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L'Unione informa |
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18 febbraio 2009 - 24 Shevat 5769 |
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alef/tav |
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Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano |
Nel
momento del Matàn Torà Dio scende sul monte Sinai. Questa discesa di
Dio sulla terra pone una serie di problemi teologico-filosofici che non
affronteremo, ma ha un aspetto educativo stranamente importante. Per
poter educare qualcuno è necessario scendere verso di lui, non lo si
può fare dall'alto. Il versetto biblico paragona il rapporto con gli
altri a un uomo che si specchia nell'acqua. Devo riuscire a vedere
l'altro come un'immagine di me stesso. Un grande maestro del
chassidismo, Rabbi S. Bunem si chiede perché
il testo usi la metafora dell'acqua e non semplicemente
quella dello specchio. Risponde che per specchiarsi normalmente si sta
in piedi mentre per vedere il proprio volto riflesso nell'acqua è
necessario piegarsi. |
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Il
mondo dello sport offre spesso metafore utili a farci comprendere
fenomeni più complessi. Un famoso incontro di ping-pong segnò anni fa
l'inizio del disgelo nei rapporti fra gli Stati Uniti e la Cina. Ora
invece è il tennis a darci un esempio di gelo. Dubai – un piccolo e
ambizioso emirato emergente nella Penisola arabica, noto in passato con
il nome di Costa dei Pirati – impedisce l'accesso a un suo torneo alla
tennista israeliana Shahar Pe’er, n. 44 nel mondo, come ritorsione alla
recente operazione militare a Gaza. Potremmo ignorare la competizione
tutto sommato secondaria alla quale l'atleta ventiduenne si era
iscritta pur essendo alquanto fuori forma. Pensiamo invece al ruolo di
Dubai nell'attuale grande crisi finanziaria negli Stati Uniti e il
mondo. Dubai è stato fra i Paesi che con la loro liquidità monetaria
accumulata estraendo altri liquidi energetici hanno contribuito a
salvare alcune delle maggiori banche e attività industriali americane.
In Europa, neanche tanto in sordina, avviene quotidianamente lo stesso.
Gli investimenti di capitale vengono normalmente compensati con la
presenza nei consigli di amministrazione. Da qui, alla proprietà di
molti organi di informazione stampata e elettronica e alla
determinazione significativa dei loro contenuti. Da cui una notevole
influenza sull’orientamento dell’opinione pubblica, sulla vita sociale,
culturale e politica. L'esclusione di Shahar Pe’er e la strategia del
ping-pong alla rovescia che infrange, e non per la prima volta da parte
di un paese islamico, la non contaminazione dello sport con la
politica, è un ulteriore piccolo pedaggio che la società civile
occidentale è chiamata a pagare, indirettamente, all'Islam politico. Ma
forse qualcuno vorrà protestare in nome dei valori dello sport che
l'Occidente dice di amare. Chi scaglierà la prima pietra? |
Sergio Della Pergola, demografo Università Ebraica di Gerusalemme
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Quei militari italiani internati nei campi Domani il confronto al Vittoriano
Le
deportazioni dei politici e dei militari è il titolo della tavola
rotonda che si terrà a Roma domani, 19 febbraio, alle 18 al
Vittoriano. Ultimo fra gli eventi promossi in occasione della mostra
1938 Leggi Razziali Una tragedia italiana, aperta fino al 22 febbraio,
la tavola rotonda vedrà la partecipazione del sottosegretario alla
Difesa Giuseppe Cossiga e di Gianfranco Maris presidente dell'Aned
(Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti). Fra i
relatori anche gli storici Anna Maria Casavola, Anna Foa, Brunelllo
Mantelli e Piero Melograni. Coordinerà la tavola rotonda Anselmo Calò,
Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. La tavola
rotonda ha lo scopo di approfondire le vicende storiche che, dopo l'8
settembre 1943, portarono alla cattura all'internamento ed al massacro
di centinaia di migliaia di soldati e politici italiani nei campi
nazisti.
Un'altra resistenza
L’altra
Resistenza, dice il titolo di un celebre libro di Alessandro Natta. Di
Resistenze - anche di formazione molto diversa, pur nella comune lotta
contro il fascismo e soprattutto contro l'occupatore nazista - ce ne
furono, come si sa, molte. Quella di Giustizia e Libertà, quella
repubblicana, socialista, cattolica, monarchica, comunista;
quest'ultima la più rilevante e organizzata, quella che ha dato il
maggior contributo di sangue e che si è pure resa più colpevole di
criminose violenze eccedenti la terribile logica della Guerra civile.
Come
è noto, le divergenze politiche all'interno della Resistenza portarono,
specie ai confini orientali d'Italia, anche a scontri sanguinosi e a
delitti fratricidi, quali ad esempio l'eccidio di Malga Porzús. I
resistenti al fascismo e soprattutto al nazismo - e le vittime - furono
diversi non solo quanto a posizione politica, ma anche per appartenenza
etnica, come soprattutto gli ebrei o gli zingari, e per quel che
riguarda l'estrazione sociale.
Una di queste categorie di
deportati, di resistenti al Leviatano nazista, di cui certo si parla (è
stata di recente ricordata e onorata dal presidente Napolitano, col suo
forte senso dell'Italia) ma di cui in genere non si parla abbastanza,
col rilievo che essa merita, è quella dei militari italiani, massacrati
(come a Cefalonia) o catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre - in
seguito a quel pauroso sbandamento e talora pure all'ignavia di alcuni
loro comandanti - e deportati in Germania o trattenuti nei Balcani;
rispettivamente circa 550.000 e 100.000, come riporta una recente
pubblicazione di Nicolino de Roberto.
Qualificati dai
nazisti come «internati» e privati dunque dei diritti riconosciuti,
secondo le convenzioni internazionali, ai «prigionieri di guerra »,
questi militari, soldati e ufficiali, rifiutarono, in stragrande
maggioranza, di aderire al nazismo e alla Repubblica di Salò sua
alleata, scegliendo così il Lager e durissime condizioni di sofferenza
e di umiliazione. Questa loro scelta è stata tanto più difficile e
meritoria in quanto non era facile - specialmente per chi non era
ideologicamente inquadrato in una formazione politica - capire, nella
confusione e nel caos dell' Italia spaccata in due, quale fosse
veramente l'Italia.
Vanno parimenti ricordati quei militari
che, prigionieri degli inglesi o degli americani, rinunciarono alla
libertà per non aderire all'Italia badogliana, spinti da un senso di
onore comprensibilmente rafforzato dall'incertezza della situazione e
dalla fellonia del re fuggiasco. L'internato militare in un Lager
Tedesco era solo, dinanzi ai suoi oppressori e alla sua scelta; solo
con la sua coscienza e il suo sentimento, perlopiù senza il sostegno
morale e psicologico di una appartenenza politica, che aiuta a
scegliere e a combattere, come l'appartenenza a un reggimento in una
battaglia.
Quella scelta, essi l'hanno fatta per amore
dell'Italia e per un senso profondo dell'onore, oltre che per
l'intelligenza che ha fatto loro capire da che parte stava l'umanità.
Anch'essi sono protagonisti di quel riscatto della patria e della
libertà da cui è nata l'Italia democratica, con la sua Costituzione che
oggi si vuole non correggere o aggiornare, bensì distruggere nei suoi
fondamenti, che rappresentano la base della nostra vita civile.
E'
sconcertante che questa sovversione provenga da chi governa il Paese
fondato sulla Costituzione. Oggi quegli ex internati non rappresentano
una forza politica né un movimento ideologico e tanto meno una riserva
di voti. Forse per questo non siamo loro grati come dovremmo; questi
giorni dedicati alla memoria sono una buona occasione per ricordarci a
fondo anche di loro.
Claudio Magris, Corriere della Sera, 16 febbraio 2009
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Il caso Lieberman, l'uso delle parole e la legge di Humpty Dumpty
La linguistica ci insegna che sul lungo periodo il significato delle
parole fluttua assai liberamente: per fare solo un esempio, l’inglese
“nice”, carino, viene dal latino “nesciens”, ignorante. Ma sui tempi
corti del dibattito politico e culturale è importante non lasciare che
i significati delle parole si perdano nella confusione. Prendiamo un
paio di vocaboli molto importanti per la memoria storica dell’ebraismo
italiano, come “fascista” e “razzista”. Fascista è, per il dizionario
di De Mauro “seguace, sostenitore del fascismo o dei movimenti di
estrema destra che a esso più o meno dichiaratamente si richiamano: un
convinto fascista, un picchiatore” e estensivamente ”chi si
comporta in modo autoritario, reazionario e antidemocratico, o impone
le proprie convinzioni con violenza brutale”. Lasciamo stare chi, da
Toni Negri fino a un pezzo del Partito democratico, dice che l’attuale
governo italiano porta il paese sull’orlo del fascismo. Il semplice
fatto che possano dirlo indisturbati mostra che è una sciocchezza, ma
non è questo ciò che ci importa.
Chiediamoci
invece perché la parola fascista venga associata al leader di Yisrael
Beitenu Liberman: non solo dal Manifesto o da Repubblica, ma anche di
recente, fra virgolette, dal sito del Corriere (e da un bel po’ di
articolisti di Haaretz…). Liberman è dunque “un picchiatore”? Un fan di
Mussolini? Ha ottenuto i voti con la violenza? Difficile sostenerlo. E
allora? Perché chiamarlo “fascista”? Si sa che vuole che nasca uno
Stato palestinese ma a patto di uno scambio di territori (una parte del
West Bank contro il pezzo più arabo della Galilea) per garantire
l’equilibrio demografico. Scambi del genere sono stati contrattati
diverse volte fra stati e non c’entrano nulla con la pulizia etnica.
Inoltre Yisrael Beitenu vuole sanzionare coloro che rifiutano un
giuramento di fedeltà allo Stato di Israele (non sarebbero solo gli
arabi estremisti, ma anche un po’ di haredim antisionisti). E’ fascista
questo? In Spagna sono stati sciolti i partiti che rifiutavano fedeltà
alla costituzione sostenendo il terrorismo basco, come Batasuna.
Fascista anche Zapatero? In Germania dal 1972 vige il “Berufsverbot”:
divieto di impiego pubblico per chi aderisce a movimenti
anticostituzionali. Fascisti anche loro? E fascisti anche gli Usa, che
per darvi il visto vi continuano a chiedere se aderite a movimenti
estremisti.
Qualche volta a proposito di Liberman si usa
invece la parola “razzista”. Citiamo ancora De Mauro: “ chi professa
teorie razzistiche; che, chi sostiene la superiorità di una o più
razze, legittimando o attuando una politica di discriminazione e
persecuzione. Estensivamente, che, chi ha un atteggiamento di
intolleranza nei confronti di persone diverse per razza, cultura,
posizione sociale, religione o provenienza geografica.”
Razzista,
o addirittura razziale è stato definito da Famiglia cristiana (con
l’appoggio di Veltroni) la legge che permette ai medici di denunciare
gli immigrati clandestini. Qui dobbiamo entrare più nel merito, perché
i razzisti di solito ce l’hanno soprattutto con noi. Ammesso che ci sia
una cosa come le razze, i clandestini non appartengono a una in
particolare: possono essere ucraini come marocchini. Clandestino è una
posizione giuridica, per definizione mutabile, non un marchio che
riguarda ciò che si è, l’origine etnica, che era presa di mira dalle
leggi razziali. E allora, anche se volessimo dissentire dalla legge,
come è certamente lecito, possiamo noi accettare che essa sia definita
razziale? Che opinionisti risolutamente antisraeliani predichino il
ritorno al 1938, con nuove persecuzioni “razziali” ai danni dei
clandestini (prima erano gli zingari) “i nuovi ebrei”? Magari quegli
stessi come Famiglia cristiana e il Manifesto, che implicitamente
danno del nazista all’esercito israeliano ed esplicitamente del
razzista a Liberman?
E a proposito che ha fatto di razzista
Lieberman? Chiedere lealtà allo Stato (a uno Stato in guerra) è
razzismo? E allora come la mettiamo col reato di “alto tradimento” che
si trova nei codici di moltissimi paesi (inclusa l’Italia)? I
palestinesi (anche Abu Mazen, non solo Hamas) possono tranquillamente
ammazzare i “collaborazionisti” e invece Israele non deve colpire
neanche con sanzioni amministrative come la perdita della cittadinanza
chi appoggia Hamas, se no è fascista e razzista? Bisogna tenere a posto
le parole, non consentire alla retorica di stravolgerne il senso.
Quelli che accusano Israele di comportarsi a Gaza “come i nazisti”
(sono tanti, dal Cardinal Martino in giù, molti sono ebrei) mi sembrano
peggiori dei negazionisti alla Williamson. Perché invece di cercare
solo di sottrarci la memoria, che sappiamo conservare, cercano di
confonderla, infangando noi. Difendiamo le parole che descrivono la
nostra esperienza storica, non lasciamo senza risposta chi sfrutta la
nostra memoria per battaglie politiche più o meno giuste, spesso mirate
contro di il popolo ebraico di oggi.
Post scriptum: A
proposito di fascismo e razzismo, sapete come si chiama quell’uomo
politico mediorientale che si è laureato con una tesi negazionista, che
si vanta di aver personalmente sparato contro i propri nemici e che
governa illegalmente con la forza, pur avendo terminato il proprio
mandato? Non è un deputato della Knesset, di mestiere fa il presidente
dell’Autorità Palestinese e si fa chiamare Abu Mazen. Qualcuno oserebbe
dargli del fascista, anche fra noi? Eppure secondo il De Mauro, ci
starebbe… Questo ciò di cui parla Lewis Carroll:
«Quando io uso una parola», proclamava Humpty Dumpty, «questa
significa quello che decido io, né più né meno». I marxisti lo chiamano
egemonia. Il potere sulle parole è oggi in mano ai nemici di Israele.
Ugo Volli, semiologo
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Il difficile rapporto Chiesa-Ebrei continua a stimolare la riflessione e la discussione sui giornali. Oggi, su La Stampa,
troviamo l’analisi positiva di Arrigo Levi. Riconciliazione è la parola
chiave del suo commento. Dalla sua lettura dell’incontro tra Benedetto
XVI e i rappresentanti dell’ebraismo americano emerge il superamento di
tutti i problemi: la correzione di un “passo falso” (cioè la ferma
condanna della Shoah dopo la discutibile riabilitazione del lefebvriano
negazionista Williamson) può essere “particolarmente illuminante”. E
così la prossima visita del pontefice in Israele confermerà che ormai
ogni malinteso è stato superato, che Ratzinger è autentico erede della
linea di apertura e di dialogo del Concilio Vaticano II già seguita da
Giovanni Paolo II. Ma con tutta la stima possibile per il grande
giornalista e l’acuto osservatore, con tutta la condivisione umana
verso l’intellettuale ebreo personalmente coinvolto – come tutti noi
ebrei – dalla gravità dell’attuale frattura, siamo proprio convinti che
tutte le incomprensioni e le differenze di atteggiamento siano davvero
risolte? I dubbi e le perplessità restano. Intanto, i vescovi
riabilitati che continuano a sostenere – anche al di là dalle posizioni
negazioniste di alcuni – la chiusura e l’ostilità teologica verso
l’ebraismo sono di fatto tornati regolarmente nel seno della Chiesa.
Intanto, la ripristinata preghiera “pro Judeis” del Venerdì santo
continua ad auspicare la conversione degli ebrei, anche se lo fa sul
piano escatologico della volontà divina e non su quello del
conversionismo militante: un terreno di comodo compromesso, che però
elude il coraggio necessario a portarsi sulla strada di un autentico
incontro tra “diversi” destinati a rimanere tali. Ma bisogna
rassegnarsi alla posizione invariabilmente dominante della Chiesa,
soprattutto in Italia. Ci induce a questa riflessione anche l’articolo
di fondo dell’Avvenire,
dedicato da Carlo Cardia al venticinquesimo anniversario dell’attuale
Concordato, siglato proprio il 18 febbraio 1984. Certo, l’autore ha
ragione quando ricorda l’importanza di un accordo che pone al centro il
diritto e la promozione dell’uomo cercando di sfuggire alla logica del
privilegio; quando sottolinea l’incontro, nei suoi articoli, della
Costituzione Italiana e dei valori del Concilio Vaticano II; quando
rivendica a questo testo guida una qualche primogenitura nella
strategia delle Intese, che già permeava la nostra Carta e che dopo
pochi anni si è effettivamente avviata (Tavola Valdese, UCEI). Eppure è
la logica concordataria in sé (a cui il documento dell’epoca craxiana
non può evidentemente sfuggire) a confermare il “carattere particolare”
(cioè, di fatto, privilegiato) del legame tra Stato italiano e
Chiesa cattolica e quindi, paradossalmente, a contraddire il pluralismo
religioso promosso invece dalla logica Intese. Una logica
apparentemente analoga; in realtà diversa, perché non basata su accordi
“preferenziali” con una parte più forte. Sul ruolo dello Stato, della Chiesa, delle minoranze religiose si sofferma anche una rapida intervista dell’Unità alla
Moderatrice della Tavola Valdese Maria Bonafede. L’occasione è un altro
anniversario, quello delle Regie Patenti che il 17 febbraio 1848
concessero – auspice Carlo Alberto quindici giorni prima dello Statuto
– la parità di diritti ai valdesi dello Stato sabaudo, atto a cui
seguì, dopo pochi mesi, l’emancipazione degli ebrei. La pastora pone
significativamente l’accento sulla deprecabile interruzione del
processo delle Intese (diverse le confessioni religiose ancora prive di
questo fondamentale accordo) in una società sempre più multiculturale e
multireligiosa, sul rischio sempre più tangibile che la laicità corre
di fronte all’esclusivismo della Chiesa (vicenda Eluana docet), ma
anche sul pericolo di considerare la vita una questione puramente
biologica e non anche biografica.
Altra importante pagina
sui giornali di stamattina è, come sempre, quella mediorientale.
Innanzitutto la notizia del giorno. Sarebbe in corso da anni e avrebbe
già fatto vittime importanti un’operazione del Mossad volta a eliminare
i cervelli della corsa iraniana all’atomica e a impedire i rifornimenti
al progetto di arricchimento dell’uranio. Ce ne parlano, con toni da
spy-story, Umberto De Giovannangeli su l’Unità, Alberto Stabile su Repubblica, Gian Micalessin sul Giornale, tutti sulla base delle notizie riportate dal Daily Telegraph. Sul
fronte della politica, Peres inizia oggi i colloqui che porteranno
all’assegnazione dell’incarico per la formazione del nuovo governo
israeliano. Interessante, in proposito, l’anonima analisi del Foglio,
che prende in esame le varie combinazioni possibili, tutte in realtà
problematiche. L’ago della bilancia appare Lieberman, che non vuole
essere sommerso da un accordo con Netanyahu ma che pone anche seri
problemi di identità e di alleanze a Tzipi Livni (con Israel Beitenu
dentro il governo, Avodà e Meretz ne resterebbero fuori). L’unica
soluzione appare, forse allo stesso Presidente, un governo di unità
nazionale coi tre partiti oggi prevalenti (Kadima, Likud, Israel
Beitenu) e con l’eventuale appoggio dei laburisti. Una soluzione
possibile per imboccare in modo unitario e forte la strada della
trattativa coi palestinesi. Ma sarebbe davvero un esecutivo più forte?
O sarebbe semplicemente una coalizione sulla carta, bloccata in realtà
dai veti reciproci? Intanto Hamas e Fatah tornano a parlarsi. Lo
faranno nei prossimi giorni al Cairo, in vista di una riunificazione,
di un governo comune, del controllo condiviso di Gaza e soprattutto –
auspicabilmente – di una ripresa delle trattative con Israele.
Trattative che sarebbero tanto più autentiche perché condotte da un
partner palestinese riunificato e dunque credibile. Ce ne riferisce
Francesco Battistini sul Corriere della sera.
Ma, anche qui, possono essere davvero incontri credibili, questi tra
due fazioni palestinesi ancora acerrime nemiche? E, soprattutto, Hamas
può essere partner credibile per chicchessia? E potrà mai esserlo in
vista di accordi con il nemico sionista? Coltivare un sommo scetticismo
appare la via obbligata. Tanto più quando l’atteggiamento prevalente praticato nei confronti di Fatah continua a essere quello della violenza. Sul Foglio
Carlo Panella, giustamente indignato, denuncia il silenzio con cui i
mass media hanno accolto le rivelazioni di Amnesty International sulle
violenze perpetrate dagli uomini di Hamas ai danni dei “fratelli”
legati ad Abu Mazen: atti feroci che sono stati compiuti prima, durante
e anche dopo la guerra di Gaza, cioè ancora adesso. Ci sono
evidentemente le violenze da dilatare, quelle israeliane, anche se
magari sono favorite dal contesto stesso del conflitto. E poi ci sono
le violenze da tacitare, quelle di Hamas, anche se sono deliberatamente
e crudelmente portate contro connazionali imprigionati o malati. Ma
di che stupirsi? E’ lo stesso clima fanatico, autoesaltatorio e
autoassolutorio che verosimilmente infiammerà il cosiddetto “Durban
II”, lo pseudo-vertice sugli pseudo-diritti umani che sarà inscenato
tra qualche mese a Ginevra dal Consiglio per i Diritti Umani delle
Nazioni Unite. Se ne sono appropriati, proprio come a Durban, alcuni
Stati arabi e africani di orientamento islamico-fondamentalista, e
fatalmente la messinscena ripeterà l’orrendo teatrino che nel 2001
precedette di qualche giorno l’Undici Settembre: antisionismo viscerale
che si dichiara apertamente antisemitismo, esaltando Hitler e
condannando gli ebrei e Israele in quanto tali. Tra racconto di ieri e
anticipazione di domani, ce ne parla sul Foglio
Giulio Meotti, preoccupato dalla prevista adesione degli USA di Obama.
A suo tempo Bush e Colin Powell non avevano voluto la partecipazione
americana. Ora Hillary Clinton in versione Segretario di Stato ha detto
sì. Come potranno gli States rinnovati di Barack tirarsi fuori dalla
bagarre razzista dei sedicenti “antirazzisti”? Ameno che, tutto è
possibile, il nuovo corso americano non consista nell’aderire per
denunciare con più forza dall’interno e spubblicare una volta per tutte
queste pericolose pagliacciate internazionali.
David Sorani
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Israele:
allarme recessione, Bank Leumi in difficoltà
Tel Aviv, 18 feb - Preoccupa
il quadro dell'economia israeliana sullo sfondo di un deficit che per
il 2010 rischia addirittura di esplodere, laddove gli Usa dovessero
confermare un taglio dei loro aiuti in risposta ai nuovi progetti di
investimenti israeliani oltre il confine della 'linea verde' con i
territori palestinesi, e delle diffuse preoccupazioni del mondo degli
affari sulla capacità del mondo politico di accordarsi in fretta su un
governo stabile e di larghe intese dopo l'aggrovigliato esito del voto
del 10 febbraio. Recessione, calo delle entrate fiscali, 20.000 posti
di lavoro in fumo solo nel mese di gennaio, emorragie per 250 milioni
di euro nell'ultimo quadrimestre dalle casse di una delle due
principali banche del Paese. Gli ultimi dati, diffusi oggi dai media,
non contribuiscono all'ottimismo. L'aumento della disoccupazione - con
altri 19.719 posti di lavoro perduti nel gennaio 2009 - si aggiunge
all'inquietante annuncio di queste ore della Bank Leumi, uno dei
pilastri del settore finanziario israeliano, di una sofferenza di
ulteriori 700-800 milioni di shekel (circa 250 milioni di euro)
accumulata nell'ultimo quadrimestre 2008. Un rapporto della banca
centrale conferma intanto il clima di recessione, con arretramenti in
quasi tutti i comparti produttivi, e una previsione di rallentamento
delle entrate fiscali per il 2009 fino a 40 miliardi di shekel (circa 8
miliardi di euro) in meno rispetto alle attese del governo. L'incubo
degli analisti è il deficit pubblico, che per fine 2009 si prevede al
5% del Pil invece dell'1% sperato.
MO: Olmert convoca i ministri per discutere le condizioni della tregua Gerusalemme, 18 feb - Il
premier israeliano Ehud Olmert ha convocato oggi a Gerusalemme il
Consiglio di difesa del suo governo per esaminare le condizioni di una
tregua a Gaza ed uno scambio di prigionieri con Hamas, sulla base delle
indicazioni ricevute dai mediatori egiziani. Olmert, secondo la stampa
locale, condiziona la riapertura dei valichi di Gaza alla liberazione
del caporale Ghilad Shalit (prigioniero di Hamas dal 2006) nel contesto
di uno scambio di prigionieri. La scorsa notte la famiglia di Shalit ha
lanciato un appello al governo israeliano affinché "non si lasci
sfuggire questa occasione per liberare Ghilad Shalit, che potrebbe
essere l'ultima". Hamas è disposto a concedergli la libertà se Israele
rilascerà a sua volta oltre mille detenuti palestinesi, fra cui
centinaia di miliziani condannati per aver organizzato gravi attentati
terroristici.
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delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
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indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
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