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L'Unione informa |
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25 febbraio 2009 - 1 Adar 5769 |
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alef/tav |
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Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano |
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parashà di Mishpatìm contiene un elevato numero di norme riguardanti i
rapporti tra persone e, in particolare, i danni fisici, economici,
morali) procurati al prossimo. In un passo del Talmud è scritto che chi
vuole essere particolarmente religioso deve occuparsi dei danni, cioè
studiare queste regole e stare attento a non procurare danni al
prossimo. Questo passo talmudico contiene due insegnamenti importanti.
1) Nella religione ebraica è fondamentale non solo il rapporto con Dio
ma anche quello con il prossimo. 2) Nei rapporti con il prossimo ci
sono alcuni insegnamenti positivi della Torà, come per esempio l'amore
verso il prossimo, che sono apparentemente molto più importanti del
divieto di procurare danni. Rav Shlomo Aviner sostiene però che non
sempre è così. A volte i sentimenti di amore verso il prossimo si
riducono a enunciazione astratta e, anche quando si risolvono in
comportamenti concreti, non di rado si tratta di comportamenti
interessati. Lo sforzo di non danneggiare gli altri, oltre a essere
alla base della convivenza tra esseri umani, richiede un grande senso
di responsabilità, una capacità di mettere continuamente in discussione
il proprio comportamento (a volte si possono procurare danni anche
pensando di fare del bene) e, in ogni caso, si tratta di un
comportamento disinteressato. Nessuno ci loderà per non aver
danneggiato il prossimo.
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La
soap opera del momento in Nordamerica e' "Being Erica" la cui
protagonista e' un'avvenente 32enne, simpatica, ragazza ebrea di
Toronto. Non e' religiosa ma ha una forte identita' ebraica, attraversa
le sue crisi e si ritrova disoccupata, senza piu' partner a
corteggiarla e senza piani per il futuro. Un analista la aiuta a
identificare la radice dei suoi problemi nel senso di colpa accumulato
dal proprio bat mitzwa', quando fuggi' senza motivo dalla festa tanto
premurosamente preparata dai genitori. Per espiare sceglie di inziare a
osservare il digiuno di Kippur. Cosi' l'erede televisivo di "Sex and
the City" diventa kosher. |
Maurizio Molinari,
giornalista |
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davar |
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Beni da salvare 8 - La sinagoga di Vercelli esempio tangibile dell'emancipazione ebraica
Ha affrontato in macchina la tormenta di neve per arrivare da
casa sua, in provincia di Novara, a Vercelli l’instancabile presidente
della comunità, Rossella Bottini Treves. Non voleva mancare
all’appuntamento con Sorgente di Vita per raccontare la storia
del restauro del tempio. Una storia che va avanti da molti anni, e che
lei ha preso molto a cuore. “Fino a qualche anno fa la sinagoga
era in condizioni disastrose: i pochissimi ebrei di Vercelli non
riuscivano più a mantenerla. Quasi abbandonata, le vetrate si
erano rotte e l’acqua, il vento e i piccioni avevano causato danni
gravissimi alle volte e alle decorazioni”. Presidente dal 2003
Rossella Bottini Treves non si è scoraggiata: ha cercato, e ottenuto,
con il sostegno dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane,
vari finanziamenti e piano piano ha dato inizio ai restauri.
L’obiettivo è quello di restituire la sinagoga alla città come sede di
attività culturali per tutti. Primo risultato è stato, nel 2004,
il restauro delle vetrate, tornate allo splendore di un tempo
grazie al contributo del Comune e di alcune fondazioni bancarie.
Diventata più accogliente, da allora la sinagoga è meta di visita
da parte dei ragazzi delle scuole, che vengono accolti da una giovane
guida pronta a dare spiegazioni sulle tradizioni, sulle feste ebraiche
e sulla storia della comunità e della sinagoga.
Inaugurato
nel 1878 il tempio di Vercelli è un tipico esempio architettonico del
periodo dell’emancipazione. L’idea iniziale fu di Marco Treves,
architetto vercellese che lavorò a Parigi, progettò le
sinagoghe di Pisa e di Firenze e fece parte della commissione
che scelse il progetto per il tempio di Torino. I lavori furono
realizzati però da Giuseppe Locarni che assecondò lo slancio di
ottimismo degli ebrei di Vercelli che vollero un edificio grande,
bello e molto visibile, già allora sovradimensionato per la comunità
locale che a quell’epoca contava circa 600 anime: la sinagoga doveva
essere un monumento tangibile di libertà e di progresso, per
dimenticare l’epoca del ghetto. Solo trenta anni prima infatti, nel
1848, gli ebrei piemontesi avevano ottenuto l’uguaglianza dei
diritti con le Regie Patenti del re Carlo Alberto. Prima, fin dal 1727
, erano stati costretti a vivere nei ghetti. Il risultato
fu un grandioso edificio in stile eclettico con richiami moreschi,
illuminato da vetrate colorate e da un lucernario
sulla cupola. Il matroneo corre sopra alle navate laterali: le
volte sono decorate da un cielo di stelle sui toni dell’azzurro, ma la
pittura è purtroppo molto deteriorata. “In questa sinagoga “
spiega Rossella Bottini Treves “sono già stati fatti restauri
importanti sulle strutture lignee, in particolare sui banchi e
sull’aron ha-kodesh, l’armadio che contiene i rotoli della Legge”.
Quest’ultimo è stato oggetto di un accurato lavoro di ripristino,
grazie al sostegno di una fondazione bancaria. Pulite le parti lignee,
lucidate le formelle che riproducono simboli ebraici e oggetti rituali,
oggi se ne può apprezzare tutta la bellezza. Un altro intervento
di restauro nell’antica abitazione del rabbino, adiacente alla
sinagoga, ha dato una sede appropriata all’archivio storico della
comunità di Vercelli che conserva documenti risalenti al 1500. Grazie a
un sostegno della regione Piemonte e a fondi provenienti dall’ 8 per
mille dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, è stato avviato
anche il riordino dell’archivio. Oggetti di culto, lampade,
rotoli della Legge sono oggi esposti in uno spazio
didattico-museale realizzato recentemente grazie a una prima
trance di 60.000 euro, finanziati con la legge 175. E’ un
percorso a disposizione delle scolaresche che arrivano
numerose durante la settimana e di tutti i cittadini che possono
visitare la sinagoga la domenica pomeriggio. “C’è ancora bisogno
di molto lavoro, perché la sinagoga è molto grande, è una delle cinque
più grandi d’Italia” aggiunge la presidente, in attesa del rimborso di
190.000 euro, già spesi, che però tardano ad arrivare. “I
finanziamenti della 175” conclude Rossella Bottini Treves “dovrebbero
consentirci di andare avanti con i lavori più importanti, la
ristrutturazione del matroneo e l’impianto di illuminazione per poter
utilizzare appieno la sinagoga come luogo di culto ma anche per
permetterne la fruibilità per le scolaresche e per il pubblico che
chiede di visitare i luoghi ebraici”.
Piera Di Segni
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L'anticonformismo di Gershom Scholem e il difficile rapporto con la mistica ebraica
Gershom Scholem (nella foto a fianco)è stato l’intellettuale ebraico
che ha avuto più autorità, in tutto il Novecento, colui che è stato
essenziale rendere un legittimo oggetto di studio accademico tutta la
tradizione ebraica, anche quella meno ortodossa e meno omologata a una
idea “benpensante” di religione nel senso occidentale e soprattutto
protestante del termine. Oggi è difficile rendersi conto, quando
leggiamo scritti sulla Kabbalah o sugli strati più profondi e segreti
del pensiero ebraico, che questi temi erano non solo sottaciuti, ma
attivamente censurati dalla grande tradizione ottocentesca della
“scienza dell’ebraismo” e lasciati alle pratiche, anch’esse sopportate
con qualche vergogna, dell’ebraismo chassidico “orientale” o di quello
sefardita ancora meno noto. La competenza filologica, l’immensa
cultura, la capacità di Scholem di trattare in maniera ostentatamente
distaccata e “oggettiva” temi scottanti come le ondate
(pseudo)messianiche di Shabbatai Zvi o le pratiche teurgiche di certe
correnti della Kabbalah (per esempio Abulafia), le ha trasformate in
oggetti storici interessanti e legittimi anche al di là del mondo
ebraico. Nessuno potrebbe pensare, dopo la sua opera, alla cultura
ebraica nei termini consueti fino a un secolo fa, come un confuso e
“arcaico” ammasso di riti e regole privo di rilevanza teologica e in
definitiva di senso. Dopo la morte di Scholem il suo lavoro è stato
naturalmente oggetto di revisione, le sue interpretazioni sono discusse
e magari contraddette su singoli punti; sono sorti altri grandi
studiosi come Moshé Idel; ma nessuno nega la legittimità della sua
mossa fondamentale di prendere la mistica ebraica come uno dei grandi
temi del pensiero di Israele, alla pari del pensiero filosofico
influenzato dalla tradizione greco-araba o di quello alakhico/talmudico.
All’ombra
del monumento di questa straordinaria impresa intellettuale, noi oggi
rischiamo però di darla per scontata, dimenticando il suo carattere
costruttivo, ma anche polemico e perfino scandaloso. Per aiutarci a non
perdere questa dimensione antagonistica e innovatrice, che è stata
fondamentale nell’opera di Scholem come lui stesso ha talvolta
riconosciuto, ci aiuta l’ultimo bellissimo volume di scritti raccolti
da Adelphi sotto il titolo L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica (a cura di Roberto Donatoni e Elisabetta Zevi, pp. 388, 34 euro).
Che
la costruzione di una storia del pensiero ebraico - nel senso ampio che
oggi diamo per scontato - fosse un gesto polemico mirante
all’autodefinizione dell’ebraismo in una stretta storica centrale per
la sua esistenza e non solo un interesse filologico antiquario, lo
vediamo per esempio dai saggi sugli autori della scienza dell’ebraismo
e sull’opera di Martin Buber, in cui Scholem, pur riconoscendo i meriti
di questi autori, chiarisce perfettamente la differenza del suo
approccio. Zunz, Steinschneider e gli altri autori della Wissenschaft
des Judentums appaiono a Scholem meritori per il loro lavoro di
precisazione della storia ebraica, per la difesa che ne fanno nel
momento dell’insediamento ebraico nella società occidentale, ma del
tutto inconsapevoli e sostanzialmente chiusi alla reale complessità del
pensiero ebraico tradizionale e disinteressati o perfino ostili alla
sorte di Israele come popolo: in definitiva intenti programmaticamente
a “dare una degna sepoltura” alla grande ricchezza culturale della
tradizione ebraica, come Scholem riferisce con trattenuta indignazione.
Buber ha per Scholem il merito di aver presentato all’Occidente
il chassidismo, ma il torto di averne visto solo il lato aneddotico o
“esistenziale”, ignorando la continuità di
pensiero con la Kabbalah e i rapporti (antagonistici ma stretti) con lo pseudo-messianesimo
di Zvi e Frank. Il saggio sulla devequt (o “comunione con Dio”)
nella prima generazione chassidica è un bellissimo esempio del diverso
approccio che Scholem ha nei confronti del Baal Shem Tov e dei suoi
continuatori: non pittoreschi maestri di saggezza e di pietà ebraica,
da guardare come una sorta di enigmatici maestri zen, ma pensatori
sottili, innovatori di quel grande edificio che è la riflessione
ebraica sui rapporti con il divino. L’interesse di Scholem va a
tutto ciò che esprime questo interesse teologico o metafisico,
soprattutto dove questo interesse diventa scommessa estrema,
anticonvenzionale, rottura dell’ebraismo perbenistico
dell’assimilazione. Al centro di questo “estremismo teologico” che
affascina Scholem, fin dai tempi della Kabbalah luriana è la funzione
di redenzione pubblica attribuita al messia: un’idea del tutto opposta
al regno “interiore” del messia cristiano. Di questa funzione pubblica
del messianesimo ebraico Scholem ricostruisce le oscillazioni più
recenti in una serie di saggi magistrali, dall’esaltazione cabbalistica
alla “neutralizzazione” chassidica. Questo interesse per le
manifestazioni messianiche si estende ben al di là della teologia delle
“scintille” da recuperare e delle “bucce” da neutralizzare. Ritroviamo
in questi saggi la figura di Shabbatai Zvi, cui Scholem ha dedicato un
grande libro ben noto anche in Italia, e soprattutto leggiamo una serie
di studi sugli esiti antinomici della sua esperienza estrema: da un
lato il frankismo e la sua teoria di una “redenzione attraverso il
peccato” (che secondo Scolem influenza, magari a contrario, tutti i
maggiori momenti successivi di pensiero ebraico, dal chassidismo alla
askalà fino al sionismo) e dall’altro per le manifestazioni di
marranesimo volontario come quella della setta doenme, che prolungando
l’ambigua conversione di Shabbatai Zvi all’Islam continuò a esistere
semiclandestinamente almeno fino al 1950 in tutto l’ambiente turco, a
partire dal suo insediamento originario di Salonicco. Scholem non
esprime giudizi su questi percorsi, ma li ricostruisce con evidente
passione; mentre dimostra un evidente fastidio per i tentativi
“borghesi” di rifondare l’ortodossia ebraica facendo a meno della
metafisica cabbalistica e non solo dell’anitinomismo messianico. Si
capisce bene come ancor più di un fenomeno accademico come la “scienza
dell’ebraismo”, la sua bestia nera sia Samson Rafael Hirsch, il
fondatore della moderna ortodossia da cui dipende larga parte
dell’ebraismo contemporaneo come si pratica in Europa occidentale.
Scholem gli dedica alcuni giudizi sprezzanti, come è raro leggerne per
una personalità così rilevante. Il volume è completato da qualche
saggio curioso, da cui emerge ancora l’anticonformismo di Scholem, come
quello dedicati con ammirazione molto critica alla traduzione della
Bibbia di Rosenzweig e Buber, l’altro in cui si discute con altrettanto
reverente distacco del capolavoro filosofico di Rosenzweig, La stella
della redenzione e soprattutto quello in cui si ricostruiscono le
vicende del simbolo che noi oggi chiamiamo maghen David e trattiamo
come se fosse da sempre il grafema ebraico per eccellenza. Scholem ha
buon gioco nello smentire questa ingenua adesione, mostrando che
l’affermazione della stella a sei punte come simbolo dell’ebraismo non
è più antica dell’Ottocento e che la sua origine è magica, non
religiosa.
Ugo Volli
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Non
fatti clamorosi ma analisi interessanti sui giornali di stamattina.
Analisi complesse in una fase assai delicata degli equilibri mondiali,
resa vieppiù precaria dalla crisi economica planetaria i cui effetti
cominciano a manifestarsi ovunque. Analisi che talvolta paiono
preludere in modo inquietante a disgregazioni politiche e a nuove
guerre catastrofiche che speriamo restino solo nelle previsioni dei
politologi. Due sono le introspezioni politiche particolarmente penetranti. La prima è quella di Niall Ferguson sul Corriere della sera
per la rubrica “Geopolitica – Paesi instabili”. Con un esame suggestivo
e un po’ allarmante lo studioso, cogliendo paralleli e diversità
rispetto al Novecento su cui ha scritto pagine importanti come “La
guerra del mondo”, parla di un nuovo “asse del caos” come settore di
Paesi altamente instabili. Un asse diverso e più imprevedibile rispetto
a quello disegnato sette anni fa da Bush come “asse del male”. Un assai
esteso club di paesi a rischio e rischiosi per il mondo intero, in cui
il fattore pericolo è legato - come ma anche diversamente rispetto al
secolo XX° - a tensioni inter-etniche, a instabilità economica, a
declino di imperi e sfaldamento delle loro strutture. In questo magma
di crisi mondiale, che Ferguson passa in rassegna nelle sue varie
aree – composite e interconnesse, posto centrale spetta
all’incertissimo Medio Oriente, dove a un Afghanistan e a un Pakistan
sull’orlo del collasso e a un Iran pericolosamente indirizzato al
dominio regionale con l’arma atomica si affianca l’incancrenita
situazione israelo-palestinese. La guerra di Gaza, per Ferguson (e non
solo per lui), per quanto giustificabile ha portato a Israele più
problemi che soluzioni: avversione dell’opinione pubblica mondiale,
Hamas sempre forte sul territorio, popolazione locale sempre più
radicalmente nemica. Su ogni aspetto del caos mondiale grava oggi, a
rendere il pericolo davvero concreto, la crisi economica mondiale, che
fa da acceleratore di ogni processo disgregativo. Il guaio è, conclude
lo storico, che tutte le nazioni sono troppo prese dai problemi interni
(e come potrebbe essere diversamente?) per sollevare lo sguardo alla
situazione planetaria che le coinvolge complessivamente. La seconda analisi approfondita, più centrata sullo scacchiere mediorientale, è quella di Ghassan Charbel su Liberal.
Tutti stiamo “aspettando Barak”, ma la situazione che Obama si trova a
fronteggiare pare davvero proibitiva. I rapporti tra Israele e i suoi
vicini (i palestinesi, il Libano, la Siria) sembrano tutti quanti un
riflesso locale della più grande sfida con l’Iran ormai quasi nucleare
di Ahmadinejad; le tensioni della regione paiono così destinate a
crescere, in funzione della crescita della minaccia iraniana. Intanto,
il “fattore Netanyahu” che si profila per Israele renderà le cose più
difficili, perché il suo governo – se riuscirà a farlo – sarà tutto in
funzione di emergenza anti-iraniana e per niente proiettato verso una
vera pace con i palestinesi. Può darsi, ma è innegabile che il
pericolo, l’incertezza futura per Israele arrivano da Teheran; ed è
dunque inevitabile che la politica del domani guardi soprattutto a quel
grande rischio, più che a uno zoppicante processo di pace con l’ANP.
Però è anche vero che la politica non la si fa pensando solo al domani
immediato e incerto, ma la si prepara provvedendo al dopodomani, a
futuro prossimo e lontano. E allora i rapporti con i vicini di casa
diventano assolutamente decisivi. Dai due articoli-panorama o
articoli-periscopio zoomiamo all’interno della situazione politica
israeliana, dove, mentre i nuovi deputati giurano insediandosi alla
Knesset, le trattative per la formazione del nuovo governo si fanno
sempre più intricate. Un vero rebus, per le linee contrapposte, i veti
incrociati, gli interessi contrastanti in gioco. Ne parlano diversi
giornali (Avvenire, L’Unità, Europa, Il Messaggero),
soffermandosi tutti sull’opzione preferenziale dell’incaricato
Netanyahu, quella di un governo di unità nazionale con Kadima e con la
diretta partecipazione della Livni: un esecutivo più stabile e sicuro
per Bibi, una formazione più rispettosa della volontà nazionale per
Peres, anche lui impegnato nel convincere sia pur indirettamente Tzipi
a dire di sì. Una soluzione che avvicinerebbe la via della pace con i
palestinesi di Abu Mazen? Gli osservatori più acuti sembrano negarlo,
come abbiamo visto. Ma gli Stati Uniti puntano proprio su questa
soluzione, se è vero – come riferisce Umberto de Giovannangeli
su L’Unità – che anche Hillary Clinton, in Medioriente dal 2 al 4
marzo per la sua prima decisiva missione nella zona da Segretario di
Stato, insiste sull’unità nazionale come ponte verso le trattative. Chi
avrà ragione? Mentre i media israeliani colgono l’occasione degli
incontri Bibi-Tzipi per sfogarsi con una sagace satira “matrimoniale” (Europa), Haaretz
(citato dalla stessa Europa) prevede che la questione verrà risolta da
Netanyahu con la proposta alla Livni di scrivere insieme i “criteri
politici” del nuovo esecutivo: puro espediente tattico o effettiva
strategia politica di lunga portata? Un articolo non firmato sul Foglio
offre un quadro vivace ma forse un po’ superficiale della netta
scissione sociale e politica di Israele tra presenza religiosa e
presenza laica (Gerusalemme e Tel Aviv). Cose che i lettori ebrei
conoscono benissimo ed interpretano in modo più motivato e profondo
dell’autore di questo pezzo, che pure si muove agilmente e con molti
particolari tra i mille volti contrastanti di un Paese che può apparire
insieme pio e miscredente. Un Paese in cui è nettamente in aumento il
numero di soldati osservanti: segno di un rafforzamento religioso di
una istituzione fondante come Tzahal o della laicizzazione sionista di
quote crescenti di popolazione religiosa? La risposta israeliana è
sempre multidirezionale. Altre significative note dal Medioriente le possiamo leggere ancora sul Corriere della sera,
dove Paolo Salom descrive le manifestazioni anti-regime degli studenti
iraniani. O sul Messaggero, che anonimamente analizza le prospettive
della conferenza internazionale in programma a Sharm el Sheikh e
destinata allo stanziamento di fondi e alla programmazione in vista
della ricostruzione di Gaza dopo la recente guerra: dei due miliardi di
dollari stanziati nell’insieme per l’iniziativa, gli Usa da soli
metteranno a disposizione 900 milioni di dollari; ma niente andrà ad
Hamas. E speriamo che la realtà dei fatti rispecchi questa intenzione,
altrimenti a Gaza si moltiplicheranno presto le armi e la violenza,
invece delle case restaurate. Sono tutte notizie che in un modo o
nell’altro paiono confermare il quadro di crisi e tensione globale che
Ferguson e Charbel dipingevano nelle loro analisi complessive. Più
costruttive le prospettive tracciate dai due ministri degli esteri
italiano e francese su La Stampa
all’indomani degli incontri romani tra i vertici dei due Stati.
Parlando da politici di professione e non da analisti politici (cioè da
costruttori di intese diplomatiche e non da osservatori di tendenze
strategiche), Frattini e Kouchner esaminano nello specifico la
situazione del Libano, elogiando il ruolo delle truppe Unifil e
prevedendo possibili sviluppi unitari e pacificatori in un Paese
finalmente padrone del suo futuro; ma rilevano anche le possibili
prospettive positive che un Libano finalmente pacificato potrà avere
sull’intera area mediorientale, incoraggiando per esempio trattative
Israele-Libano parallele a quelle già faticosamente in atto tra Israele
e Siria. Poche le notizie davvero interessanti, dal nostro punto
di vista, sugli altri settori dello scenario mondiale. L’arcivescovo
negazionista Williamson, giustamente (e tardivamente) cacciato da
Buenos Aires, giunge a Londra, a casa sua; non troppo ben accolto, ma –
appunto perché in patria – non più allontanabile. Ci segnalano il fatto
Avvenire, Libero, L’Unità.
Israele non potrà partecipare ai Giochi del Mediterraneo che si
apriranno il 26 giugno a Pescara: orrido e ormai consueto prezzo del
boicottaggio arabo e del bisogno di sicurezza in queste manifestazioni
sportive. Vibrate, sacrosante ma inutili proteste dell’ambasciatore
israeliano Ghidon Meir, mentre gli organizzatori si nascondono dietro
diplomatici e ambigui inviti alla calma e alla trattativa. Ma non pare
che i Paesi arabi abbiano intenzione di cedere sul punto: a livello
sportivo Israele per loro deve scomparire. Solo a livello sportivo? La
notizia ci giunge ancora dal Corriere, attraverso l’articolo di Gianna Fregonara. Più interessanti due spunti di riflessione, che segnaliamo in chiusura di questo commento alla rassegna stampa. Su Repubblica
Vito Mancuso, valorizzando i contenuti innovatori e i grandi meriti del
Concilio Vaticano II, ne nota però anche i limiti di ancoraggio a un
mondo ormai passato, auspicando un Vaticano III che, sulla base di quei
princìpi, possa aprirsi alle esigenze della Chiesa e ai problemi
dell’umanità di oggi, primo tra tutti quello di una “nuova teologia
della natura”. Prospettiva discutibile ma interessante, alla luce delle
polemiche e delle spinose questioni ancora aperte, dal fronte della
bioetica a quello dei rapporti con le minoranze religiose ebraismo in
testa. Sulla Stampa
Ezio Bettiza risponde da par suo – cioè con grande umanità ma insieme
con grande fermezza e chiarezza – alle accuse di razzismo anti-romeno
lanciate dal Presidente del Senato di Bucarest all’Italia. Pochi casi
deprecabili di intolleranza (a fronte di molti episodi di violenza con
protagonisti romeni) non cancellano una risposta politica complessiva
volta all’integrazione e degna di un paese civile. David Sorani |
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Israele,
Netanyahu avvia contatti con liste di destra
Tel Aviv, 25 feb - Bibi
Netanyahu spera ancora di riuscire a dar vita a un governo allargato e
ha fissato per venerdì nuovi incontri con Tzipi Livni (Kadima) e con
Ehud Barak (laburisti), ma avvia oggi i contatti per la costituzione di
un nuovo governo con le liste di destra e quelle confessionali. Oggi
Netaniahu vedrà i rappresentanti di Israel Beitenu, quindi gli
ortodossi sefarditi di Shas e quelli ashkenaziti del Fronte della
Torah. Domani vedrà i nazional-religiosi della Casa Ebraica e gli
ultranazionalisti di Unione Nazionale. Nel frattempo sulla stampa
torna a circolare il nome dell'ex dissidente sovietico Nathan (Anatoly)
Sharansky il quale, se Netanyahu formasse un governo omogeneo di
destra, potrebbe essere scelto come ministro degli Esteri.
Gaza: Hamas viola tregua e lancia due razzi, nessuna vittima Gerusalemme, 25 feb - Malgrado
la tregua fra Israele e Hamas in vigore dal 18 febbraio, due razzi sono
stati lanciati dalla Striscia di Gaza, e sono caduti in
territorio israeliano, senza tuttavia ferire nessuno. Lo dicono fonti
militari israeliane. I razzi, dal raggio d'azione corto, sono caduti
uno su un terreno incolto, l'altro su una strada, senza fare danni.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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