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L'Unione informa |
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8 giugno 2009 - 16 Sivan 5769 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma |
La
tragedia dell'airbus francese, di cui cominciano ad affiorare le prime
vittime, pone, dopo il terribile impatto umano, tanti problemi
sulle cause e sulle conseguenze. Tra gli altri, ricompare un problema
giuridico antichissimo, quello della presunzione della morte di una
persona scomparsa in mare o in una qualsiasi raccolta di acque. Il
problema è ampiamente discusso nelle nostre fonti, che introducono
un'interessante distinzione, tra le acque "che hanno fine", che sono
quelle in cui i limiti del bacino sono visibili a occhio nudo, e quelle
che non hanno fine (TB Yevamot 121b). La regola, è che solo nel primo
caso c'è una ragionevole presunzione, perché altrimenti il
sopravvissuto sarebbe ricomparso; nell'altro caso le onde e le correnti
possono aver trascinato altrove la persona che può essere
sopravvissuta. Ovviamente questo è solo un elemento di una discussione
giuridica molto complessa, che purtroppo si arricchisce continuamente
di nuovi dati. |
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Bene ha fatto David Bidussa
a ricordarci ieri, mentre si votava per un'Europa che dovrebbe in
quanto tale essere un'unione di Stati liberi e volti a garantire le
libertà di tutti, le inadiempenze di noi europei sui diritti umani, i
nostri compromessi con i tiranni del mondo. Ora, le elezioni
europee portano in Parlamento, per la prima volta in maniera
significativa, esponenti dichiaratamente antieuropei, nazionalisti,
razzisti. E così l'Europa, nata come un sogno di libertà e di
universalismo, minaccia di diventare la patria di un tetro
"nazionalismo europeo". Il sogno si trasforma in un vero incubo. Ma,
proprio perché soffiano venti tanto estremi, è ancor più ora di
rinunciare alle nostre chiusure, alle nostre viltà, e di assumere,
in quanto europei, finché ancora siamo in grado di farlo, le battaglie
per la libertà, per i diritti umani. Finché in Europa ancora governano
forze, siano esse conservatrici o socialiste, ancora liberali, ancora
aperte all'idea europeista, ancora attente alle libertà in pericolo, ai
diritti umani conculcati, ovunque essi siano. |
Anna Foa,
storica |
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Il multiculturalismo della Biennale di Venezia e la direzione di Daniel Birnbaum
E' forse
più multiculturale in assoluto, l'edizione della Biennale di Venezia
che ha appena aperto al pubblico. La 53° Esposizione Nazionale d’Arte,
visitabile fino al 22 novembre all’Arsenale, al Giardino delle Vergini
e ai Giardini di Castello, ha superato se stessa innanzitutto quanto a
partecipazioni nazionali, che quest’anno sono ben 77, con molte new entries fra cui Emirati Arabi e, come evento collaterale, Palestina c/o Venice.
Ma, al di là dei numeri, multiculturale e multicentrica è soprattutto
l’impostazione data alla mostra internazionale dal direttore di questa
edizione, Daniel Birnbaum (1963 - nell'immagine in alto), svedese trapiantato a Francoforte dove dal 2001 è rettore della Staedelschule
di Francoforte sul Meno. Dal lavoro dei 90 artisti invitati,
rigorosamente provenienti da tutto il mondo non solo non emerge più
alcun “punto di vista” dominante, ma nemmeno una qualche estetica
“forte”, dai valori visuali ben definiti e riconoscibili. In altre
parole: in nessun punto della mostra internazionale ci si sente davvero
“colpiti” da un lavoro, un’installazione o un pensiero trasformato
in forme visibili. Da una
sala all’altra, sotto le maestose volte e gallerie dell’Arsenale o
nello spazio del Padiglione ai Giardini, l’impressione è piuttosto
quella di scivolare da un racconto all’altro (qualche volta incompiuto
o ancora in progress) e da una dimensione espressiva all’altra ma tutte sostanzialmente equivalenti e assolutamente politically correct:
con parecchie trovate divertenti o graziose, e anche una certa tendenza
a glissare dall'“impegno” politico frontale e diretto per ricorrere a
vie oblique più lunghe e più ambigue, a parte forse i deja vu
anti-imperialisti di Rirkrit Tiravanija (Argentina) o di Anawana Haloba
(Zambia). Ma soprattutto l’arte apprezzata da Birnbaum è tutto
sommato gradevole, talvolta meditabonda, melanconica, sottile,
predilige gli interstizi, le pieghe del linguaggio e non esce
volentieri sulle superfici aperte. D’altra parte il titolo stesso di
questa mostra, Fare mondi, sottolinea
è vero il rispetto del curatore per l’atto creativo puro (un segno se
preso sul serio è già un mondo, dice nel suo statement) ma è un
contenitore aperto veramente a tutto, a qualunque cosa, forma ed
esperienza all’insegna del più trasparente, onnivoro e onnicomprensivo
eclettismo.
In un certo senso il Padiglione Israeliano, dedicato quest’anno alla retrospettiva di Raffi Lavie
(1937-2007), artista nato e vissuto a Tel Aviv che più di ogni altro
rappresenta i “valori urbani, laici e locali incontaminati dalle
narrative di qualsiasi ideologia determinata”, si legge
nell’introduzione alla mostra, risulta in qualche misura coerente con
questa scelta curatoriale: Raffi Lavie (nell'immagine una delle sue
opere) è uno che ha rivendicato la “periferia” israeliana
rispetto ai fasti del “Centro” occidentale, che ha portato a casa
estetiche correnti negli anni sessanta e settanta, guardando a Jean
Dubuffet e a Robert Rauschenberg, ma adattandole a un contesto locale
dominato dalle presenze di artisti come Aviva Uri e Arie Aroch; che ha
lavorato per sottrazione invece che per aggiunta, componendo immagini a
base di pennellate libere, ingenue come di cancellature, abrasioni e
ampie emergenze di vuoto; che ha sempre prediletto materiali poveri ed
umili, come il compensato, per segnalare la doppia marginalità,
geografica e spirituale, dell’essere israeliano ed ebreo. Tutte cose
che, sulla carta, possono ben piacere a Birnbaum, anche se poi sul
piano estetico i quadri di Lavie, con la loro discreta ma precisa
appartenenza a un’ideale di pittura decisamente storicizzato, non vanno
troppo d’accordo con i linguaggi più diffusi e attuali oggi, al cui
confronto risultano esili e poco comprensibili da parte del pubblico
non israeliano.
Cavalcano
invece l’onda dell’antagonismo e della rivendicazione aperta, senza
preoccuparsi troppo o niente affatto dei “valori visivi”, gli artisti
selezionati a rappresentare la Palestina c/o Venezia
(il cui spazio alla Giudecca era l’unico in cui i cataloghi, pur
ampiamente sponsorizzati, venivano venduti anche alla stampa nei giorni
dell’inaugurazione “per sostegno alla causa”), prima fra tutti Emily Jacir,
vincitrice del Leone d’Oro per la migliore artista under 40 la scorsa
edizione, e adesso impegnata ad “arabizzare” le fermate del vaporetto
della linea 1 (quella che fa il Canal Grande) per sottolineare "secoli
di scambi interculturali tra Venezia e il Mondo Arabo, chiaramente
visibili sulle rive del canale" e forse anche per alludere a scenari
futuri di radicale trasformazione culturale ed etnica della città
lagunare. Un intervento che ha suscitato l’immediato entusiasmo di
Arianna Di Genova dalle colonne del Manifesto
e che invece suona prepotente, aggressivo e falsificante sul piano
storico. Venezia, che ha evidentemente combattuto arabi e turchi (vd
Lepanto) è certo la città più orientale della penisola, la “porta
d’Oriente”: ma di un ‘Oriente che nei secoli è stato bizantino, armeno,
naturalmente ebraico, copto, siriaco, greco e quant’altro prima che
arabo. È stato culla di tutte quelle civiltà che a un certo punto sono
state conquistate dagli arabi cui hanno in parte trasmesso quel
complesso e ricco insieme di capacità tecniche e di linguaggi artistici
che è ben evidente per esempio nella Grande Moschea di Damasco,
probabilmente costruita dalle stesse maestranze che pochi anni prima
lavoravano per gli imperatori di Bisanzio.
Infine: ci si
permette di chiedere a Emily Jacir e anche ad Arianna Di Genova come
pensa reagirebbe il sindaco di Damasco o di un’altra città araba se un
artista europeo decidesse di riscrivere i nomi delle strade e dei
monumenti in greco o italiano ?. Si urlerebbe immediatamente al
neo-colonialismo. E forse si procederebbe a un rapido arresto
dell’artista. Da noi invece si inneggia all’apertura e alla gioia. Però
intanto dal fondo oscuro del cuore d'Europa riemergono a preoccupante
velocità xenofobia e razzismo della specie più cruda e primitiva.
Chissà forse anche l'arte farebbe bene a porsi il problema.
53°
Esposizione Nazionale d’Arte, Giardini-Arsenale e varie sedi, Venezia,
fino al 22 novembre. Orario: 10 - 18 tranne il lunedì (Giardini)
e il martedì (Arsenale). Biglietti: euro 18; ridotto 8/15 euro. info:
041.5218828. Catalogo Marsilio. www.labiennale.org Martina Corgnati, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia Albertina di Torino
I nuovi percorsi della Wizo europea, donne leader all'incontro di Roma
"Mi considero fortunata a essere donna ed ebrea" ha dichiarato Fiamma Nirenstein,
giornalista, scrittrice e attualmente deputata alla Camera, per il
Popolo della Libertà dove ricopre il ruolo di vicepresidente della
Comissione Affari Esteri e Comunitari, intervenendo al Consiglio
annuale delle Federazioni Wizo europee che si svolge in questi giorni
al Centro Bibliografico dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. La
giornalista ha ripercorso le varie fasi della sua vita, dal viaggio in
Israele pochi giorni prima che scoppiasse la Guerra dei sei giorni, al
suo lavoro di inviata speciale, fino al suo attuale incarico di
deputata nel Parlamento italiano rivendendole alla luce della sua
identità ebraica e del suo grande amore per la terra di Israele. Le
adeine, che si incontrano in questi giorni per il Convegno Wizo
europeo, dovranno eleggere in questo ambito il nuovo esecutivo,
discuteranno alcune importanti modifiche nella costituzione della Wizo
europea (ECWF) ed esamineranno i percorsi possibili per
realizzare un maggior coinvolgimento delle donne ebree all'ONU, al
Consiglio d'Europa e alla European Women's Lobby. Al convegno che
si svolge in questi giorni a Roma sono presenti oltre alla
presidentessa Wizo mondiale Helena Glaser rappresentanti delle donne
ebree di Austria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Belgio, Svizzera,
Finlandia, Danimarca e ovviamente Israele. L'Italia è rappresentata da
Roberta Nahum.
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La voce del Signore nella tenda della adunanza e la relazione tra un Io e un Tu
“Quando
Mosè entrava nella tenda della adunanza per udire la parola del
Signore, egli udiva la voce che si faceva sentire rivolta a lui dal di
sopra del coperchio che era sull’Arca della Testimonianza, tra i due
cherubini; da lì il Signore gli parlava” (Num 7, 89). Da Rashi a
Sforno, da Leibowitz a Lévinas, questo versetto è stato variamente
interpretato nell’ermeneutica ebraica. Fra l’altro c’è un particolare
che non deve sfuggire. La Voce che viene dall’alto passa tra i due cherubini prima di uscire nella tenda della radunanza o dell’incontro. Il tra,
il frammezzo che separa e unisce i due cherubini, lo spazio in cui la
Voce si declina in un parlare umano nella tenda, è lo spazio della
relazione interpersonale, tra un io e un tu. Così si può dire che solo in questo tra la Parola divina è udibile, articolabile, comprensibile. Ma si può anche dire che divina è, per la Torah, la parola che si dà tra un io e un tu. Si dovrebbe riflettere su questo in un’epoca, come la nostra, segnata dall’incapacità di ascoltare.
Donatella Di Cesare, filosofa
Diario di viaggio - Patrick Debois archeologo coraggioso dell'orrore
Padre
Patrick Desbois ha ricevuto ieri la laurea honoris causa
dall'Università Ebraica di Gerusalemme. Il sacerdote francese da sette
anni ricerca capillarmente, in Ucraina e Bielorussia, ma prossimamente
anche in Polonia e Russia, le fosse comuni degli ebrei uccisi in quello
che egli usa chiamare "l'Olocausto delle pallottole". Niente campi e
forni, ma la sistematica eliminazione di tutti gli ebrei dei villaggi
rurali attraverso un macabro tiro a segno, secondo la direttiva tedesca
"un corpo una pallottola". Ovvero, non più di un
proiettile "sprecato" per la feccia dell'umanità: i fortunati
muoiono subito, gli altri vengono comunque sepolti vivi, coperti da
cataste di cadaveri o di agonizzanti, sui quali ai bambini ucraini
viene richiesto di ballare, per schiacciarli e quindi fare più posto.
Non sono casi sporadici. Finora padre Desbois ha trovato più di 800
fosse comuni, alcuni grandissime, con i resti di 45.000 corpi, altri a
dimensione familiare, per un totale, finora, di un milione e 200 mila
persone. In questo genocidio capillare gli occupanti tedeschi si
avvalgono della "manodopera" locale: civili ucraini, contadini
perlopiù, donne, bambini, allettati da benefici - tra i quali la
possibilità di impadronirsi dei beni degli ebrei - o costretti con le
minacce. Proprio attraverso di loro padre Desbois, archeologo
dell'orrore, riesce a risalire alle fosse comuni. "Per sessant'anni si
sono tenuti dentro il ricordo dell'atrocità" - racconta - "ora
prima di morire vogliono liberarsene, e forse il fatto che io sia un
prete li aiuta ad aprirsi". Ma dopo tanto tempo, i ricordi non sono
vaghi, poco credibili? "Al contrario, precisissimi anche nei minimi
dettagli, ricordano il colore dei capelli, il vestito, le ultime
parole.. E' come se il ricordo, sepolto nella coscienza, emerga
intatto, un po' come a Pompei, dove la lava ha seppellito senza
alterare corpi e reperti. Come riesce a farli raccontare? "Con una
tecnica che andiamo via via affinando. Di solito il ricordo, di cui non
sono nemmeno consapevoli, emerge rievocando un dettaglio, per esempio
il colore del cavallo che tirava il carretto con cui trasportavano i
morti, o il nome di un fiore sul percorso.... Appena il ricordo
sale alla coscienza diventa irrefrenabile: parlano a volte per ore, e
noi registriamo e filmiamo tutto". Non ha avuto difficoltà con le
autorità locali? "Che domanda! Certo, e grandissime, ma questo non ci
impedisce di andare avanti." Come spiega, lei che è un religioso, che
tante persone siano state disposte a collaborare in queste
atrocità? "E' una domanda che lascio agli altri, perchè se cominciassi
a cercare di rispondere, farei quello invece di andare a cercare le
fosse. La gente di pensiero è tanta, filosofi, scienziati, storici,
psicologi. La gente d'azione pochissima". C'è un tono di insofferenza
nella voce di padre Desbois: è chiaro che si riferisce a chi pontifica
su comode poltrone. Lui invece rischia la pelle, ciò che sta facendo
richiede coraggio e determinazione, e sa benissimo che rischia ogni
giorno la vita. Ma non ci furono anche lì dei giusti, gente che cercò
di salvare gli ebrei? "Certo, ma furono trucidati con tale crudeltà da
scoraggiare gli imitatori. Ci hanno raccontato di famiglie di contadini
ucraini squartati ed esposti al mercato perchè nascondevano gli
ebrei.." Ci sono degli ebrei sopravvissuti? "Pochissimi. Nei piccoli
paesi si sa tutto di tutti, e la delazione è facile. Ho incontrato un
paio di sopravvissuti: bambini allora, che, sepolti vivi, sono
riusciti, grazie alla taglia minuscola, a farsi strada e uscire da
sotto la catasta dei cadaveri". Che cosa la spinge a fare questo
lavoro? "Il desiderio di dare un nome e un ricordo a questi morti
senza nome e senza ricordo. Secondo la tradizione ebraica, il loro
spirito aleggia infelice finché non è degnamente seppellito". Ma lei
apre le fosse comuni? "Me ne guardo bene. Non è compito mio, semmai dei
rabbini. Io cerco le testimonianza e le localizzo, a volte anche con
l'aiuto di metal detector (denti d'oro, fedi, catenine rimasero spesso
sui cadaveri, tant'e' vero che nel tempo si è sviluppato un macabro
commercio di questi reperti). Il mio compito lo considero esaurito
quando ho dato un nome a ogni morto." Complimenti, padre Desbois. E' un
onore e un premio conoscere una persona come lei.
Viviana Kasam |
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Al
centro della rassegna vi sono le elezioni; ma quelle libanesi, non
quelle europee che dominano i giornali del nostro continente (su cui è
riportato solo l'articolo di Caterina Maniaci su Libero,
anche se il risultato andrebbe molto meditato, essendo il frutto di
temi che ci riguardano e ci coinvolgono, come il rifiuto generale dell'
dell'elettorato all' islamizzazione strisciante del nostro continente). In
Libano ha vinto la vecchia maggioranza antisiriana e tendenzialmente
anti-Hezbollah. Ne sono convinti tutti, a parte il solito De
Giovannangeli sull'Unità. Lorenzo Cremonesi, per esempio in un articolo sul Corriere dichiara che "Hezbollah non sfonda", in un altro, sempre sul Corriere,
parla di "delusione del Partito di Dio". In sostanza il fronte
filo-occidentale avrebbe ottenuto 70 dei 128 seggi elettorali, un
risultato buono anche perché il rigido meccanismo costituzionale
libanese, con una rappresentanza precostituita per gruppi religiosi,
assegnava in partenza la maggior parte dei seggi. E' soprattutto il
blocco cattolico, che si presentava diviso a queste elezioni, ad aver
determinato il risultato, bocciando il generale Aiun e la sua
innaturale alleanza con gli estremisti sciiti. Bisogna registrare così
intanto una seria battuta d'arresto al piano egemonico iraniano in
Medio Oriente. E certo non è sbagliato leggere in questo risultato
l'effetto della deterrenza israeliana esercitata negli ultimi due anni:
i libanesi hanno scelto di non farsi governare da un branco di fanatici
che vedono nel conflitto con Israele e nell'instaurazione di un regime
islamico i capisaldi della loro azione: in sostanza non vogliono né la
guerra né quel velo che non dispiace a Obama. Il problema è quello che
succederà nei prossimi giorni, come dice Ugo Tramballi sul Sole
subito dopo aver affermato che "Hezbollah ha perso" : ci saranno
nuovi attentati, nuovi moti di piazza? O Hezbollah accetterà
pacificamente il risultato? Impossibile dirlo. Ancora più inquietante l'ipotesi di Gian Micalessin sul Giornale:
"il vero colpo grosso potrebbe metterlo a segno questa settimana
l'inviato di Barack Obama George Mitchell, spedito a Damasco per
convincere il regime di Bashir Assad a chiudere ogni rapporto di
collaborazione l'Iran. il ribaltamento dì fronte prevederebbe il
sacrificio di Beirut e il suo ritorno sotto l'influenza di Damasco, ma
spezzerebbe l'asse iraniano sciita segnando la prima vittoria della
nuova strategia anti iraniana della Casa Bianca." Sarebbe veramente il
colmo dell'illusione di grande politica da apprendisti stregoni
regalare un'altra volta il Libano, che è l'unico paese arabo abbastanza
democratico da rendere significative delle elezioni, alla più torva
delle dittature della regione, il cui atteggiamento filo-iraniano non è
affatto un capriccio, ma la necessità vitale di contare e sopravvivere.
E' improbabile che una scelta così folle venga fatta, ma già il fatto
di immaginare la possibilità di una tale inutile resa qualifica il
masochismo strategico in vesti machiavelliche che caratterizza la più
velleitaria e dilettantistica politica estera americana da decenni a
questa parte, nonostante il culto mediatico di Obama, accuratamente
costruito dagli spin doctor. Sul tema, da meditare l'articolo di Morton
Klain sul Jerusalem Post,
in cui si parla di "inquietante trasformazione di Hilary Clinton su
Israele" – Clinton cui Obama avrebbe "passato il testimone" sulla
questione degli insediamenti, secondo Anna Guaita sul Messaggero. A questo proposito, va letto con attenzione l'articolo sulla "bufala delle colonie" pubblicato da Charles Krauthammer sul Jerusalem Post,
che espone lucidamente quanto sia innaturale concentrare sul problema
degli insediamenti il fulcro del discorso sui due stati. Sempre sul Jerusalem Post,
è utile l'editoriale non firmato che contesta il legame fra la
fondazione dello Stato di Israele e la Shoà, contenuto nel discorso di
Obama al Cairo. A cui Netanyahu ha deciso di risponde con un discorso pubblico altrettanto annunciato (Il Giornale, Il Messaggero), in cui preciserà la posizione israeliana e presenterà un suo piano di pace, mettendo al primo posto la sicurezza (Il Sole). Interessante infine l'intervista del corrispondente di Le Monde, con una dei "giovani delle colline", che sostengono gli insediamenti anche contro la volontà del governo israeliano.
Ugo Volli |
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notizieflash |
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Walter Arbib a Sorgente di vita: “Attraverso il mondo per aiutare gli altri” Roma, 8 giu - I
ricordi del 4 giugno a Roma, un’intervista con il benefattore Walter
Arbib e il “Moked” a Milano Marittima sono gli argomenti della puntata
di Sorgente di vita di questa sera. Alcuni ebrei romani raccontano il
loro 4 giugno del 1944: i tedeschi in fuga e l’arrivo degli
americani,
l’euforia della liberazione, la gioia di assaporare il pane bianco, le
sigarette e la cioccolata. E poi le immagini della mostra al Museo
ebraico di Roma e la cerimonia per ricordare la riapertura del Tempio
Maggiore. Nel secondo servizio viene presentato un profilo di Walter
Arbib: la fuga da Tripoli nel 1967, l’accoglienza in Italia, il
successo come imprenditore in Canada, il debito di riconoscenza verso
il nostro paese, l’ impegno di solidarietà con missioni umanitarie
dall’Etiopia al Darfur, dal Medio Oriente al terremoto in Abruzzo.
L’ultimo servizio è dedicato al “Moked” a Milano Marittima, dove
giovani e famiglie con bambini provenienti da tante città
italiane si
sono incontrati per mettere a fuoco il tema dell’educazione ebraica. Ne
parlano a Sorgente di Vita rav Roberto Della Rocca, direttore del
DEC, rav Benedetto Carucci Viterbi, lo psicologo Daniel Segre e il
professor
Gavriel Levi. La replica questa notte alle ore 1:20, e ancora lunedì 15
giugno alle ore 7 del mattino.
Per vedere i servizi delle puntate precedenti clicca qui
Elezioni
in Libano,
Israele: “Il nuovo governo impedisca attacchi” Gerusalemme, 8 giu - “Qualsiasi
governo che sarà formato a Beirut dovrà fare in modo che il Libano non
sia usato come base per violenze contro Israele e contro i suoi
cittadini" - così recita il comunicato diffuso oggi dal ministero
degli Esteri israeliano che segue con interesse, come il resto degli
Stati della regione e la comunità internazionale gli sviluppi politici
in Libano. "Spetta al governo libanese - prosegue il comunicato -
operare per rafforzare la stabilità e la sicurezza nel suo territorio,
porre fine al contrabbando di armi e attuare le risoluzioni del
Consiglio di sicurezza, prime fra tutte le risoluzioni n.1559 e 1701.
Israele considera il governo libanese responsabile di qualsiasi azione
militare o di altro genere proveniente dal suo territorio". La
risoluzione 1559 del 2 settembre 2004 chiede al Libano di ristabilire
la sua sovranità su tutto il territorio nazionale, il ritiro delle
"forze straniere", la fine delle "ingerenze straniere" nella politica
interna libanese e il disarmo di tutte le milizie libanesi e non. La
1701, approvata l'11 agosto 2006, pose fine al conflitto
israelo-libanese di quell'anno. La risoluzione chiedeva la fine totale
delle ostilità, il ritiro delle truppe israeliane dalle aree occupate
in sud Libano, lo stazionamento di una forza potenziata dell'Unifil, il
disarmo degli Hezbollah, il pieno controllo del governo libanese su
tutto il territorio dello stato e vietava la presenza di forze
paramilitari a sud del fiume Litani.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
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