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L'Unione informa |
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2 giugno 2009 - 10 Sivan 5769 |
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alef/tav |
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Roberto Della Rocca, rabbino |
E’
a tutti noto il motivo per cui la Torah è stata data nel deserto,
affinché nessuno potesse rivendicare una nazionalità esclusiva della
Parola Divina. Ma forse anche per insegnarci che la ricezione della
Torah può avvenire solo se si è pronti a fare di se stessi un Midbàr, deserto. La parola Midbàr, deserto, se vocalizzata diversamente, può essere letta altresì come Medabbèr, colui che parla, in quanto Midbàr, deserto, contiene nel suo etimo la radice d-v-r, parola, appunto.
Il deserto quindi come il luogo deputato alla ricezione della
Torah, la parola di D-o, il luogo dove ci si svuota e si fa finalmente
spazio all’ascolto. In un’epoca di sovrabbondanza e di abuso delle
parole sarebbe quanto mai opportuno riscoprire quella paradossale
dimensione di un silenzio eloquente del deserto-parola. |
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Apro il settimanale tedesco Der Spiegel,
la cui copertina è dedicata ai “complici” della Shoah (che sarebbero i
non-tedeschi) e vedo la foto di un giovane lituano con in mano una
lunga sbarra di ferro, sparsi ai suoi piedi i corpi di quelli che ha
appena assassinato. In questi anni mi è successo che al groppo in gola
per le vittime, si è aggiunto il conato di vomito per i macellai, il
ribrezzo per la vertiginosa incomprensibilità di quello che hanno
fatto. Si parla spesso di scomparsa dei testimoni diretti e di quello
che accadrà al ricordo della Shoah nei prossimi anni, ma non del fatto
che molti di noi cinquantenni, pur non essendo né testimoni né figli di
sopravvissuti, sentiamo ancora questo dolore quasi fisico e questo
orrore quasi fisico per il genocidio ebraico. Lo sentiranno anche le
generazioni più giovani o per loro sarà come pensare ai massacri di
Tamerlano? E i non ebrei, lo sentono questo? Azzardo il pensiero che è
questa reazione fisica all’orrore, questa “allergia” che noi ebrei
abbiamo sviluppato (o dovremmo in ogni caso avere sviluppato) a
costituire la nostra seconda “elezione”, a darci una speciale
responsabilità, a fare di noi quasi “i canarini nella miniera” dei
totalitarismi e dei genocidi che ancora si sviluppano e ancora
avvengono. |
Marco Vigevani, agente letterario |
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Pagine d'Israele 3 – Yediot Ahronot Occhio e cuore per le notizie
In Israele si diceva: il ministro legge Maariv, il suo autista Yediot Ahronot.
Ora anche i ministri leggono Yediot, assieme ad altri 350.000 lettori
durante la settimana e 600.000 nel weekend, cifre che garantiscono al
giornale il primo posto per diffusione nel paese. Fondato nel
1939, pochi anni dopo Yediot Ahronot (di cui in alto riportiamo
un'immagine della sede) rischia di scomparire: il 14 febbraio del
1948 la redazione del giornale è vuota; quasi tutto lo staff ha seguito
l’allora direttore Azriel Carlebach che, ribellatosi all’editore Yehuda
Moses, ha deciso di creare un proprio giornale, Maariv.
Quel giorno rimarrà impresso in modo indelebile nella memoria di Dov Yudkovsky
(nell'immagine a fianco), mostro sacro del giornalismo israeliano, che
racconta: “Era sabato sera e ricevetti una telefonata di Yehuda Moses,
il quale in preda allo sconforto mi disse - ho ricevuto una lettera
spregevole -”. Carlebach dichiarava che il giorno seguente sarebbe
uscito il nuovo giornale Yediot Maariv: “Hai un’ultima possibilità. Ti
daremo dei soldi, anche se non molti. Non avete chance, perché tutto il
giornale, dal redattore all'ultimo dei venditori, si muove con me.
Quindi è meglio che accetti la situazione e salvi l’onore. In caso
contrario, tu e la tua famiglia siete destinati a sprofondare negli
abissi”. Questo sarebbe il contenuto della lettera secondo quanto
riportato da Yudkovsky in un’intervista ad Haaretz. Dopo
“l’ammutinamento” di Carlebach, Moses, uomo altero e determinato,
incarica Yudkovky e Herzl Rosenblum, che sarà caporedattore di Yediot
per quasi quarant’anni, di salvare il giornale. I due riescono a
mettere insieme una redazione a tempo di record e Yediot Ahronot
continua ad essere pubblicato nonostante tutte le peripezie. Con
il tempo, grazie ad una politica lungimirante, il giornale della
famiglia Moses non solo esce dai guai finanziari ma comincia a
guadagnare terreno nei confronti di Maariv, che fino agli anni Sessanta
è il quotidiano più diffuso del Paese. Molte delle scelte
editoriali che permetteranno a Yediot Ahronot di diventare la testata
più diffusa di Israele sono da attribuire a Dov Yudkovsky. Definito
l’ultimo dei titani del giornalismo (dopo la scomparsa di Tommy Lapid e
Adam Baruch), Yudkovsky si racconta in un’intervista a Haaretz. Nato a
Varsavia nel 1923, Dov cresce e studia ad Anversa, da dove scappa con i
genitori allo scoppio della guerra, per trovare rifugio nel sud della
Francia. La scelta, tuttavia, non si rivela felice: all'alba del
26 agosto 1942, viene arrestato dai gendarmi francesi e consegnato ai
nazisti che lo portano al campo di transito di Drancy. Una tragica
tappa verso la deportazione ad Auschwitz. “Per trentatre mesi sono
stato all’inferno. Vivevo in mezzo ad esseri umani ma non c'era nulla
di umano”. Sopravvissuto al lager, Yudkovsky torna in Belgio ma è
solo e sente di non avere futuro in Europa; decide quindi di partire
per Israele in cerca del cugino, Yehuda Moses: “improvvisamente un
contatto umano. Yehuda mi accolse e mi adottò, mi disse che casa sua,
era casa mia ”. Da questo momento il giovane entra a far parte della
famiglia Moses, potente dinastia della carta stampata, e inizia a
lavorare per Yediot Ahronot, lasciandovi un’impronta indelebile. Dopo
molti anni Yudkovsky torna ad Auschwitz e un collega gli chiede quale
sensazione si provi a ripercorrere il campo, lui risponde: “fa una
grossa differenza il mezzo con cui arrivi, se in auto o in treno”. In
circa quarant’anni il duo Moses Yudkovsky riesce a portare il
giornale a livelli inaspettati, conquistando più del cinquanta per
cento del mercato israeliano. Basti pensare che il rapporto delle
vendite con Maariv fino agli anni Sessanta era di uno a tre: Yediot
vendeva 30.000 copie al giorno, Maariv 90.000; oggi il primo vende
350.000 copie e circa il doppio nel weekend, mentre il secondo si
aggira attorno alle 130.000 al giorno e 250.000 nel fine settimana. La
chiave del successo secondo Yudkovsky è stata quella di creare un
giornale della gente, “bisogna attrarre l’occhio e il cuore del
lettore”. Yediot ha il merito di comprendere quali siano gli argomenti
di interesse per la gente comune, infatti sarà il primo giornale a
dedicare un’ampia sezione allo sport grazie alle intuizioni proprio di
Yudkovsky: “negli anni sessanta ci fu un’importante partita di calcio
fra Russia e Israele. Non ho mai avuto alcun interesse per lo sport;
allora vi dedicavamo una colonna a settimana. Partecipai alla partita
per il suo significato politico. Quando fui allo stadio di Ramat Gan,
vidi 40 mila persone in delirio. Immediatamente pensai: se 40 mila
persone impazziscono in questo modo per una partita, perché diamo loro
solo una colonna alla settimana? Quindi abbiamo introdotto una pagina
di sport al giorno, poi un supplemento settimanale, infine un
supplemento giornaliero”. Il progetto di Yediot è di conquistare
la periferia, quella fascia di popolazione emarginata che sta cercando
di integrarsi nella società locale. Una visione opposta rispetto alla
maggioranza degli altri quotidiani, la cui attenzione è rivolta alle
classi intellettuali, per poi, in un secondo momento, dirigersi verso
le altre fasce di pubblico.
Per
avvicinarsi al suo target di lettori e facilitare la diffusione, Yediot
adotta un formato simile a quello dei tabloid inglesi, snello e
leggero. Inoltre sceglie di adoperare un linguaggio semplice e
scorrevole, facilmente comprensibile anche da coloro che hanno
difficoltà con l’ebraico, in particolare gli immigrati di prima
generazione. Per questo motivo, negli anni Settanta, la redazione si
dota di una equipe di esperti con il compito di rielaborare gli
articoli con uno stile più intuitivo, veloce, simile alla lingua
parlata. Questi ghostwriters, racconta Nahum Barnea, una delle punte di
diamante del giornale, sono dei veri alchimisti, capaci di trasformare
in oro gli scarabocchi inviati dai corrispondenti. Barnea li ricorda
attraverso un’immagine romantica, seduti davanti alla macchina da
scrivere, avvolti nel fumo della sigaretta, tenuta sempre e
rigorosamente in bocca, a battere ad una velocità stupefacente
un’infinità di pezzi. Nel 1967 scoppia la guerra dei Sei giorni.
La tensione aumenta con il procedere del conflitto e l’informazione
assume inevitabilmente un ruolo centrale. Nei mesi precedenti alla
guerra, per sbaragliare la concorrenza, la redazione di Yediot Ahronot
decide di distribuire gratuitamente il giornale ai soldati. Inizia così
una diffusione su larga scala del quotidiano, in particolare fra i
riservisti, e il successo è straordinario. Yediot entra in modo
dirompente nelle case israeliane e riesce ad ottenere un consenso
trasversale, muovendo il primo passo verso la vetta, occupata da anni
dal rivale Maariv. La scelta di dedicarsi al grande
pubblico non contrasta con la ricerca di uno standard qualitativo
elevato. Per ottenere l’attenzione dell’élite del paese, Yediot riesce
ad acquistare in via esclusiva le memorie di Moshe Dayan, di Itzhak
Rabin e di Henry Kissinger e, a partire dagli anni Settanta, recluta
alcune delle firme più autorevoli nel panorama israeliano.
Fra queste troviamo Adam Baruch
(nell'immagine a fianco), giornalista, scrittore, inventore del new
journalism locale. Cresciuto nel quartiere di Mea Shearim e nipote del
rabbino Wachtfogel (direttore di una Yeshiva e dayan), Baruch è
riuscito a coniugare la tradizione ebraica con la cultura moderna
israeliana, dimostrando che le due esperienze non sono in contrasto ma
possono essere complementari. Il suo libro Seder Yom (l’Ordine della
Giornata), con il significativo sottotitolo “vita quotidiana nello
specchio della Halakha" è una dimostrazione di questo rapporto. Durante
il servizio militare Baruch Rosenblum coltiva la sua passione
giornalistica, scrivendo per Haaretz. Le regole militari, però, vietano
di scrivere per un giornale civile, quindi, per evitare di incorrere in
una pesante sanzione, sceglie il nome d'arte Adam Baruch, che l’ho
accompagnerà lungo tutta la vita. Mancato nel 2008, Adam Baruch
era dotato di una cultura straordinaria: grande conoscitore e critico
d’arte, pubblicava su questo argomento una rubrica settimanale su
Yediot Ahronot, molto apprezzata dal mondo artistico e letterario. A
dimostrazione della sua versatilità, aveva anche uno spazio su Maariv,
su cui rispondeva, da laico, alle domande di carattere religioso poste
dai lettori.
Altra grande firma di Yediot Ahronot è Nahum Barnea,
considerato dagli israeliani come il giornalista più influente degli
ultimi cinquant’anni. Premio Israele per la comunicazione nel 2007,
uomo sul campo, giornalista che tocca con mano le problematiche della
guerra, anche a rischio della propria vita. I suoi articoli descrivono
le situazioni più complesse e delicate in modo lucido e razionale, con
un realismo che a volte risulta sconcertante. Riflettendo sulle
critiche alla stampa israeliana riguardo al conflitto a Gaza, Barnea
sostiene in un’intervista al Sole 24 ore che “il problema non è se
pubblichiamo o meno le foto delle distruzioni che provochiamo a Gaza,
ma la reazione della gente. Da voi si indigna, da noi no”. Poi aggiunge
“la gente qui sta guardando il conflitto attraverso una lente
ristretta: vuole vincere e non vuole che i media facciano troppe
domande”. L’abilità di Barnea nel leggere le situazioni complesse
si è vista durante le elezioni israeliane del 1996. E’ stato il primo a
predire che il braccio di ferro fra Peres e Netanyahu si sarebbe
concluso con la vittoria di quest’ultimo. Il risultato non era affatto
scontato, infatti gli exit pole davano in vantaggio il candidato
laburista ma la vittoria fu, per soli 29.000 voti, del Likud. Riguardo
a quelle elezioni si disse “andammo a dormire con Peres, ci svegliammo
con Netanyahu”. Un ottimo giornale è fatto da bravi giornalisti,
ma non solo. Yediot, oltre ad avere fra le sue fila firme prestigiose,
ha cercato di creare un rapporto di fiducia con i suoi lettori,
sorprendendoli con titoli sensazionali e scoop da prima pagina, ma
anche coinvolgendoli con reportage di assoluta qualità. Yediot vuole
fornire al suo pubblico una visione d’insieme attraverso diversi punti
di vista; per questo annovera fra i suoi collaboratori due rabbini,
Shmuel Avidor, primo a presentare in televisione una discussione sulla
Parashà della settimana, e il fratello Menachem Hacohen, membro
laburista della Knesset. L’apertura del sito ufficiale di Yediot Ahronot, Ynet,
ha permesso al gruppo editoriale di dimostrare il suo potere anche
sulla rete: il portale conta 800 mila accessi al giorno e si attesta
fra i primi posti nella classifica dei siti più cliccati in Israele. Come
traspare dalle parole di Menachem Ganz, corrispondete in Italia del
quotidiano, Yediot Ahronot ha un assetto organizzativo ben inquadrato,
ciascuno ha il proprio spazio e lavora con massimo rigore.
L’eccezionale visibilità del giornale crea un forte senso di
responsabilità, per questo ciascun collaboratori si impegna perché il
prodotto rimanga sempre su standard elevati: analisi politiche
accurate, notizie esclusive, reportage di alto livello su questioni
spinose, ma anche titoli sensazionali ed originali, articoli di
cronaca, interviste a personaggi dello spettacolo e dello sport. Come
ha detto anni fa Yudkovsky : “se ci sono due circhi in città, uno con
cani e gatti, l’altro con leoni e tigri, il pubblico andrà a vedere il
secondo. E’ più pericoloso, ma attrae molti più spettatori”. Per questo
la gente compra Yediot Ahronot.
Daniel Reichel |
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Noterelle - Il povero Sacerdote
Si
ritorna a parlare di scuola. Immancabilmente ritorna il vecchio
problema, che da sempre investe la vita degli ebrei italiani, dai tempi
dello Stato liberale, alla riforma Gentile con le norme
sull’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nella scuola
elementare giù fino all’art. 7. Come hanno reagito e soprattutto come
pensano di reagire gli ebrei italiani a questa forma di ingerenza
ecclesiastica nella sfera dell’istruzione? In passato è (quasi) sempre
prevalsa una aprioristica adesione alle posizioni dei laici. La cosa
non mi ha mai molto convinto, l’etichetta “ebreo laico” logicamente
penso sia infruttuosa. E’ immaginabile un ebreo che non si pone il
problema del suo rapporto con Dio e con l’esperienza della fede, sia
pure graduandola o sottoponendola al vaglio della ragione? Credo che
per ogni ebreo l’idea vichiana secondo cui l’infanzia sia l’età dei
miti, dunque la più fertile per far scoccare la scintilla della fede
religiosa, sia un’idea condivisibile. Tutto dipende dalla capacità dei
Maestri che dovrebbero essere chiamati a svolgere questo compito
educativo, perché no, anche all’interno di una rinnovata scuola
pubblica, garantita da una democrazia forte e “plurale”. Certo, non può
essere imposta “una” religione nelle scuole pubbliche. Ma nemmeno
l’ipotesi laicista che affiderebbe a storici della filosofia agnostici
- sul modello Odifreddi - mi persuade. Le cose non promettono bene per
il futuro.
Contro l’ipotesi di docenti maliziosi e
impertinenti, costretti, pur di non perdere lo stipendio, “a biascicare
increduli e irriverenti” i dogmi dei credenti, nel 1923, dopo la
controversa riforma Gentile, insorgeva Benedetto Croce, rievocando
l’aneddoto del povero Sacerdote, che mi sembra non abbia perso di
attualità e perciò penso sia bene rileggerlo a futura memoria: “Era in
Napoli, nel 1860, un povero ebreo affamato, a nome Sacerdote, il quale
si piantava da più giorni in mezzo alla folla dei postulanti, innanzi
alla casa di Garibaldi, cercando vanamente di consegnargli nelle mani
una supplica per ottenere un impiego. Garibaldi, che aveva notato la
fisionomia, finalmente gli domandò con una certa impazienza: ‘Ma chi
siete? Che volete?’. E l’ebreo: ‘Generale, sono il povero Sacerdote,
che versa in grande miseria… “. Garibaldi, che credette che fosse un
‘povero sacerdote’, si rivolse al suo ufficiale di ordinanza e dispose:
’Fatelo cappellano militare’. E colui si vestì da cappellano militare” (Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bibliopolis, 1993, pp. 250).
Alberto Cavaglion |
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rassegna stampa |
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Nella
rassegna di oggi tornano i temi della Shoà. A Trieste si è aperta una
mostra dedicata al questore italiano di Fiume di quegli anni, che finì
la vita deportato a Dachau per aver aiutato a salvare un gran numero di
ebrei dai rastrellamenti nazisti. (L'Avvenire). Sull'Opinione Michael Sfaradi intervista Don Elio Vernier, che ha nascosto oltre cinquanta ebrei durante l'occupazione tedesca di Roma. Anche
Obama è andato a Buchenwald prima di proseguire per le tappe politiche
del suo viaggio in Arabia Saudita e in Egitto (cronaca sul Tempo). E' "un messaggio al popolo ebraico" sostiene Anna Guaita sul Messaggero,
ma francamente non pare un bel messaggio, soprattutto se lo accostiamo
alle numerose indiscrezioni che dicono che il governo americano avrebbe
deciso di ritirare l'appoggio a Israele all'Onu fino a che Netanyahu
non obbedirà alla sua volontà sugli insediamenti nel West Bank. Dice,
come ormai è consueto in Occidente: "onoriamo il ricordo dei vostri
morti, ma non ci piace che vi difendiate" o "da morti ci piacete, da
vivi no". Sul "pericolo" rappresentato da Obama, sul suo
"infantilismo di pensiero" e sulle ragioni sbagliate per l'adorazione
degli europei è molto interessante leggere la voce di uno storico e
politologo americano, Victor Davis Hanson, in un'ampia intervista
concessa a Marina Valensise del Foglio.
Se si vuole vedere da vicino un esempio del modo in cui gli europei
interpretano Obama come una specie di Bertinotti americano, vale la
pena di attraversare la prosa farraginosa dell'ex ambasciatore italiano
in Libano, Giuseppe Cassini, che sull'Unità
equipara sostanzialmente Al Queida e i neocon americani e prosegue con
un'idea che pochi hanno il coraggio di esprimere, una specie di resa
esplicita e formalizzata dell'Occidente al mondo islamico: " La mia
proposta è di aprire un Forum in cui i Paesi occidentali e
l'Organizzazione della Conferenza Islamica (57 Paesi) si incontrino. La
Dichiarazione finale dovrebbe contenere un obiettivo realistico:
concordare una hudna tawila (tregua lunga) di dieci anni. Persistere in
questa guerra d'attrito impedisce a tutti quanti di rispondere con la
dovuta urgenza alle sfide cruciali cui il mondo è confrontato." Ma se
bisogna fare una tregua, caro ambasciatore, allora la guerra c'è,
proprio il famoso scontro di civiltà... questo è il solo dato
apprezzabile di questo intervento. A proposito dell'atteggiamento europeo verso Israele e del diffondersi dell'antisemitismo, leggiamo sul Jerusalem Post un'analisi molto allarmata di Isi Leibler. Un punto di vista ottimistico è invece quello di Joshua Muravchik, che in un articolo molto documentato sul Wall Street Journal,
sostiene che gli islamisti starebbero perdendo terreno nel mondo arabo,
avendo avuto risultati elettorali non soddisfacenti in Marocco, Turchia
e Kuwait: aspettiamo il Libano... Nel frattempo i segnali di
allarme si infittiscono: ieri l'Egitto ha negato di considerare
prioritario il problema dell'atomica iraniana rispetto alla questione
palestinese (Francesco Battistini sul Corriere),
contrastando la strategia di Netanyahu. Il gruppo di indagine sui
presunti "crimini di guerra" israeliani a Gaza organizzato dal comitato
dei diritti umani dell'Onu (quello di Durban 2, presieduto dalla Libia)
è arrivato nella striscia passando per l'Egitto, dopo che Israele si è
rifiutata di collaborare a un'inchiesta che considera prevenuta in
partenza (Michele Giorgio sul Manifesto). Ancora, (Antonio Picasso su Liberal) si rafforza l'alleanza fra Iran e Hezbollah, probabile vincitore delle elezioni in Libano (Ugo Tramballi sul Sole 24 ore), dove sono ormai una trentina le pretese "spie di Israele" arrestate (L'Avvenire):
una cifra assurda, che supporrebbe un totale dilettantismo di chi
avesse organizzato una rete così vasta e così pericolosa senza
compartimentarla. E' probabile che si tratti piuttosto di un'epurazione
politica che ormai è arrivata fino ai colonnelli dell'esercito. Dimitri
Buffa sull'Opinione
riferisce di una strategia non solo elettorale di Hezbullah al servizio
dell'Iran: suoi esponenti sarebbero per esempio i terroristi arrestati
negli scorsi giorni in Azerbaidjan sotto l'accusa di organizzare un
attentato all'ambasciata israeliana di Baku. Per quanto riguarda
la situazione iraniana, è da seguire con attenzione la situazione al
sudest del paese (al confine con Pakistan e Afganistan), dove sta
nascendo una sorta di sommossa sunnita (Vanna Vannucchini su Repubblica, Alberto Negri sul Sole).
Questo spiegherebbe la violenza immediata della reazione all'attentato
di alcuni giorni fa, con impiccagioni immediate di presunti
fiancheggiatori. In questo momento molto critico è certamente
necessario uno sguardi di prospettiva sulla situazione in Medio
Oriente, che eviti i luoghi comuni: un ragionamento lucido e
interessante, anche se fatto per dispiacere ai sostenitori del mantra
dei due stati è quello di Moshe Arens su Haaretz:
qualunque scelta si voglia fare, sostiene l'autore, essa sarà resa
possibile solo dalla sconfitta preventiva del terrorismo palestinese.
Il fatto è che per chi viva a "Oslo, Berlin, Paris, Madrid, Amsterdam,
Edinburgh, London, Stockholm or Washington" la nostra realtà è
difficile da capire, sostiene un editoriale anonimo del Jerusalem Post.
Forse assistere all'esercitazione difensiva che oggi alle 11 ha
bloccato la vita delle città israeliane potrebbe aiutare a capire. Per
capire è anche utile la testimonianza molto emotivamente ricca di
Carolyn Glick sugli ultimi sessant'anni di Gerusalemme sulla linea del
fronte del conflitto arabo-israeliano (sempre sul Jerusalem Post) Per quanto riguarda l'Europa, da leggere con molta attenzione critica l'articolo di Luigi Offreddu sul Corriere,
che mette in campo un argomento che certamente avrà buona parte nel
dibattito successivo alle elezioni europee, e cioè il prevalere in
molti stati di movimenti contrari all'immigrazione e diffidenti nei
confronti dell'Unione Europea. Offreddu dà di questo fenomeno una
lettura molto imprecisa, mettendo insieme per esempio i fascisti
austriaci, la pagliacciata francese della "lista antisionista" del
comico Dieudonné e il "partito della libertà" olandese di Geert
Wilders che invece è un liberale e probabilmente uscirà questa volta
come la lista più votata dei Paesi bassi. Al di là dello scarso
afflusso alle elezioni, che Offreddu offre come giustificazione
preventiva dei risultati, è evidente che in Europa c'è un crescente
distacco fra il "politicamente corretto" delle istituzioni comunitarie
e le inquietudini dell'elettorato. Se queste inquietudini per la
prospettiva di dominio islamico che è stata chiama "Eurabia" non viene
raccolto dalle forze politiche democratiche, vi è il rischio concreto
di una deriva fascista. Fra le frivolezze, segnaliamo che Madonna ha deciso di tenere un concerto in Israele a settembre (Il Tempo).
Dopo altri cantanti e gruppi rock importantissimi che si sono esibiti
quest'anno,come i Depeche Mode, i Pet Shop Eoys o Leonard Cohen, il
concerto segnala il fallimento del boicottaggio di Israele, tentato
anche su questo piano dalle organizzazioni antisioniste, soprattutto
inglesi.
Ugo Volli |
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notizieflash |
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Medio
Oriente: il piano di pace di Barack Obama
e lo scetticismo israeliano Tel Aviv, 1 giu - Il
presidente degli Stati Uniti Barack Obama, al fine di rilanciare il
piano di pace in Medio Oriente, vuole fare affidamento su una versione
rinnovata dell’iniziativa saudita di qualche anno fa. L’establishment
israeliano ha manifestato il suo scetticismo in merito. Ghiora Eiland,
ex Consigliere della sicurezza nazionale e voce ascoltata nello staff
dell'attuale primo ministro, Benyamin Netanyahu, nel corso di un forum
con giornalisti e analisti svoltosi oggi a Tel Aviv, ha detto a tal
proposito: "L'iniziativa araba sembra moderata e amichevole, offrendo
il riconoscimento di Israele da parte di oltre 50 Paesi musulmani se
Israele si metterà d'accordo con i palestinesi e con la Siria e si
ritirerà da Cisgiordania e Golan". "A uno sguardo più profondo - ha
però sottolineato - non è un gran contributo alla pace, poiché si
limita a promettere la normalizzazione dei rapporti con il complesso
degli Stati arabi, molti dei quali lontani, solo dopo che Israele abbia
raggiunto un accordo coi vicini, fondato di fatto sull'accettazione di
tutte le condizioni di Siria e Anp". "Obama lo capisce - ha proseguito
Eiland - ed è per questo che sta cercando di spingere alcuni governi
arabi a concedere qualcosa fin da subito, come l'avvio di contatti
economici con Israele, per contribuire almeno a favorire un clima
negoziale". Pressioni che tuttavia - ha concluso - "non prevedo
produrranno novità, neppure simboliche" rispetto al rifiuto di aprire
spiragli se non ad accordo con i palestinesi fatto.
Russia - Israele , l’incontro di Lavrov e Lieberman a Mosca Mosca, 2 giu - Prospettive
di risoluzione della crisi mediorientale e il futuro delle relazioni
bilaterali fra Russia e Israele, questi gli argomenti principali che
verranno trattati nell’incontro, attualmente in corso a Mosca, fra i
ministri degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman e quello russo
Serghiei Lavrov. "La nostra collaborazione si sviluppa e acquista
sempre maggiore qualità", ha detto Lavrov in apertura di incontro. "Noi
apprezziamo l'approccio costruttivo della Russia nella problematica
mediorientale", ha detto da parte sua Lieberman, il quale ha espresso
la speranza che la sua visita a Mosca potrà contribuire a elevare e
intensificare il dialogo tra i due paesi. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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