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L'Unione informa
 
    13 febbraio 2009 - 19 Nissan 5768  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
Rabbì Elimelekh di Lisensk diceva: "I Maestri insegnano che tutte le anime degli ebrei erano sotto il monte Sinai ad accogliere la Torà. Eppure  nessuno di noi se lo ricorda con chiarezza. Io ad esempio mi ricordo solo di quelle che mi stavano accanto e mi sorridevano". 
Per avere sempre ragione occorre che qualcuno abbia sempre torto Vittorio Dan Segre,
pensionato
vittorio dan segre  
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  karma kosherEmozioni e delusioni del Karma Kosher
Una generazione alla ricerca di Israele

Sono andato a curiosare alla serata organizzata a Milano dalla Sinistra per Israele per commentare i risultati elettorali delle elezioni alla Knesset e per presentare i libri di due colleghi, Anna Momigliano e Jacopo Tondelli: il recentissimo “Karma Kosher. I giovani israeliani tra guerra, pace, politica e rock'n'roll” e il meno recente “Mitra e kippà. Viaggio nelle viscere di Israele e Palestina”. Tornato a scrivere, mi sono reso conto che una cronaca della serata sarebbe stata quantomai ardua e impietosa. Lasciamo da un canto il comprensibile clima di sperdimento. Lasciamo la nostalgia di una certa Israele, quella legata ai vecchi ideali sionisti socialisti, che sembra ormai relegata alle pagine dei libri di storia. Il problema maggiore è che tutti gli intervenuti soffrivano visibilmente di un senso di scollatura, di separazione fra l'Israele teorico e l'Israele reale.
Il problema maggiore è che non si è riusciti a fare altro se non parlare di Israele come di un problema geopolitico. Così la crisi del Medio Oriente finisce per rivelarsi un'eterna eclissi, capace di condizionare e oscurare ogni decisione, ogni vicenda, ogni slancio, ogni progetto. Ma Israele non è solo un rebus geopolitico. E' la sfida al mondo di un'immensa riserva di energia ebraica. E' la vita quotidiana di gente coraggiosa. E' la creatività, è la ricerca, è una sfrontata democrazia allo stato puro che cerca la sua strada sui terreni più difficili. E' un fiume in piena che scorre controcorrente.
Con i giovani autori stavano alcuni vecchi padri vicini alla sinistra sionista italiana (Gabriele Eschenazi, Giuseppe Franchetti e Janiki Cingoli). L'estenuante aritmetica dei seggi elettorali, i primi timidi tentativi di leggere il fenomeno Lieberman, l'accademia interpretativa sugli esiti della recente operazione militare su Gaza, non sono bastati a rendere la dimensione di un'Israele in pieno divenire. E non reso giustizia ai libri dei due giovani autori. Soprattutto a quello di Anna Momigliano, che ho letto e che mi ha incantato.
Piaccia o meno, il suo è un tentativo di raccontare l'Israele dei giovani (di certi giovani), delle loro speranze e dei loro slanci. Non c'è bisogno di prendere per buone tutte le loro scelte per seguirne, con partecipazione e talvolta affetto, le vicende. Anna lascia vedere una faccia di Israele che non dovremmo perdere di vista. Israele è un laboratorio di idee, di tendenze e di speranze.
Per rendere giustizia a un libro che non farà l'unanimità proprio perché è davvero fuori dall'ordinario, ho chiesto a David Bidussa di raccontarne le ragioni ai lettori del Portale dell'ebraismo italiano.

gv


karma kosher2Cos’è il Karma Kosher? Come sintetizza Stefano Jesurum nella sua prefazione “è il bizzarro fenomeno che decenni dopo i figli dei fiori conquista frotte di giovani e giovanissimi, ex soldati, maschi e femmine, religiosi e no. Librerie dell’occulto, incensi e candele, new age, massaggi, arti marziali, bar esoterici, yoga e filosofia buddista. Per chi non l’avesse capito si chiama scappare a  gambe levate dalla realtà” (p. 8).
E’ un fenomeno profondo, in alcuni momenti sotterraneo, quasi carsico, in altri più consistente, ma che non rappresenta un dato momentaneo.
Sottolinea Stefano Jesurum nella sua prefazione che Il pregio del libro di Anna Momigliano è quello di puntare l’attenzione e su  una generazione israeliana che nessuno vede o che nessuno individua come un termometro, sensibile e significativo, dello stato d’animo di un Paese. E’ quella generazione che si affaccia alla vita pubblica negli anni di Oslo intorno al 1993, che crede nella possibilità della pace e che improvvisamente la mattina del 4 novembre si risveglia e si ritrova proiettata in un presente che assomiglia troppo a un passato verso cui non avrebbe mai voluto tornare e che, soprattutto, considera una disgrazia.
Cominciamo dalla fine. Chi è questa generazione? E’ presto detto è la generazione che nel 2006 rientra in Libano e si trova a ritornare sui passi dei propri padri  - quella generazione che con difficoltà è uscita dell’incubo del Libano 1982 (quell’incubo che Ari Folman ha messo a tema nei disegni e nel montaggio di Valzer con Bashir) – e, contemporaneamente, a confrontarsi con la generazione dei fratelli maggiori o dei cugini che dal Libano aveva pensato di uscire definitivamente nell’estate 1999.
Questa generazione ha il senso del tempo sprecato, della inutilità del proprio agire. Intendiamoci. Non è una generazione che va via. Ancora alcune cose danno il senso dell’appartenenza, di sentirsi parte di una comunità e per quanto possa apparire paradossale agli occhi di coloro che da lontano guardano la società israeliana il momento della scelta per l’esercito risulta ancora un a parte strutturale. Ma questo poi non consente di valutare e di vivere il proprio futuro. E così una parte rilevante, minoritaria, terminati i tre anni, va via, scappa per un tempo medio-lungo, verso Goa, si perde verso Oriente, nel tentativo in parte di ritrovarsi e in parte di smarrirsi o di  dimenticare.
Un fenomeno che si ripercuote nel tempo lungo. Perché se il fenomeno del rifiuto e della renitenza non agisce alla chiamata alle armi, si diffonde, pur rimanendo un dato di minoranza, tra i riservisti.
Molte cose motivano sia la fuga verso Goa che il crescente fenomeno dei “refuznikim”.
Il Libano è solo una parte del ragionamento. Accanto cresce il timore di non essere più in qualche storia, ma anche il fatto di non riconoscersi più né nella dimensione eroizzata del proprio presente, né nella dimensione etica di cui è carica la forza letteraria dei tre “tenori” della letteratura (Oz, Yehoshua, Grossman). E’ così che la tendenza è quella di riconoscersi nella letteratura minimalista di Gabi Nitzan o di Etgar Keret.
Il segnale più evidente sta nel lento rinchiudersi dentro la bolla di Tel Aviv. E’ l’ottobre 2000. Nel giro di 40 km si consuma la crisi politica complessiva di Israele: da una parte il linciaggio dei due soldati israeliani a Ramallah (una scena che ricorda da vicino la violenza che Giovanni Verga descrive nella novella La libertà e che Wolfgang Sofsky ha descritto nel suo saggio L’arma della profanazione, ora ricompreso nella sua raccolta Il paradiso delle crudeltà, Einaudi, 2001, pp. 105-108), dall’altra una città, Tel Aviv, che si rinchiude sempre più nella sua bolla.
“La sensazione generale che si respira in quel periodo – scrive Anna Momigliano – è ben descritta da una copertina di ‘Achbar Ha-Ir’: un ragazzo dal look trasandato e dall’aria abbastanza rilassata, l’icona del telavivi sotto i trenta, se ne sta comodamente sdraiato sul divano del suo salotto a leggere un libro, lo stereo nelle orecchie e una tazza di tè sul tavolo, mentre un gatto gioca tranquillo sul tappeto e mentre dalla televisione una giornalista spiega come utilizzare una maschera antigas” (pp. 100-101).
Poi di nuovo la scena del Libano 2006 riporta tutti in una dimensione di realtà conflittuale e anche cupa. Ci sono strani segnali in quella guerra: spettatori che dalle due parti si parlano attraverso la rete e dove ognuno descrive all’altro ciò che sta accadendo, i cannoneggiamenti che subisce (in Libano Sud) e i missili che riceve in testa (in Galilea, intorno a Tz’fat, per esempio). Ma l’improvvisa rottura di questo muro non apre margini oltre un dialogo che è solo nello scambio di parole, ma non nell’ascolto. La sensazione è quella di una solitudine sempre più profonda che non lascia intravedere un futuro possibile o almeno perseguibile. E in questa condizione quella che talora può apparire una dismissione dalla realtà si traduce anche nella condizione di vivere l’angoscia di una realtà che risulta non governabile. Una condizione che da lontano può apparire ribelle e di dismissione, ma che poi nel gorgo della quotidianità produce ansie, paure, richiesta di una politica forte. Tutti gli ingredienti di una politica che non cede.
E’ una conclusione amara quella che indica Anna Momigliano, ma vale la pena di discuterla e di prenderla sul serio. E che da martedì sera scorso non è una fotografia astratta della condizione umana di un Paese. Anche per questo vale la pena leggere questo viaggio, apparentemente leggero, in realtà molto interno, alle storie umane e emozionali di una generazione ancora in cerca di sé stessa.


David Bidussa

Anna Momigliano, Karma Kosher. I giovani israeliani tra guerra, pace, politica e rock’n’roll”, Marsilio, 2009, 172 p., € 13,00.
 
 
 
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  israelLa nostra identità: né vigili né termometri

Circa una settimana fa Paolo Lepri ha scritto un ottimo articolo sul  Corriere della Sera dal titolo «La sinistra da Arafat ad Hamas e la  causa che non esiste più». La causa che ha «cessato di esistere» come  «grande causa di liberazione nazionale» è quella palestinese. In un  ventennio è cambiato tutto, sono cambiati gli obbiettivi ed è  «cambiata la percezione del nemico, che è diventato un nemico  religioso, non solo politico». È proprio Hamas che non vuole la  soluzione "due popoli, due stati" e mira a liberare tutta la terra  "sacra" per l'Islam dalla presenza degli infedeli. Perciò oggi si  riesce a parlare soltanto di soluzioni provvisorie, di tregue, di  accordi pragmatici e non più di una soluzione complessiva che risolva  degnamente due questioni nazionali. Del resto, la posizione di  Hezbollah è del tutto analoga a quella di Hamas.
Tuttavia - osserva Lepri - per anni la sinistra italiana non se ne è  accorta e ha preferito continuare a parlare lo stesso linguaggio di un  tempo. E, va aggiunto, continua a farlo, non rendendosi conto che, di  fronte ai mutamenti avvenuti, se poteva avere un senso (e ne aveva  poco) una certa divisione manichea tra oppressi e oppressori, oggi, e  nel contesto di conflitti come questo, non ne ha alcuno. Lepri ricorda  una frase di don Milani nella Lettera ai cappellani militari (1965): «Reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia  patria, gli altri i miei stranieri». Una frase che, riletta oggi,  appare terribile e violenta nella suo semplicistico radicalismo. Perché i palestinesi di Cisgiordania sono certamente vittime, ma anche  della classe dirigente corrotta di Fatah, quelli di Gaza sono  soprattutto vittime di Hamas, del suo radicalismo integralista e del  suo uso delle persone come "sacchetti di sabbia" (Amos Oz), ma anche i  cittadini di Sderot e tutti gli israeliani che vogliono vivere in pace  sono vittime. Non è così semplice tracciare i confini della "patria".
Eppure c'è chi continua a vivere di questi manicheismi fanatici. Anche  tra gli ebrei. Leggevo una dichiarazione secondo cui gli ebrei  sarebbero il "termometro" dell'intolleranza, e un'altra secondo cui  sarebbero i guardiani della democrazia. Che tristezza, che squallore  ridurre l'identità ebraica a quella di un termometro o di un vigile  urbano, entrambi strumenti per delimitare i confini della "patria". Uno squallore che degenera nel ridicolo quando si constata che chi  parla così è un termometro rotto o fasullo e la sua divisa di vigile  urbano è una maschera di carnevale.

Giorgio Israel, storico della scienza
 
 
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«La Shoah è un crimine contro Dio stesso». Sono queste alcune tra le parole usate da Joseph Ratzinger nell'incontro tenutosi in Vaticano con gli esponenti delle più importanti organizzazioni ebraiche americane. Il testo integrale dell'intervento è pubblicato su l'Avvenire. Ne parlano un po' tutte i quotidiani nazionali e nel dovere segnalare la notizia c'è per il commentatore della rassegna stampa solo l'imbarazzo della scelta. Così Gianni Santamaria ancora su l'Avvenire (che, neanche a dirlo, fa la parte del leone tra le testate impegnate nell'informazione su questo studiata e sofferta presa di posizione), Andrea Tornelli su il Giornale, Francesca Nunberg su il Messaggero, Gian Guido Vecchi su il Corriere della Sera, Alessandro Speciale su Liberazione, Marco Politi su la Repubblica, Giacomo Galeazzi su la Stampa.

Di mezzo c'è anche il viaggio che il Pontefice farà in Israele nel mese di maggio, così come ci ricordano Carla Frogheri su Epolis, Paolo Rodari su il Riformista e Rodolfo Lorenzoni per il Tempo. Se la soddisfazione è comune le sfumature nel plauso sono assai più accentuate di quanto non possa sembrare a prima vista. Se ne prendano due, come manifestazione di approcci tra di loro al limite dell'antiteticità. Sul versante cattolico c'è chi come Giuseppe Anzani, sulle pagine de l'Avvenire, celebra l'apologia di un Papa che «è in cima alla schiera di chi piange questo esecrabile mistero del male», stabilendo ancora una volta una sorta di primato, quello pontificio, nella definizione delle gerarchie etico-morali, fatto senz'altro accettabile per un credente fedele al dettato ecclesiale corrente ma assai meno plausibile per chi tale non è o non vuole esserlo. Tanto più quando la qual cosa si può trasformare in una sorta di primazia e monopolio del giudizio sulla sofferenza altrui. Diverso è invece il caso di chi, come Elie Wiesel, intervistato da Alessandra Farkas per il Corriere della Sera e da Andrea Tarquini per la Repubblica chiede, senza in fondo pretendere alcunché di irragionevole o eccedente il suo proprio ruolo, fatti significativi da far seguire alla politica delle parole. Uno di questi, a detta del Nobel per la pace, sarebbe la rinnovata scomunica di Williamson, il vescovo dichiaratamente e recidivamente negazionista, a sancire la sua incompatibilità – questa sì morale, oltre che "politica" – con il pontificato di Benedetto XVI. A questo punto delle cose l'atteggiamento nei confronti di tale prelato non è più affare interno al Vaticano ma problema strategico nelle relazioni interconfessionali e comunitarie, chiamando in causa il modo in cui la Santa Sede intende concepire e rielaborare i rapporti con i non cattolici, a partire dagli ebrei per passare attraverso tutti gli altrui gruppi, confessionali o non che siano. I rapporti con i primi diventano indice della natura dei legami con coloro, e sono la maggioranza della popolazione mondiale, che sono laici, non credenti o credenti ma in un'altra religione. Negare la Shoah, quindi, non è una questione che demandi al giudizio sul passato bensì all'atteggiamento verso il futuro. Se la Chiesa, ragiona Wiesel, intende essere coerente con l'impostazione di fraterna condivisione con i non cattolici, atteggiamento che ha informato gli ultimi quarant'anni della sua esistenza, deve comportarsi di conseguenza. Si tratta di un obbligo verso se stessa, prima ancora che nei riguardi di ciò che le è esterno. Tommaso Di Francesco, su il Manifesto, ci mostra poi come l'equivocità di certi atteggiamenti, e delle superficiali letture che ne possono seguire, alimenti lo spirito di fazione. Ad un certo punto del suo articolo, ricorrendo al mantra dell'Islam politico, contesta al Papa il "bel gesto" commentando che «c'è il rischio che, ancora una volta, il suggello per sanare le ferite che riguardano le responsabilità e complicità storiche della Chiesa verso gli ebrei […] sia proprio il tacere la questione islamica e, soprattutto, quella palestinese. Proprio mentre in Israele avanza l'estrema destra razzista». In cosa debba consistere tale «questione islamica» non c'è dato saperlo ma senz'altro l'accostamento tra l'ombra del passato nazista e il presente d'Israele è qualcosa di più di un occasionale e gratuito esercizio. Ovvero, a lasciare neanche troppo implicitamente intendere dell'intercambiabilità del ruolo tra carnefici e vittime.

La vicenda delle frizioni ingenerate dalla malaccorta gestione del ritorno in seno all'alveo della Chiesa del gruppo scismatico dei seguaci di monsignor Lefebvre, comunque a tutt'oggi ben lontani , dal volere recepire il dettato ecumenico conciliare, dovrebbe quindi insegnare molte cose poiché, e non lo si vuole affermare per reiterato gusto di polemica, non solo le ferite non sono destinate a sanarsi troppo facilmente ma è plausibile – anche se non auspicabile, va da sé – che altre tensioni potrebbero innescarsi con chi dell'antigiudaismo ha fatto professione di fede. I lefebvriani parlano di «complotto», termine che ben si confà al loro linguaggio e alla formae mentis su cui si basa la precettistica  culturale che gli è propria. Ne dà resoconto, al riguardo, il Tempo. Fa riflettere il basso profilo tenuto dalla Santa Sede in queste settimane e fa pensare il fatto che un fattore rilevante nel succedersi delle dichiarazioni, alle quali si aggiunge l'autorevole presa di posizione di Benedetto XVI di ieri, siano anche conseguenza della netta presa di posizione dell'episcopato tedesco e della cancelliera Angela Merkel. Si leggano, al riguardo, le considerazioni di Gennaro Acquaviva su il Messaggero, di Marion Van Renterghem su le Monde, di Adriano Prosperi su la Repubblica ma anche le morigerate e sagge parole di Riccardo Di Segni su il Tempo.

Quanto ad Israele, chiuse le urne, dinanzi al risultato elettorale e alla geografia politica che si è andata affermando, ovvero al rebus su chi sarà il futuro Premier, si esercitano, tra gli altri, Barbara Uglietti sul'Avvenire, Alberto Stabile su la Repubblica, Francesco Battistini su il Corriere della Sera, Gian Micalessin su il Giornale, Aldo Baquis su la Stampa, Mario Arpino su Liberal, Pierre Chiaratano su Liberal, Ugo Traballi per il Sole 24 Ore, Stefania Podda su Liberazione con una intervista, sulla medesima testata, a Danny Ayalon, neo-deputato di Israel Beitenu. Molte sono le domande sulla figura di Avigdor Lieberman, astro già emerso del firmamento politico israeliano, destinato con tutta probabilità a fare la parte di ago della bilancia nella nuova Knesseth, così come ne parla Eric Salerno su il Messaggero. Ci torneremo, i lettori non ne dubitino, poiché Lieberman ha fatto della mobilità politica, intesa come versatilità nell'adesione alle possibili coalizioni di governo, e nella dirompenza della proposta ideologica, di chiaro segno populista, la sua forza di seduzione verso l'elettorato israeliano. A sinistra, invece, le rese dei conti si fanno inevitabili dinanzi alla sconfitta, in parte prevista ma non per questo meno dolorosa. Ce ne parlano Davide Frattini su il Corriere della Sera, Umberto De Giovannangeli su l'Unità ma anche Tom Segev, il noto pubblicista e storico, intervistato da Anna Somigliano per il Riformista. Un altro argomento su cui senz'altro avremo modo di tornare sono le "balle di guerra" che volano del pari alle pallottole, così come ce ne parla Fausto Biroslavo su Panorama, riguardo a quanto si è da poco consumato a Gaza.

In chiusura segnaliamo il colloquio-intervista di Michael Naumann a Philip Roth pubblicato su l'Espresso. Il grande scrittore, una delle coscienze critiche dell'America contemporanea, fa un piccolo ritratto di sé, degli ebrei statunitensi ma anche dei rapporti, non facili, tra un autore e la sua scrittura.

 
Claudio Vercelli

 
 
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Tel Aviv: secondo il sito "Yalla Kadima" la Livni guiderebbe l'opposizione
Tel Aviv, 13 feb -
Secondo il sito web degli attivisti di Kadima, Tzipi Livni ha deciso che nella prossima legislatura guiderà l'opposizione e si accinge a darne annuncio domenica, durante una prima riunione della lista parlamentare di Kadima. 'Yalla-Kadima',(questo il nome del sito,afferma che l'attuale ministro degli esteri teme che entrando in posizione subalterna in un governo guidato dal Likud di Benyamin Netanyahu "andrebbe perduta la fisionomia morale da lei presentata agli elettori". Il passaggio all'opposizione sembra essere ormai per lei "l'unica via onorevole", argomenta l'editorialista. Questa scelta, secondo la radio militare, è tuttavia aspramente contestata da due dirigenti di Kadima, Shaul Mofaz e Zeev Boim, ed il confronto nel partito è ancora in corso. 'Yalla-Kadima' aggiunge che l'unica formula che convincerebbe la Livni a non passare all'opposizione sarebbe quella di un governo tripartito Likud-Kadima-Israel Beitenu (il partito di Avigdor Lieberman), diretto in alternanza da lei stessa e da Benyamin Netanyahu.
Secondo il quotidiano Maariv, invece, sono in corso contatti riservati per costituire un governo composto da tre dei maggiori partiti israeliani (Likud, Kadima e laburisti), guidato da Benyamin Netanyahu.Il giornale ha appreso che si tratterebbe di un governo a termine, incaricato essenzialmente di varare una riforma del sistema elettorale che garantisca in futuro una maggiore stabilità istituzionale. Kadima riceverebbe due ministeri chiave (esteri e difesa) e una rappresentanza eguale a quella del Likud
nel Consiglio di difesa del governo. 
 
 
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