana, “In questi giorni - ha detto  - abbiamo sentito parole oltraggiose alla memoria della Shoah. Si è di nuovo sentita la voce del negazionismo. C'é chi ha negato che sono esistite le camere a gas o i crematori. Assurdità nefande che fanno male ma che ci servono a tenere viva la memoria di quei fatti"; Giorgio Del Zanna, della comunità di Sant'Egidio che ha ricordato come spesso, soprattutto quando si parla del conflitto tra Israele e Palestina, come è accaduto in questi giorni con la guerra a Gaza, "si confonde fede religiosa e appartenenza politica"; Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, che proprio dal binario 21 della stazione di Milano partì il 30 gennaio 1944 insieme al padre che non tornò. "Quel giorno - ha ricordato - per noi non c'era pietà. C'erano solo insulti, botte e spinte. Nessuna pietà per noi. Oggi che siamo qui a ricordare l'Olocausto nei vostri occhi c'é la pietà".  
Prima che al binario 21 venissero deposti i fiori da tutti i partecipanti, è intervenuto anche mons. Franco Brambilla, Vescovo ausiliare e preside della facoltà teologica dell'Italia settentrionale: "dimenticare non ci è possibile, anzi lo sentiamo con un dovere particolare in questo anno in questo tempo di confusione, minacciato da un oblio e da una rimozione che colpisce a morte la coscienza di ciascuno. La memoria ha bisogno di lottare continuamente contro l'oblio, di farsi strada nell'indifferenza che rimuove e ottunde le coscienze".


Negoziati Siria-Israele, ancora interrotti
Beirut, 30 gen -
I colloqui tra le delegazioni siriana e israeliana, condotti in quattro riprese da maggio ad agosto scorsi tramite la mediazione turca, sono stati interrotti a settembre su richiesta del governo di Tel Aviv, travolto dalla crisi politica interna.
Il premier turco Recep Tayyip Erdogan citato oggi dal quotidiano panarabo al-Hayat, edito a Londra ha detto: "La mediazione turca è al momento messa da parte", riferendosi al ruolo diplomatico svolto nei mesi scorsi da Ankara, che ha cercato di trasformare i contatti indiretti tra Damasco e Tel Aviv in negoziati di pace e - ha aggiunto - che sarebbero bastate solo "poche parole" perché si concludesse l'accordo tra Siria e Israele, come premessa per avviare negoziati di pace diretti.
Durante la recente guerra nella Striscia di Gaza, Damasco ha dal canto suo annunciato in segno di protesta di non voler poter avere nessun contatto, nemmeno indiretto, con la controparte israeliana. Gli ultimi negoziati diretti siro-israeliani s'interruppero nel gennaio 2000. Le due parti rimangono divise su alcuni punti cruciali: l'occupazione israeliana delle Alture del Golan, avvenuta nel 1967, e i legami della Siria con il movimento sciita libanese Hezbollah, l'Iran e con i palestinesi di Hamas. 
 
 
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