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L'Unione informa
 
    6 febbraio 2009 - 12 Shevat 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Roberto Colombo Roberto Colombo,
rabbino 
“Quando il Faraone mandò via il popolo ebraico” (Esodo 13,17). La parola beshallàkh, che si traduce di solito con l'espressione mandar via, significa anche accompagnare. A esempio è usata nella Torà quando Avrahàm accompagnò i suoi ospiti per la via di Sedòm. Il faraone non allontanò gli ebrei, ma li accompagnò, mostrando loro rispetto e gentilezza. Molti, colpiti da tanto onore tornarono in Egitto. Tutti questi sono scomparsi dalla storia. Chi odia veramente non mostra apertamente il suo astio. Lo tiene celato da belle parole e promesse di pace e stima che puntualmente si rivelano devastanti a lungo andare. (Tzadòq Hacohèn) 
Tacito diceva che il desiderio di sicurezza va contro ogni impresa grande e nobile.  Vittorio Dan
Segre,
pensionato
Vittorio Dan Segre  
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  pilipul1Noi, quelli del 24/6

“E RICORDATI, SE HAI BISOGNO DI QUALCOSA SONO SEMPRE DISPONIBILE 24/6”. Non c’è bisogno di raccontare nei dettagli la cultura americana, ormai largamente diffusa anche su questa sponda dell’Oceano, per far comprendere cosa significhi l’espressione 24/7. I servizi e i lavori che non conoscono interruzioni, i negozi che non abbassano mai la saracinesca, il ritmo incessante di una produttività che non ammette soste, non conosce orari e spesso non consente riflessioni. Ma gli ebrei, osservanti o meno poco importa, come ricorda una memorabile vignetta del New Yorker, devono fare i conti con una propria concezione del tempo. E pur rendendo omaggio alle esigenze della produttività, a questa logica devono opporre un’eccezione. Per tutti, qualunque sia il loro orientamento religioso o culturale, conoscere la scansione del tempo ebraico è importante. Perché noi, a meno che non si tratti di far fronte a gravissime emergenze o di tutelare l’integrità della vita umana, siamo quelli del 24/6, non possiamo essere quelli del 24/7. In questo settimo giorno che si avvicina, un caro amico della redazione, Angelo Eithan, compie 13 anni e giunge alla soglia della sua maggiorità ebraica. Dedichiamo a lui e a tutti i suoi coetanei che prendono in mano i destini della più antica realtà ebraica della Diaspora, una novità piccola nella grafica, ma grande nel suo valore. Il lettore troverà da oggi sulla home page del Portale dell’ebraismo italiano gli orari di inizio e di fine del settimo giorno.



Amira HaasDonne d'Israele 3 – Amira Haas
Una giornalista oltre il confine


“Sono abituata a essere considerata impopolare. Per me non è un problema. Molti israeliani mi considerano una traditrice, ma altri mi leggono con interesse e si sentono solidali con le opinioni che esprimo”. Amira Hass, prima e unica giornalista israeliana a vivere a Gaza e in Cisgiordania, ha uno stile diretto e pungente. Anche quando le domande entrano nel vivo della sua esperienza personale. Non teme per se stessa? le chiede l’intervistatore. E lei, serafica, “sono abituata”: “credo che fare il giornalista significhi sorvegliare i centri di potere, osservare da vicino come vengono applicate le politiche dei governi e se rispettano nei fatti ciò che hanno promesso i governanti”.
A 53 anni Amira Hass è una delle voci più note e discusse dal Medio Oriente, conosciuta in Italia soprattutto per il suo diario sul settimanale Internazionale. Nata a Gerusalemme, figlia di due attivisti comunisti bosniaci sopravvissuti alla Shoah, scrittrice e giornalista di Ha’aretz, inizia le sue corrispondenze dai territori nel ’91. Due anni dopo si sposta nella Striscia di Gaza dove vive per un paio d’anni per approdare nel ’97 a Ramallah. Da qui racconta in presa diretta lo scoppio della seconda intifada.
La sua è una scelta controcorrente, vissuta con coraggio e grande semplicità. “Come giornalista – spiega - mi occupo di questioni palestinesi. Quindi sentivo che per fare bene il mio lavoro dovevo vivere lì”. Ma la decisione di varcare quel confine non risponde solo al senso profondo di un’etica professionale. E’ un’opzione civile e politica. “Io – dice - sono una donna di sinistra, figlia di ebrei russi e comunisti. Mia madre è scampata all’Olocausto e ritiene che l’occupazione straniera di un territorio sia sempre sbagliata. Sono, dunque, stata educata nel principio dell’eguaglianza, che è un principio dell’ebraismo, per questo ho deciso di vivere tra i palestinesi”.
“Abito a Ramallah – continua - ma sono una privilegiata: con l’auto raggiungo Tel Aviv in un’ora, mentre per un palestinese ci vogliono cinque o sei ore, quando va bene. Un altro enorme privilegio è avere l’acqua. Per i palestinesi c’è il razionamento e perfino il diametro dei tubi che la trasporta è molto più piccolo”.
Le sue cronache non risparmiano né gli israeliani né i palestinesi. Amira Hass narra la progressiva militarizzazione dell’intifada, l’affermarsi dei fondamentalismi, gli scontri tra i diversi gruppi armati, la corruzione della leadership palestinese. E poi l’inasprimento dell’occupazione, le violazioni dei diritti umani e la grande povertà che minaccia d’inghiottire i villaggi e dei campi palestinesi. Le sue critiche le attirano molti attacchi, anche da parte delle autorità d’ambo le parti.
Ma Amira evita toni da vittima o da prim’attrice. La sua scelta di vivere al di là della linea verde, sostiene, in Israele suscita in fondo “una sorta d’indifferenza”: “gli israeliani non vogliono sapere”, “ai lettori israeliani non importa dei reportage accurati da Gaza. Da Gaza gli interessano solo le notizie su Shalit”. La voce sommessa di questa donna dal volto serio e intenso, incorniciato dagli immancabili occhiali, riesce però in questi anni a disegnare nel concreto la realtà quotidiana e dolorosa di due popoli così vicini e così lontani.
Nelle sue cronache s’intrecciano le vite d’amici e conoscenti: Abu Yussef rifugiatosi in Norvegia e Nir nato in un kibbutz, Muna e le amiche israeliane. E poi il thè alla menta dei pomeriggi sereni; gli ulivi nei campi palestinesi tagliati dagli israeliani (con “i rami amputati come se stessero implorando aiuto”); la costruzione della nuova superstrada israeliana e l’eterna attesa degli abitanti di Gaza (“Aspettare i pezzi di ricambio di elettrodomestici e automobili; aspettare elettricità, acqua e gas; aspettare che apra il varco di frontiera per portare fuori le fragole; aspettare che Israele autorizzi una spedizione umanitaria delle Nazioni Unite. Ormai i palestinesi non fanno altro”).
A marzo dello scorso anno, stanca e delusa da una situazione politica che sembra in stallo totale, Amira Hass sceglie di fermarsi e prende un’aspettativa dal suo giornale. “Una pausa quanto mai necessaria, dopo quindici anni di cronache sull'occupazione – spiega su Internazionale - A mettermi ko non è stata solo l'indubbia fatica di tanti anni di lavoro. La cosa peggiore è sempre stata il profondo divario tra la gravità di quello che scrivevo e la generale indifferenza dimostrata dal lettore israeliano medio. È logorante rendersi conto che le parole non cambiano niente”.
Ma lo stacco dura molto poco. Qualche mese e le tensioni in Medio Oriente di nuovo salgono a livelli di guardia. Amira decide di tornare sul campo e di riannodare il filo del suo racconto. Riesce a raggiungere Gaza con una delle navi umanitarie che a novembre forzano il blocco. Alla fine del mese è espulsa, per “motivi di sicurezza”. “Ad Hamas – commenta lei - non interessa dei lettori israeliani”. Addolorata per le tante storie che avrebbe voluto raccontare, Amira Hass però non molla. E riprende la sua cronaca, questa volta dal fronte doloroso di una guerra.

Daniela Gross
 
 
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  Isacco Levi Io ebreo e partigiano due volte penalizzato

Ho 85 anni, sono un ex comandante ebreo e partigiano di distaccamento che perse tutta la famiglia ad Auschwitz. E se il dramma di aver dovuto assistere al loro «non ritorno» è già un peso infernale che mi porto dentro da oltre sessant'anni, il ricordo dei famigliari più stretti, mia madre, mio fratello e mia sorella, è ancora più feroce. Gassati, annientati, torturati dentro e fuori. Per ognuno di loro un numero e una sorte che in quel numero doveva trovare l'anonimato, il non essere mai esistiti. L'aver fatto poi il partigiano mi penalizza ancora oggi di fronte a quell'Europa unita che anche io, nel mio piccolo, ho contribuito a costruire. La Germania mi nega quello cui ho diritto, ossia il risarcimento per la mia persecuzione solo perché partigiano. Nulla si muove da anni e allora, in questi giorni di negazione della Shoah da parte di qualcuno, vorrei ricordare che esiste ancora oggi la negazione dell'impegno che noi partigiani portammo coraggiosamente avanti in quegli anni di indifferenza. La negazione non è un vezzo di qualcuno, ma è un germe preordinato alla sofferenza di altri e che l'indifferenza (quella al mio non risarcimento lo dimostra) può rafforzare pericolosamente.

Isacco Levi
(La Stampa – 6 febbraio 2009) 
 
 
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La vicenda della revoca della scomunica comminata ai lefebvriani ha assunto imbarazzanti proporzioni per le autorità della Santa Sede. Lo si desume chiaramente leggendo, tra gli altri, l’articolo siglato M. Mu su l’Avvenire, dove sono riassunti, sia pure “obtorto collo”, i termini della questione. Decisiva è stata senz’altro la secca presa di posizione della cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha costretto le autorità del Vaticano a rettificare le condotte assunte e ad addivenire a toni più concilianti rispetto ai loro interlocutori. Che la vicenda, peraltro, sia destinata a non chiudersi tanto facilmente lo possiamo desumere dalle ostentate, ripetute e aggressive dichiarazioni degli esponenti della Fraternità Pio X, dove si susseguono prese di posizioni identitarie, tutte orientate a dichiarare la natura inconciliabile dei loro convincimenti rispetto al magistero del Concilio Vaticano II. Così su il Corriere della sera, per la penna di Paolo Salom, che fa il punto della situazione, e ancora su il Messaggero, su Repubblica per la cura di Marco Politi e su il Tempo per la mano di Rodolfo Lorenzoni. Ne emergono i chiari intendimenti rispetto al futuro, volti ad una sorta di campagna di riaffermazione della propria precettistica ideologica, trasfusa poi in un dettato teologico fondato sul richiamo alla cosiddetta «tradizione» come indice supremo al quale la Chiesa intera dovrebbe integralmente orientarsi. Chiesa che, a detta di Andrea Milani, su l’Espresso, sarebbe in forte affanno. Non solo su questa vicenda, che pure la sta provando, ma sull’insieme delle iniziative poste in campo da Joseph Ratzinger, connotate quanto meno dall’incapacità di essere comunicate all’ampio pubblico secondo un registro che sia orientato a cercare di ottenerne il consenso. Il modello culturale di Benedetto XVI parrebbe essere maggiormente orientato nel senso di ciò che è detta «obbedienza» piuttosto che nella direzione del confronto con la molteplicità culturale presente fuori e dentro il mondo cattolico. Si coglie aria di “restaurazione”, tanto per intenderci, e questo piace ben poco a molti degli osservatori. D’altro canto, il pronunciamento della Merkel, oggi ancora rammentato da il Tempo, tanto più autorevole poiché proveniente da chi governa un paese, la Germania, che ha avuto enormi colpe nel passato e che più di tanti altri ha cercato di fare i conti con le proprie responsabilità, aveva fatto seguito alle dichiarazioni dell’episcopato tedesco, una corale presa di posizione contro le deliberate provocazioni dei lefebvriani. Si aggiunga, da ultimo, e non è di certo un aspetto secondario, che Ratzinger è egli stesso tedesco. L’invito ad un surplus di cautela su tutto quanto riguarda il rapporto, dottrinario e non, con il mondo ebraico è stato al centro della netta assunzione di responsabilità del clero germanico. Peraltro, che intorno alla vicenda dei seguaci di Lefebvre, al mal digerito ritorno di tale gruppo, dal profilo assai settario, in seno alla Chiesa, ruoti una galassia di acceso stampo antigiudaico ce lo ricorda ancora l’Espresso quando ci parla di chi pensa nei termini di «giudei cattiva gente», così come anche Ignazio Ingrao in un ampio e molto informato articolo su Panorama. Inutile pascersi del fatto che tali inquietanti figure siano una minoranza nel variegato mondo cattolico. Il problema non è tanto di quantità ma di pervasività del pregiudizio. Ancor meglio: si tratta, oggi più che mai, di una questione di accondiscendenza che l’attuale papato sembra manifestare verso il radicalismo di certi oltranzisti, non sposandone direttamente le tesi, va da sé, ma accogliendole silenziosamente, e in ciò confidando - evidentemente - che il loro manifestarsi non procuri troppo scandalo o turbamento tra i credenti e i laici. Gli uni e gli altri, tuttavia, hanno maturato in questi decenni un percorso troppo corposo per non avvedersi e allarmarsi dei tentativi, quando questi si manifestano, di riportare l’intera «ecclesia» su posizioni regressive, facendo girare l’orologio della storia all’indietro.
Su un altro versante, ancora un’altra storia che si ripete, in questo caso quella del tentato boicottaggio dei prodotti commerciali israeliani che, come un tormentone, ricompare periodicamente. Questa volta si tratta della lettera di 150 soci della Unicoop pisana, di cui ci dà conto Antonio Signorini su il Giornale, che chiedono all’azienda di non commercializzare i beni prodotti in Israele o da imprese che hanno rapporti di affari con Gerusalemme. Al piccolo scandalo provocato da questo pubblico esposto, è seguito il non meno abituale gioco allo scaricabarile, dinanzi all’evidente imbarazzo da molti provato, così come si desume leggendo sempre su il Giornale l’intervista a Aldo Soldi, presidente della Coop nazionale. Anche qui valgono considerazioni non dissimili da quelle avanzate precedentemente, riguardo al sofferto magistero di Benedetto XVI: il problema non è l’allignare di pregiudizi di varia natura (ma tutti orientati in un solo senso, avverso a ciò che ha il sapore di «ebraico»). Si tratta dell’azione di piccole minoranze, che, pur raccogliendo e organizzando diffusi risentimenti, da sole non sono in grado di incidere più di tanto sullo stato delle cose. Il problema, semmai, sta nella gestione che di queste provocazioni viene offerta dalle istituzioni chiamate in causa, in una sorta di richiesta di legittimazione (fai come diciamo noi, altrimenti ti bolliamo come “traditore”) che si tramuta in evidente chiamata di correo. L’atteggiamento silenzioso oppure omissivo delle loro leadership, che nasconde imbarazzi e incertezze, non fa che rafforzare la potenza della provocazione.
Detto questo, e per spostare l’angolo della discussione, che poi i nazisti e i fascisti di sempre la pensino nel medesimo modo (con il cortocircuito che recita: evviva l’Olocausto, ovvero non c’è mai stato ma gli ebrei se lo sono meritato…) non c’è di che stupirsi, leggendo su Repubblica quello che Paolo Berizzi racconta della fanzine di «Cuore nero», circolo associato a Casa Pound.
Israele, il suo futuro, dopo le elezioni prossime venture, è preoccupazione per molti, a dare credito all’articolo di Meron Rapoport e Gigi Riva su l’Espresso, dove si disegnano scenari poco invitanti. Anche a Gerusalemme parrebbe prevalere il principio della “crisi della politica”, ossia della incapacità di progettare il futuro al di là degli scenari del presente, che stringono e costringono leadership piuttosto deboli a programmi di scarso respiro. Più concentrato sulla sola campagna elettorale, e sulle difficili mosse dei protagonisti, è invece il Foglio, quotidiano sempre molto attento a Israele, che comunque reputa essere paese dalla molte risorse politiche e morali. Anna Momigliano su il Riformista denuncia la possibilità di un tracollo della sinistra, che naviga per così dire “a vista” rispetto al futuro responso delle urne mentre Umberto De Giovannangeli su l’Unità intervista Tzipi Livni.
Chiunque vincerà le elezioni del 10 febbraio dovrà senz’altro vedersela con Barack Obama che, come afferma Strobe Talbott, intervistato da l’Espresso sulla politica mediorientale della Casa Bianca, parrebbe intenzionato a imprimere un mutamento d’indirizzo. Vedremo nel qual caso di che natura. Da ultimo, ci sia permesso quasi un amarcord nel rivedere comparire, tra le polveri del passato, monsignor Hilarion Cappucci, il presule che un tempo viaggiava su macchina diplomatica portando con sé carichi d’armi (per poi finire in galera) e che oggi si fa trovare su una nave, la «barca della Fratellanza», diretta a Gaza e fermata dalle autorità israeliane. Ce ne dà resoconto, tra gli altri, Eric Salerno su il Messaggero. Un autentico pellegrino, Cappucci, sempre in movimento. Non è chiaro, però, a quale genere di pace intenda ispirarsi, dati i suoi conclamati precedenti.

Claudio Vercelli 

 
 
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Elezioni israeliane: Lieberman guadagna terreno                          
Tel Aviv, 6 feb -
“Avigdor Lieberman in corsa verso il sorpasso di Kadima” questo il risultato del sondaggio pubblicato dal quotidiano economico Globes che aggiunge “potrebbe anche sperare di vincere le elezioni, se nei prossimi giorni il Likud continuasse a indebolirsi”.
Lo stesso sondaggio vede, per il momento, ancora il Likud in testa con 26 seggi su 120, Kadima 22-23, Israel Beitenu 20-21 e i laburisti 15-16.
La maggior parte degli ultimi sondaggi prevedono Likud e Kadima spalla a spalla e Israel Beitenu ormai saldamente al terzo posto, ciò secondo alcuni opinionisti, e qualora tali sondaggi divenissero realtà alle elezioni, farà aumentare il peso di Lieberman sulla decisione del capo dello stato Shimon Peres di affidare la formazione di un nuovo governo a Netanyahu o alla Livni.
 
 
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