se non visualizzi correttamente questo messaggio, fai  click qui  
 
  logo  
L'Unione informa
 
    18 febbraio 2009 - 24 Shevat 5769  
alef/tav   davar   pilpul   rassegna stampa   notizieflash  
 
Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  alfonso arbib Alfonso Arbib,
rabbino capo
di Milano
Nel momento del Matàn Torà Dio scende sul monte Sinai. Questa discesa di Dio sulla terra pone una serie di problemi teologico-filosofici che non affronteremo, ma ha un aspetto educativo stranamente importante. Per poter educare qualcuno è necessario scendere verso di lui, non lo si può fare dall'alto. Il versetto biblico paragona il rapporto con gli altri a un uomo che si specchia nell'acqua. Devo riuscire a vedere l'altro come un'immagine di me stesso. Un grande maestro del chassidismo, Rabbi S. Bunem si chiede perché il testo usi la metafora dell'acqua e non semplicemente quella dello specchio. Risponde che per specchiarsi normalmente si sta in piedi mentre per vedere il proprio volto riflesso nell'acqua è necessario piegarsi.
Il mondo dello sport offre spesso metafore utili a farci comprendere fenomeni più complessi. Un famoso incontro di ping-pong segnò anni fa l'inizio del disgelo nei rapporti fra gli Stati Uniti e la Cina. Ora invece è il tennis a darci un esempio di gelo. Dubai – un piccolo e ambizioso emirato emergente nella Penisola arabica, noto in passato con il nome di Costa dei Pirati – impedisce l'accesso a un suo torneo alla tennista israeliana Shahar Pe’er, n. 44 nel mondo, come ritorsione alla recente operazione militare a Gaza. Potremmo ignorare la competizione tutto sommato secondaria alla quale l'atleta ventiduenne si era iscritta pur essendo alquanto fuori forma. Pensiamo invece al ruolo di Dubai nell'attuale grande crisi finanziaria negli Stati Uniti e il mondo. Dubai è stato fra i Paesi che con la loro liquidità monetaria accumulata estraendo altri liquidi energetici hanno contribuito a salvare alcune delle maggiori banche e attività industriali americane. In Europa, neanche tanto in sordina, avviene quotidianamente lo stesso. Gli investimenti di capitale vengono normalmente compensati con la presenza nei consigli di amministrazione. Da qui, alla proprietà di molti organi di informazione stampata e elettronica e alla determinazione significativa dei loro contenuti. Da cui una notevole influenza sull’orientamento dell’opinione pubblica, sulla vita sociale, culturale e politica. L'esclusione di Shahar Pe’er e la strategia del ping-pong alla rovescia che infrange, e non per la prima volta da parte di un paese islamico, la non contaminazione dello sport con la politica, è un ulteriore piccolo pedaggio che la società civile occidentale è chiamata a pagare, indirettamente, all'Islam politico. Ma forse qualcuno vorrà protestare in nome dei valori dello sport che l'Occidente dice di amare. Chi scaglierà la prima pietra? Sergio
Della Pergola,
demografo Università Ebraica di Gerusalemme
sergio della pergola  
  torna su
davar    
 
  militari rastrellati Quei militari italiani internati nei campi
Domani il confronto al Vittoriano

Le deportazioni dei politici e dei militari è il titolo della tavola rotonda che si terrà a Roma domani, 19 febbraio, alle 18 al Vittoriano. Ultimo fra gli eventi promossi in occasione della mostra 1938 Leggi Razziali Una tragedia italiana, aperta fino al 22 febbraio, la tavola rotonda vedrà la partecipazione del sottosegretario alla Difesa Giuseppe Cossiga e di Gianfranco Maris presidente dell'Aned (Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti). Fra i relatori anche gli storici Anna Maria Casavola, Anna Foa, Brunelllo Mantelli e Piero Melograni. Coordinerà la tavola rotonda Anselmo Calò, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. La tavola rotonda ha lo scopo di approfondire le vicende storiche che, dopo l'8 settembre 1943, portarono alla cattura all'internamento ed al massacro di centinaia di migliaia di soldati e politici italiani nei campi nazisti.


Un'altra resistenza

L’altra Resistenza, dice il titolo di un celebre libro di Alessandro Natta. Di Resistenze - anche di formazione molto diversa, pur nella comune lotta contro il fascismo e soprattutto contro l'occupatore nazista - ce ne furono, come si sa, molte. Quella di Giustizia e Libertà, quella repubblicana, socialista, cattolica, monarchica, comunista; quest'ultima la più rilevante e organizzata, quella che ha dato il maggior contributo di sangue e che si è pure resa più colpevole di criminose violenze eccedenti la terribile logica della Guerra civile.

Come è noto, le divergenze politiche all'interno della Resistenza portarono, specie ai confini orientali d'Italia, anche a scontri sanguinosi e a delitti fratricidi, quali ad esempio l'eccidio di Malga Porzús. I resistenti al fascismo e soprattutto al nazismo - e le vittime - furono diversi non solo quanto a posizione politica, ma anche per appartenenza etnica, come soprattutto gli ebrei o gli zingari, e per quel che riguarda l'estrazione sociale.

Una di queste categorie di deportati, di resistenti al Leviatano nazista, di cui certo si parla (è stata di recente ricordata e onorata dal presidente Napolitano, col suo forte senso dell'Italia) ma di cui in genere non si parla abbastanza, col rilievo che essa merita, è quella dei militari italiani, massacrati (come a Cefalonia) o catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre - in seguito a quel pauroso sbandamento e talora pure all'ignavia di alcuni loro comandanti - e deportati in Germania o trattenuti nei Balcani; rispettivamente circa 550.000 e 100.000, come riporta una recente pubblicazione di Nicolino de Roberto.

Qualificati dai nazisti come «internati» e privati dunque dei diritti riconosciuti, secondo le convenzioni internazionali, ai «prigionieri di guerra », questi militari, soldati e ufficiali, rifiutarono, in stragrande maggioranza, di aderire al nazismo e alla Repubblica di Salò sua alleata, scegliendo così il Lager e durissime condizioni di sofferenza e di umiliazione. Questa loro scelta è stata tanto più difficile e meritoria in quanto non era facile - specialmente per chi non era ideologicamente inquadrato in una formazione politica - capire, nella confusione e nel caos dell' Italia spaccata in due, quale fosse veramente l'Italia.

Vanno parimenti ricordati quei militari che, prigionieri degli inglesi o degli americani, rinunciarono alla libertà per non aderire all'Italia badogliana, spinti da un senso di onore comprensibilmente rafforzato dall'incertezza della situazione e dalla fellonia del re fuggiasco. L'internato militare in un Lager Tedesco era solo, dinanzi ai suoi oppressori e alla sua scelta; solo con la sua coscienza e il suo sentimento, perlopiù senza il sostegno morale e psicologico di una appartenenza politica, che aiuta a scegliere e a combattere, come l'appartenenza a un reggimento in una battaglia.

Quella scelta, essi l'hanno fatta per amore dell'Italia e per un senso profondo dell'onore, oltre che per l'intelligenza che ha fatto loro capire da che parte stava l'umanità. Anch'essi sono protagonisti di quel riscatto della patria e della libertà da cui è nata l'Italia democratica, con la sua Costituzione che oggi si vuole non correggere o aggiornare, bensì distruggere nei suoi fondamenti, che rappresentano la base della nostra vita civile.

E' sconcertante che questa sovversione provenga da chi governa il Paese fondato sulla Costituzione. Oggi quegli ex internati non rappresentano una forza politica né un movimento ideologico e tanto meno una riserva di voti. Forse per questo non siamo loro grati come dovremmo; questi giorni dedicati alla memoria sono una buona occasione per ricordarci a fondo anche di loro.

Claudio Magris, Corriere della Sera, 16 febbraio 2009

 
 
  torna su
pilpul    
 
  ugo volliIl caso Lieberman, l'uso delle parole
e la legge di Humpty Dumpty

La linguistica ci insegna che sul lungo periodo il significato delle parole fluttua assai liberamente: per fare solo un esempio, l’inglese “nice”, carino, viene dal latino “nesciens”, ignorante. Ma sui tempi corti del dibattito politico e culturale è importante non lasciare che i significati delle parole si perdano nella confusione. Prendiamo un paio di vocaboli molto importanti per la memoria storica dell’ebraismo italiano, come “fascista” e “razzista”. Fascista è, per il dizionario di De Mauro “seguace, sostenitore del fascismo o dei movimenti di estrema destra che a esso più o meno dichiaratamente si richiamano: un convinto fascista, un picchiatore” e estensivamente ”chi si comporta in modo autoritario, reazionario e antidemocratico, o impone le proprie convinzioni con violenza brutale”. Lasciamo stare chi, da Toni Negri fino a un pezzo del Partito democratico, dice che l’attuale governo italiano porta il paese sull’orlo del fascismo. Il semplice fatto che possano dirlo indisturbati mostra che è una sciocchezza, ma non è questo ciò che ci importa.

Chiediamoci invece perché la parola fascista venga associata al leader di Yisrael Beitenu Liberman: non solo dal Manifesto o da Repubblica, ma anche di recente, fra virgolette, dal sito del Corriere (e da un bel po’ di articolisti di Haaretz…). Liberman è dunque “un picchiatore”? Un fan di Mussolini? Ha ottenuto i voti con la violenza? Difficile sostenerlo. E allora? Perché chiamarlo “fascista”? Si sa che vuole che nasca uno Stato palestinese ma a patto di uno scambio di territori (una parte del West Bank contro il pezzo più arabo della Galilea) per garantire l’equilibrio demografico. Scambi del genere sono stati contrattati diverse volte fra stati e non c’entrano nulla con la pulizia etnica. Inoltre Yisrael Beitenu vuole sanzionare coloro che rifiutano un giuramento di fedeltà allo Stato di Israele (non sarebbero solo gli arabi estremisti, ma anche un po’ di haredim antisionisti). E’ fascista questo? In Spagna sono stati sciolti i partiti che rifiutavano fedeltà alla costituzione sostenendo il terrorismo basco, come Batasuna. Fascista anche Zapatero? In Germania dal 1972 vige il “Berufsverbot”: divieto di impiego pubblico per chi aderisce a movimenti anticostituzionali. Fascisti anche loro? E fascisti anche gli Usa, che per darvi il visto vi continuano a chiedere se aderite a movimenti estremisti.

Qualche volta a proposito di Liberman si usa invece la parola “razzista”. Citiamo ancora De Mauro: “ chi professa teorie razzistiche; che, chi sostiene la superiorità di una o più razze, legittimando o attuando una politica di discriminazione e persecuzione. Estensivamente, che, chi ha un atteggiamento di intolleranza nei confronti di persone diverse per razza, cultura, posizione sociale, religione o provenienza geografica.”

Razzista, o addirittura razziale è stato definito da Famiglia cristiana (con l’appoggio di Veltroni) la legge che permette ai medici di denunciare gli immigrati clandestini. Qui dobbiamo entrare più nel merito, perché i razzisti di solito ce l’hanno soprattutto con noi. Ammesso che ci sia una cosa come le razze, i clandestini non appartengono a una in particolare: possono essere ucraini come marocchini. Clandestino è una posizione giuridica, per definizione mutabile, non un marchio che riguarda ciò che si è, l’origine etnica, che era presa di mira dalle leggi razziali. E allora, anche se volessimo dissentire dalla legge, come è certamente lecito, possiamo noi accettare che essa sia definita razziale? Che opinionisti risolutamente antisraeliani predichino il ritorno al 1938, con nuove persecuzioni “razziali” ai danni dei clandestini (prima erano gli zingari) “i nuovi ebrei”? Magari quegli stessi come Famiglia cristiana e il Manifesto, che implicitamente danno del nazista all’esercito israeliano ed esplicitamente del razzista a Liberman?

E a proposito che ha fatto di razzista Lieberman? Chiedere lealtà allo Stato (a uno Stato in guerra) è razzismo? E allora come la mettiamo col reato di “alto tradimento” che si trova nei codici di moltissimi paesi (inclusa l’Italia)? I palestinesi (anche Abu Mazen, non solo Hamas) possono tranquillamente ammazzare i “collaborazionisti” e invece Israele non deve colpire neanche con sanzioni amministrative come la perdita della cittadinanza chi appoggia Hamas, se no è fascista e razzista? Bisogna tenere a posto le parole, non consentire alla retorica di stravolgerne il senso. Quelli che accusano Israele di comportarsi a Gaza “come i nazisti” (sono tanti, dal Cardinal Martino in giù, molti sono ebrei) mi sembrano peggiori dei negazionisti alla Williamson. Perché invece di cercare solo di sottrarci la memoria, che sappiamo conservare, cercano di confonderla, infangando noi. Difendiamo le parole che descrivono la nostra esperienza storica, non lasciamo senza risposta chi sfrutta la nostra memoria per battaglie politiche più o meno giuste, spesso mirate contro di il popolo ebraico di oggi.

Post scriptum: A proposito di fascismo e razzismo, sapete come si chiama quell’uomo politico mediorientale che si è laureato con una tesi negazionista, che si vanta di aver personalmente sparato contro i propri nemici e che governa illegalmente con la forza, pur avendo terminato il proprio mandato? Non è un deputato della Knesset, di mestiere fa il presidente dell’Autorità Palestinese e si fa chiamare Abu Mazen. Qualcuno oserebbe dargli del fascista, anche fra noi? Eppure secondo il De Mauro, ci starebbe… Questo ciò di cui parla Lewis Carroll: «Quando io uso una parola», proclamava Humpty Dumpty, «questa significa quello che decido io, né più né meno». I marxisti lo chiamano egemonia. Il potere sulle parole è oggi in mano ai nemici di Israele.

Ugo Volli, semiologo
 
 
 
  torna su
rassegna stampa    
 
 
leggi la rassegna
 
 

Il difficile rapporto Chiesa-Ebrei continua a stimolare la riflessione e la discussione sui giornali. Oggi, su La Stampa, troviamo l’analisi positiva di Arrigo Levi. Riconciliazione è la parola chiave del suo commento. Dalla sua lettura dell’incontro tra Benedetto XVI e i rappresentanti dell’ebraismo americano emerge il superamento di tutti i problemi: la correzione di un “passo falso” (cioè la ferma condanna della Shoah dopo la discutibile riabilitazione del lefebvriano negazionista Williamson) può essere “particolarmente illuminante”. E così la prossima visita del pontefice in Israele confermerà che ormai ogni malinteso è stato superato, che Ratzinger è autentico erede della linea di apertura e di dialogo del Concilio Vaticano II già seguita da Giovanni Paolo II. Ma con tutta la stima possibile per il grande giornalista e l’acuto osservatore, con tutta la condivisione umana verso l’intellettuale ebreo personalmente coinvolto – come tutti noi ebrei – dalla gravità dell’attuale frattura, siamo proprio convinti che tutte le incomprensioni e le differenze di atteggiamento siano davvero risolte? I dubbi e le perplessità restano. Intanto, i vescovi riabilitati che continuano a sostenere – anche al di là dalle posizioni negazioniste di alcuni – la chiusura e l’ostilità teologica verso l’ebraismo sono di fatto tornati regolarmente nel seno della Chiesa. Intanto, la ripristinata preghiera “pro Judeis” del Venerdì santo continua ad auspicare la conversione degli ebrei, anche se lo fa sul piano escatologico della volontà divina e non su quello del conversionismo militante: un terreno di comodo compromesso, che però elude il coraggio necessario a portarsi sulla strada di un autentico incontro tra “diversi” destinati a rimanere tali.
Ma bisogna rassegnarsi alla posizione invariabilmente dominante della Chiesa, soprattutto in Italia. Ci induce a questa riflessione anche l’articolo di fondo dell’Avvenire, dedicato da Carlo Cardia al venticinquesimo anniversario dell’attuale Concordato, siglato proprio il 18 febbraio 1984. Certo, l’autore ha ragione quando ricorda l’importanza di un accordo che pone al centro il diritto e la promozione dell’uomo cercando di sfuggire alla logica del privilegio; quando sottolinea l’incontro, nei suoi articoli, della Costituzione Italiana e dei valori del Concilio Vaticano II; quando rivendica a questo testo guida una qualche primogenitura nella strategia delle Intese, che già permeava la nostra Carta e che dopo pochi anni si è effettivamente avviata (Tavola Valdese, UCEI). Eppure è la logica concordataria in sé (a cui il documento dell’epoca craxiana non può evidentemente sfuggire) a confermare il “carattere particolare” (cioè, di fatto, privilegiato) del legame tra Stato italiano e  Chiesa cattolica e quindi, paradossalmente, a contraddire il pluralismo religioso promosso invece dalla logica  Intese. Una logica apparentemente analoga; in realtà diversa, perché non basata su accordi “preferenziali” con una parte più forte.
Sul ruolo dello Stato, della Chiesa, delle minoranze religiose si sofferma anche una rapida intervista dell’Unità alla Moderatrice della Tavola Valdese Maria Bonafede. L’occasione è un altro anniversario, quello delle Regie Patenti che il 17 febbraio 1848 concessero – auspice Carlo Alberto quindici giorni prima dello Statuto – la parità di diritti ai valdesi dello Stato sabaudo, atto a cui seguì, dopo pochi mesi, l’emancipazione degli ebrei. La pastora pone significativamente l’accento sulla deprecabile interruzione del processo delle Intese (diverse le confessioni religiose ancora prive di questo fondamentale accordo) in una società sempre più multiculturale e multireligiosa, sul rischio sempre più tangibile che la laicità corre di fronte all’esclusivismo della Chiesa (vicenda Eluana docet), ma anche sul pericolo di considerare la vita una questione puramente biologica e non anche biografica.

Altra importante pagina sui giornali di stamattina è, come sempre, quella mediorientale. Innanzitutto la notizia del giorno. Sarebbe in corso da anni e avrebbe già fatto vittime importanti un’operazione del Mossad volta a eliminare i cervelli della corsa iraniana all’atomica e a impedire i rifornimenti al progetto di arricchimento dell’uranio. Ce ne parlano, con toni da spy-story, Umberto De Giovannangeli su l’Unità, Alberto Stabile su Repubblica, Gian Micalessin sul Giornale, tutti sulla base delle notizie riportate dal Daily Telegraph.
Sul fronte della politica, Peres inizia oggi i colloqui che porteranno all’assegnazione dell’incarico per la formazione del nuovo governo israeliano. Interessante, in proposito, l’anonima analisi del Foglio, che prende in esame le varie combinazioni possibili, tutte in realtà problematiche. L’ago della bilancia appare Lieberman, che non vuole essere sommerso da un accordo con Netanyahu ma che pone anche seri problemi di identità e di alleanze a Tzipi Livni (con Israel Beitenu dentro il governo, Avodà e Meretz ne resterebbero fuori). L’unica soluzione appare, forse allo stesso Presidente, un governo di unità nazionale coi tre partiti oggi prevalenti (Kadima, Likud, Israel Beitenu) e con l’eventuale appoggio dei laburisti. Una soluzione possibile per imboccare in modo unitario e forte la strada della trattativa coi palestinesi. Ma sarebbe davvero un esecutivo più forte? O sarebbe semplicemente una coalizione sulla carta, bloccata in realtà dai veti reciproci?
Intanto Hamas e Fatah tornano a parlarsi. Lo faranno nei prossimi giorni al Cairo, in vista di una riunificazione, di un governo comune, del controllo condiviso di Gaza e soprattutto – auspicabilmente – di una ripresa delle trattative con Israele. Trattative che sarebbero tanto più autentiche perché condotte da un partner palestinese riunificato e dunque credibile. Ce ne riferisce Francesco Battistini sul Corriere della sera. Ma, anche qui, possono essere davvero incontri credibili, questi tra due fazioni palestinesi ancora acerrime nemiche? E, soprattutto, Hamas può essere partner credibile per chicchessia? E potrà mai esserlo in vista di accordi con il nemico sionista? Coltivare un sommo scetticismo appare la via obbligata.
Tanto più quando l’atteggiamento prevalente praticato nei confronti di Fatah continua a essere quello della violenza. Sul Foglio Carlo Panella, giustamente indignato, denuncia il silenzio con cui i mass media hanno accolto le rivelazioni di Amnesty International sulle violenze perpetrate dagli uomini di Hamas ai danni dei “fratelli” legati ad Abu Mazen: atti feroci che sono stati compiuti prima, durante e anche dopo la guerra di Gaza, cioè ancora adesso. Ci sono evidentemente le violenze da dilatare, quelle israeliane, anche se magari sono favorite dal contesto stesso del conflitto. E poi ci sono le violenze da tacitare, quelle di Hamas, anche se sono deliberatamente e crudelmente portate contro connazionali imprigionati o malati.
Ma di che stupirsi? E’ lo stesso clima fanatico, autoesaltatorio e autoassolutorio che verosimilmente infiammerà il cosiddetto “Durban II”, lo pseudo-vertice sugli pseudo-diritti umani che sarà inscenato tra qualche mese a Ginevra dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Se ne sono appropriati, proprio come a Durban, alcuni Stati arabi e africani di orientamento islamico-fondamentalista, e fatalmente la messinscena ripeterà l’orrendo teatrino che nel 2001 precedette di qualche giorno l’Undici Settembre: antisionismo viscerale che si dichiara apertamente antisemitismo, esaltando Hitler e condannando gli ebrei e Israele in quanto tali. Tra racconto di ieri e anticipazione di domani, ce ne parla sul Foglio Giulio Meotti, preoccupato dalla prevista adesione degli USA di Obama. A suo tempo Bush e Colin Powell non avevano voluto la partecipazione americana. Ora Hillary Clinton in versione Segretario di Stato ha detto sì. Come potranno gli States rinnovati di Barack tirarsi fuori dalla bagarre razzista dei sedicenti “antirazzisti”? Ameno che, tutto è possibile, il nuovo corso americano non consista nell’aderire per denunciare con più forza dall’interno e spubblicare una volta per tutte queste pericolose pagliacciate internazionali.
                                                                                                                                   
                                                                                                                                           David Sorani

 
 
  torna su
notizieflash    
 
 
Israele: allarme recessione, Bank Leumi in difficoltà                                  Tel Aviv, 18 feb -
Preoccupa il quadro dell'economia israeliana sullo sfondo di un deficit che per il 2010 rischia addirittura di esplodere, laddove gli Usa dovessero confermare un taglio dei loro aiuti in risposta ai nuovi progetti di investimenti israeliani oltre il confine della 'linea verde' con i territori palestinesi, e delle diffuse preoccupazioni del mondo degli affari sulla capacità del mondo politico di accordarsi in fretta su un governo stabile e di larghe intese dopo l'aggrovigliato esito del voto del 10 febbraio. Recessione, calo delle entrate fiscali, 20.000 posti di lavoro in fumo solo nel mese di gennaio, emorragie per 250 milioni di euro nell'ultimo quadrimestre dalle casse di una delle due principali banche del Paese. Gli ultimi dati, diffusi oggi dai media, non contribuiscono all'ottimismo. L'aumento della disoccupazione - con altri 19.719 posti di lavoro perduti nel gennaio 2009 - si aggiunge all'inquietante annuncio di queste ore della Bank Leumi, uno dei pilastri del settore finanziario israeliano, di una sofferenza di ulteriori 700-800 milioni di shekel (circa 250 milioni di euro) accumulata nell'ultimo quadrimestre 2008. Un rapporto della banca centrale conferma intanto il clima di recessione, con arretramenti in quasi tutti i comparti produttivi, e una previsione di rallentamento delle entrate fiscali per il 2009 fino a 40 miliardi di shekel (circa 8 miliardi di euro) in meno rispetto alle attese del governo. L'incubo degli analisti è il deficit pubblico, che per fine 2009 si prevede al 5% del Pil invece dell'1% sperato.


MO: Olmert convoca i ministri per discutere le condizioni della tregua
Gerusalemme, 18 feb -
Il premier israeliano Ehud Olmert ha convocato oggi a Gerusalemme il Consiglio di difesa del suo governo per esaminare le condizioni di una tregua a Gaza ed uno scambio di prigionieri con Hamas, sulla base delle indicazioni ricevute dai mediatori egiziani. Olmert, secondo la stampa locale, condiziona la riapertura dei valichi di Gaza alla liberazione del caporale Ghilad Shalit (prigioniero di Hamas dal 2006) nel contesto di uno scambio di prigionieri. La scorsa notte la famiglia di Shalit ha lanciato un appello al governo israeliano affinché "non si lasci sfuggire questa occasione per liberare Ghilad Shalit, che potrebbe essere l'ultima". Hamas è disposto a concedergli la libertà se Israele rilascerà a sua volta oltre mille detenuti palestinesi, fra cui centinaia di miliziani condannati per aver organizzato gravi attentati terroristici. 

 

 
 
    torna su
 
L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili.
Gli utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste, in redazione Daniela Gross.
Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”.