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L'Unione informa
 
    4 febbraio 2009 - 10 Shevat 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Alfonso Arbib Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano
Le matzòt sono il simbolo fondamentale dell'uscita dall'Egitto. Le regole da osservare per la preparazione delle matzòt (estrema attenzione, impegno e velocità) sono considerate nella tradizione rabbinica un paradigma per l'osservanza delle mitzvòt (le due parole matzòt e mitzvòt si scrivono allo stesso modo). Le mitzvòt vanno quindi osservate con sollecitudine, senza pigrizia. Un verso del Mishlè invita a prendere a esempio il comportamento e l'operosità delle formiche. Un grande maestro contemporaneo, R. Itzhak Hutner si chiede perché si prenda a esempio proprio la formica e cita per rispondere un passo talmudico in cui si dice che le formiche raccolgono una quantità enorme di cibo che non potranno mai consumare perché la loro vita è estremamente breve. Secondo Hutner è questo l'atteggiamento che ci viene richiesto nei confronti della tradizione ebraica. Dobbiamo impegnarci senza porci il problema dell'utilità del nostro impegno. Questo impegno potrà non essere immediatamente utile ma dobbiamo fare come le formiche che raccolgono il cibo per le generazioni future.
Le sinagoghe di New York sono note per disputarsi hazanim, manager e rabbini. Al centro della serrata concorrenza ora c'è un volto nuovo: Mordechai Kedar, l'islamista dell'Università Bar Ilan protagonista di un rovente duello su Al Jazeera finito su YouTube. Basta il suo nome per riempire auditori, sinagoghe, centri comunitari. Kedar conosce il Corano a menadito, cita a memoria gli Hadit su Maometto e parla di Gerusalemme: sono gli argomenti che interessano di più.  Maurizio
Molinari,
giornalista
Maurizio Molinari  
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AyalimDa Milano alle stelle del deserto
con i nuovi pionieri di Ashalim


Un mucchio di casette rettangolari circondate da qualche zona verde. Più in là, il deserto. Ecco come si presenta Ashalim, un villaggio nel Sud di Israele a pochi minuti da Beer Sheva, nel cuore del Negev. A prima vista queste abitazioni semplici, quasi spoglie non dicono nulla di speciale, soprattutto se ci arrivi di sera, l'aria notturna e fredda del deserto si fa sentire, le stelle brillano in un celo nerissimo, non si scorgono molte luci all'orizzonte e non vedi l'ora di mangiare qualcosa di caldo. Ma in un edificio più grande, semplice ma accogliente, si trovano tavole apparecchiate e la cena pronta. Poi arrivano i ragazzi che abitano il villaggio. Tutti tra i diciotto e i trent'anni. E il contesto assume un significato diverso. Sono loro i padroni di casa. Un giovane vestito semplicemente si alza, dà il benvenuto agli ospiti e comincia a raccontare: “I nostri nonni hanno dato vita a questo Paese, come pionieri, creando i primi kibbutz. I nostri genitori hanno combattuto per l'indipendenza dello Stato d'Israele. E noi? Come possiamo noi giovani mettere in pratica gli ideali del sionismo, prendere in mano il nostro futuro?

E' da queste domande che è nato il progetto Ayalim. L'iniziativa è rivolta alle nuove generazioni di israeliani, giovani uomini e donne ispirati dallo spirito pionieristico, motivati dal bisogno di realizzare qualcosa con le proprie mani, di dare concretezza ai propri ideali. Ashalim fa parte di questo progetto.
Con una breve proiezione e altre testimonianze ci spiegano in cosa consiste Ayalim. Il progetto è nato nel 2002, quando un gruppo di ragazzi decise di realizzare un villaggio con le proprie mani, senza l'aiuto di nessuno, e di collaborare insieme per costruirvi case e edifici comunitari. Oggi ci sono dieci piccoli villaggi appartenenti a questo progetto, dislocati nelle zone d'Israele più povere e meno abitate: il Negev e la Galilea. Si tratta in genere di villaggi costruiti vicino alle maggiori università israeliane dagli studenti stessi. In cambio della cessione gratuita dei terreni, i ragazzi si impegnano con gli abitanti della zona a promuovere il volontariato sociale, preparando attività per bambini e adolescenti problematici o provenienti da contesti di povertà, diventando per essi un esempio e un modello da seguire.
Israele ha un orizzonte straordinario da scoprire e conquistare: il deserto. Deserto vuol dire spazi ancora liberi dalla proprietà privata, possibilità di strappare terreni coltivabili alla sabbia, vuol dire possibilità di fare progetti che partano da zero. E questo è il terreno su cui lavorano i ragazzi di Ashalim.
La striscia di Gaza non è lontana. A un certo punto si fa inevitabile una domanda sul conflitto delle scorse settimane. I ragazzi spiegano che le loro case hanno muri troppo sottili per reggere i colpi dei missili sparati dai terroristi e non sono dotate di rifugi siuri, avendole costruite con le loro mani. Così hanno scelto di ignorare il pericolo, poiché conquistare il deserto e il loro progetto di vita sono più importanti di qualsiasi missile.
In Europa la maggioranza di noi giovani è indifferente e senza valori. Anche chi ha ideali non sa poi come metterli in pratica, e non può che sbandierarli senza riuscire a dar loro un vero significato.
Durante la serata ho avuto modo di parlare con alcuni ragazzi di Ayalim provenienti da diverse realtà. Tutti mi sembravano molto motivati e pieni di ideali. Sono attivisti, sono pionieri, sono soprattutto sionisti, e a questa parola sono riusciti a dare un nuovo valore.
L'organizzazione giovanile Hashomer Hatzair cui appartengo mi ha trasmesso l'ideale di sionismo in tutta la forza che può avere per gli ebrei della Diaspora. Pensavo che la realizzazione di quest'ideale arrivasse attraverso l'alià, la salita verso Gerusalemme, il volontariato in Israele e un'opera di sensibilizzazione nei luoghi dove abitiamo. E credevo che in Israele il sionismo fosse ormai dato per scontato e il pionierismo avesse perso significato tanti anni dopo la conquista della libertà e dell'indipendenza del 1948. Oggi ho visto il sionismo rinascere nel cuore stesso d'Israele, grazie a giovani che hanno cercato di metterlo di pratica consapevolmente. Ayalim è un progetto di grandissimo valore, che può essere d'esempio per generazioni di giovani ebrei. In Israele e nella Diaspora.

Giulia Temin


DiarioMemoria 11 - Furio Colombo
"Il 27 gennaio serve ancora?"


La domanda è se un «Giorno della Memoria» serve; se non è un meccanismo di ripetizione, che evoca un evento, ma esenta dal partecipare in prima persona. Basta l’automatismo della data, un minimo di rispettosa citazione per aver compiuto un dovere. Se quel dovere non c’era, più o meno, tutto andava avanti come prima: buoni, cattivi, un’immensa zona grigia. Quel che è stato è stato e ci pensa la storia che, comunque, in momenti diversi viene riscritta. So che la domanda «serve un Giorno della Memoria?» è inutile, perché gettata nel vuoto. Ma ho voluto ripeterla perché sono il proponente e autore di quella legge. E perché la domanda viene proposta davvero. E non solo da persone irritate che hanno voglia di ricordare altre cose. Ma anche — con profonda buona fede — da persone che temono che un’iniziativa, buona quanto si vuole, sia però o sbagliata o inutile.
Fatemi ricordare di che cosa parliamo. Alla fine della tredicesima legislatura (maggioranza di centrosinistra e governi Prodi, D’Alema, Amato), Camera e Senato hanno votato la prima legge italiana per l’istituzione di un Giorno della Memoria. La memoria della Shoah, dell’immenso e unico progetto criminale di catturare e di uccidere tutti i componenti di un popolo, dai bambini ai vegliardi, lavoratori, professionisti, scrittori e malati, ma anche artisti, giudici, generali.
La persecuzione contro gli ebrei non è cominciata con la «notte dei cristalli» e si è interrotta solo perché persecutori e assassini sono stati abbattuti. Ma ciò che è accaduto — prima in Germania e in Italia (la Germania nazista, l’Italia fascista), poi in tutta Europa — sarebbe continuato nel resto del mondo se nazisti e fascisti non fossero stati cancellati — almeno in quel momento — alla fine della Seconda guerra mondiale. Non è stata un’esplosione di bestialità. Quella persecuzione è stata un grande progetto culturale, prima di diventare un meticoloso e ossessivo piano burocratico. E riguarda noi, italiani, qui, adesso, perché la Shoah non è «la guerra», non è «il passato» e le consuete brutture della violenza. La Shoah è un delitto italiano.
Le incertezze, l’ambivalenza sul Giorno della Memoria sono sentimenti che riflettono i fatti. Per esempio, il giorno i6 dicembre la Camera dei deputati, su iniziativa del presidente Fini, ha dedicato una mattina, una cerimonia, una lapide (prima, nella storia del post-antisemitismo italiano) al settantesimo anniversario delle leggi «antisemite e razziste» (parole estrapolate dal bel discorso di Gianfranco Fini). Con lui hanno parlato lo storico Michele Sarfatti, il presidente delle Comunità ebraiche italiane Gattegna e Nedo Fiano, che ha reso vivi e presenti certi giorni, certe ore della fascia nera del razzismo che — tra l’indifferenza e il silenzio — aveva avvolto l’Italia, facendone il principale complice del delitto nazista.
E ha parlato una studentessa del liceo artistico di via Ripetta a Roma, che ha raccontato della lezione negazionista di uno dei più autorevoli insegnanti (storia dell’arte) di quella scuola. In questo evento teso, toccante, carico di emozione, condotto con chiarezza da Pini — figura ormai del tutto sdoppiata ed emancipata dall’immagine diversa del suo passato — non si è parlato mai, neppure con un accenno, del «Giorno della Memoria» e della legge che lo ha istituito, non senza ostilità, difficoltà, scetticismo che ora sembrano evaporati.
Mi sembra importante chiarire: non è una rivendicazione o un rimpianto. E legittima necessità di accertamento. Molto, nel paesaggio italiano, è cambiato negli ultimi anni. L’area, prima deserta, della difesa di Israele, appare affollata. Antisionismo e antisemitismo non sono più parole-codice per condannare automaticamente Israele e per consegnare a Israele gli ebrei italiani e le loro scelte politiche. Quanto al dolore del passato — mal ricordato e spesso accantonato come «la storia» o come una «brutta pagina» e persino come una «deviazione» del fascismo — anche questo spazio adesso è gremito di nuovi credenti. Ovviamente è un bene. Ma (ecco la domanda) che cosa è veramente cambiato? O meglio: che cosa ha provocato una rapida, precipitosa, evoluzione, che ci racconta, all’improvviso, un’Italia molto diversa?
Occorre prendere atto che si sono sciolti due iceberg che per decenni hanno ostruito l’accesso alla memoria, mettendo comunque per traverso l’ostacolo Israele. Uno dei due iceberg era a sinistra, si era impiantato su posizioni radicali che però, se la questione era Israele — fondazione, esistenza, diritto — occupava ampi spazi anche nella sinistra «bene» del Pci, trovava posto tra la questione morale e i tentativi di un governo di unità nazionale, ovvero una posizione di ferma intransigenza, di irreversibile e inappellabile condanna politica (contro Israele) in un mare di buone vibrazioni (si sarebbe detto negli anni Sessanta) e di buone maniere. L’altro iceberg è stato a lungo a destra.
Era composto di residui di filoarabismo fascista, di antisemitismo culturale, che ha sempre avuto la sua radice in Julius Evola, nella persuasione — vecchia come lo zarismo — molto diffusa non solo a destra (ma anche nel cosiddetto mondo ben- pensante) secondo cui gli ebrei sono apolidi sospetti, forse eversivi.
E utile ricordare, nella nuova euforia che si raccoglie adesso a destra intorno a Israele, che era tipico — per gli studenti del Fuan (l’organizzazione universitaria del Movimento sociale italiano) aggirarsi nei corridoi delle facoltà con la kefiah e di partecipare con lo stesso simbolo agli eventi politici, proprio come i coetanei di sinistra. Prendiamo atto che è accaduta una normalizzazione, un «addio alle armi» nella vita italiana, che non si può non salutare come una cosa buona.
Ma perché la cosa buona avvenisse, sono stati necessari altri eventi che oggettivamente possono essere chiamati «il prezzo», sono stati diversamente vissuti. Uno di questi fatti è stata la stagione di disprezzo e di accusa verso la Resistenza. E stato un modo di rimuovere e screditare un punto di riferimento, anzi di coincidenza, fra lotta al fascismo e lotta alle leggi razziste antiebraiche. Un cumulo di atti di accusa in decine di libri «contro la Resistenza» si sono assunti questo compito. Tutto ciò è accaduto a sinistra, per opera di autori ritenuti di sinistra, e dunque ha avuto peso e conseguenze.
Un altro di questi fatti è stato l’invito costante, pressante, sistematico ad abbandonare il «mito» dell’antifascismo. Simmetricamente, però, autorevoli personaggi postfascisti si sono risolutamente distaccati da ogni ombra o dubbio di nostalgia, non hanno esitato a proclamare condanne severe e giudizi netti, abbandonando ogni bagaglio del passato.
Ciascuno di questi eventi conta, in questa riflessione, per il peso che ha e che ha avuto, senza alcuna volontà di processo alle intenzioni. Importa il risultato, che è un vasto spazio libero, nel quale non è la memoria a guidare, se non nell’intenso, appassionato racconto dei sopravvissuti, del loro modo "diverso" di partecipare a eventi sulle leggi razziste e la Shoah, con frammenti di testimonianza non commensurabili con altre evocazioni o interventi. Infatti gli «altri interventi» — ovvero tutto ciò che leggete o ascoltate oggi sui maledetti anni di persecuzione e sterminio di un popolo — sono le ben calibrate e intelligenti e utili parole di qualcuno che vive oggi e con la cultura di oggi e ci parla del suo scandalo per il razzismo, della repulsione per le discriminazioni, del disgusto per il mondo concentrazionario, della ribellione contro lo sterminio. Ma lungo un percorso che va da oggi a oggi. E comprende in modo naturale Israele anche per ragionevoli considerazioni di strategia e di difesa contemporanea.
Dunque, a che serve la memoria? Ci dà notizie di un’evoluzione che, però, salvo la voce incrinata di chi è ancora vivo dopo aver sperimentato la morte, racconta di adesso, non dell’inammissibile evento detto Shoah. In questo senso c’è attualità, non memoria. Non è un decadimento o un tradimento morale. È un percorso completamente diverso.
Non era ciò che aveva pensato chi ha scritto e proposto, e chi ha approvato all’unanimità, «il Giorno della Memoria». E giusto chiederci se sia stato un dirottamento, per quanto in- volontario; o se il nuovo percorso — il presente politico invece della memoria storica — sia quello che volevamo.

Furio Colombo
(Diario - Speciale Memoria, 23 gennaio 2009)
 
 
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  Ugo VolliMilitanti, miliziani... e terroristi

Il linguaggio conta, determina la nostra percezione del mondo. Spesso leggiamo sui giornali: “Militanti di Hamas, sparano, tirano missili, attaccano ecc.”. Perché “militanti”? La parola indica chi aderisce attivamente a un partito o a un’altra organizzazione politica. Per chi è anti-israeliano definire i membri di Hamas e di Hizbullah come “militanti” è ribadire la tesi di D’Alema: si tratta di partiti legittimi, che portano le armi così per errore, ma essenzialmente fanno politica. E chi non ci crede come li deve chiamare? “Militari” no, perché militare è il membro di un esercito legale e Hamas non lo è. “Guerrigliero” sottolinea il legame con le “romantiche” attività del Che Guevara e dintorni: improprio. Per male che se ne possa pensare, non rapivano gente a scopo di riscatto né bombardavano i civili. “Miliziani”, cioè appartenenti a “milizie” gruppi armati non statali, è accettabile. La parola giusta è “terroristi”, membri di organizzazioni che perseguono scopi politici attaccando indiscriminatamente i civili. Dunque “Terroristi di Hamas sparano, tirano missili ecc.” Ricordiamocene. Il linguaggio conta.

Ugo Volli, semiologo
 
 
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Le critiche del cancelliere tedesco a Papa Benedetto XVI riaprono la polemica sulla revoca della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista. Con una iniziativa che il Corriere della Sera giudica «inusuale», Angela Merkel chiede al Vaticano di «chiarire che non si nega la Shoah». I maggiori quotidiani italiani (oltre al Corriere: Repubblica, Il Sole 24 Ore, La Stampa, Il Messaggero, Il Giornale, Il Tempo) dedicano un ampio spazio all’argomento che, se da una parte registra la presa di posizione della Germania, dall’altra sottolinea la risposta netta della Santa Sede: «Sull’Olocausto la condanna  è stata chiara» - titola Il Messaggero. Ma la vicenda, che pone Richard Williamson nell’occhio del ciclone, inizia a rivelare i malumori che si vivono all’interno della Chiesa stessa. Massimo Franco (sul Corriere) racconta di una «fronda rimasta nell’ombra fino alla gestione maldestra del caso Lefebvre: una filiera appartata ma potente di cardinali considerati non in sintonia con Benedetto XVI; e pronta a usare l’incidente per criticare la gestione del governo della Santa Sede». Del resto, come ricorda La Stampa, a farsi portavoce dei malumori che aleggiano in Vaticano ci aveva già pensato il cardinale Walter Kasper, presidente della Pontificia commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, con un’intervista rilasciata due giorni fa a Radio Vaticana. La tempesta mediatica che investe la Curia e riapre il problema della governance all’ombra di Ratzinger, spinge Il Sole 24 Ore a dipingere sulle proprie pagine la «mappa del potere» Oltretevere. Davvero un’interessante riflessione. Mentre Il Foglio e Avvenire si concentrano sulle radici giudaico-cristiane nella teologia di Benedetto XVI. Nel botta e risposta Merkel-Pontefice è infine importante riprendere in mano il Corriere e il retroscena di Massimo Franco. Sul quotidiano di Paolo Mieli, il giornalista, dopo aver raccontato dei mal di pancia all’interno del Vaticano, si concentra sui rapporti ancora tesi con Israele e sul viaggio a Gerusalemme sempre più in bilico. L’altra notizia che occupa notevole spazio sulle pagine dei giornali è il lancio in orbita del primo satellite iraniano. Interessante l’articolo di Gian Micalessin sul Giornale, che ricorda le preoccupazioni dell’Occidente per il progetto di Teheran e le risoluzioni dell’Onu - ignorate dall’Iran - che dovevano fermare quelle «poco cristalline ambizioni spaziali». Se il mondo resta in allarme, Europa - quotidiano della Margherita - ospita un’intervista a Gary Sick, professore di relazioni internazionali alla Columbia, che parla «di svolta dell’Iran. È la prima volta che l’Iran lancia un satellite nello spazio usando i propri mezzi, dunque segna l’inizio di una nuova era. E farà prendere ancora più sul serio il programma nucleare di Teheran». Così, il dibattito su Williamson e il satellite iraniano, lasciano poco spazio alle notizie dalla Striscia di Gaza. Accenni o piccoli articoli, un po’ ovunque, descrivono il proseguire del lancio di razzi sulle città del Sud di Israele - ad Ashkelon è piovuto un missile Grad - e la risposta aerea dell’esercito israeliano con bombardamenti sui tunnel utilizzati da Hamas per il traffico di armi, ricorda Il Riformista. Il tutto a pochi giorni dalle elezioni in Israele. Sull’Unità Umberto De Giovannangeli intervista il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak: «Posso vincere. Tratterò la pace con i palestinesi moderati», annuncia e assicura: «Abbiamo accettato un cessate il fuoco unilaterale ma se sparano ancora razzi reagiremo». Il 10 febbraio, del resto, si vota. Sul Corriere Maurizio Caprara svela la notizia di una cena - per pochi intimi - a casa dell’ambasciatore in Italia, Gideon Meir, la notte degli exit poll. A proposito di media, Avvenire è tra i pochi che ricorda la messa al bando della tv Al Jazeera da parte di Israele. Mentre L’Opinione, con Dimitri Buffa, si concentra sulla storia della scuola dell’Urwa a Gaza «mai bombardata».

Fabio Perugia 

 
 
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L'associazione Italia-Israele premia il senatore Gasparri              
Catanzaro, 4 feb -
Il senatore Maurizio Gasparri, capogruppo del Pdl a Palazzo Madama, ha ricevuto il Premio della Riconoscenza istituito dall'associazione Italia-Israele della Calabria.
"Il premio  vuole testimoniare la riconoscenza verso i politici che si adoperano concretamente in favore del diritto di Israele ad esistere, ad avere un proprio territorio e a coabitare, nella pace, con i fratelli palestinesi" così il presidente dell'associazione Emilio Greco ha definito il riconoscimento in questione.
E' stato deciso di premiare il sentore in quanto “si è sempre battuto in questa direzione, con atti parlamentari e politici significativi e contro quella cultura della violenza che anima alcuni settori della sinistra estrema e della destra estrema, che non vogliono nemmeno concepire l'esistenza di Israele” - ha spiegato Greco  aggiungendo poi che “si tratta di un percorso di pace e di moderazione a cui vogliamo contribuire anche noi senza per questo negare l'analogo diritto della Palestina” .


Israele-Libano, elevato stato di allerta in Galilea
Tel Aviv, 4 feb -
Israele, elevato lo stato di allerta in Galilea, a ridosso del confine con il Libano nel timore di attentati ad opera del gruppo Hezbollah.
Ricorre infatti il primo anniversario dell'uccisione del loro capo militare Imad Mughniyeh.
Gli Hezbollah ritengono i servizi segreti israeliani, il Mossad, reponsabile dell'uccisione.
In una intervista alla radio statale il viceministro della difesa israeliano Matan Vilnay ha oggi "sconsigliato" al leader degli Hezbollah Hassan Nasrallah di intraprendere qualsiasi operazione offensiva "ben sapendo a quale reazione rischia di esporsi". I portavoce israeliani ribadiscono in questi giorni che in caso di attacchi di Hezbollah il governo libanese per intero sarebbe ritenuto responsabile. 
 
 
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