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L'Unione informa
 
    8 giugno 2009 - 16 Sivan 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
La tragedia dell'airbus francese, di cui cominciano ad affiorare le prime vittime, pone, dopo il terribile impatto umano, tanti problemi sulle cause e sulle conseguenze. Tra gli altri, ricompare un problema giuridico antichissimo, quello della presunzione della morte di una persona scomparsa in mare o in una qualsiasi raccolta di acque. Il problema è ampiamente discusso nelle nostre fonti, che introducono un'interessante distinzione, tra le acque "che hanno fine", che sono quelle in cui i limiti del bacino sono visibili a occhio nudo, e quelle che non hanno fine (TB Yevamot 121b). La regola, è che solo nel primo caso c'è una ragionevole presunzione, perché altrimenti il sopravvissuto sarebbe ricomparso; nell'altro caso le onde e le correnti possono aver trascinato altrove la persona che può essere sopravvissuta. Ovviamente questo è solo un elemento di una discussione giuridica molto complessa, che purtroppo si arricchisce continuamente di nuovi dati.
Bene ha fatto David Bidussa a ricordarci ieri, mentre si votava per un'Europa che dovrebbe in quanto tale essere un'unione di Stati liberi e volti a garantire le libertà di tutti, le inadiempenze di noi europei sui diritti umani, i nostri compromessi con i tiranni del mondo. Ora, le elezioni europee portano in Parlamento, per la prima volta in maniera significativa, esponenti dichiaratamente antieuropei, nazionalisti, razzisti. E così l'Europa, nata come un sogno di libertà e di universalismo, minaccia di diventare la patria di un tetro "nazionalismo europeo". Il sogno si trasforma in un vero incubo. Ma, proprio perché soffiano venti tanto estremi, è ancor più ora di rinunciare alle nostre chiusure, alle nostre viltà, e di assumere, in quanto europei, finché ancora siamo in grado di farlo, le battaglie per la libertà, per i diritti umani. Finché in Europa ancora governano forze, siano esse conservatrici o socialiste, ancora liberali, ancora aperte all'idea europeista, ancora attente alle libertà in pericolo, ai diritti umani conculcati, ovunque essi siano.  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Birnbaum Il multiculturalismo della Biennale di Venezia
e la direzione di Daniel Birnbaum

E' forse più multiculturale in assoluto, l'edizione della Biennale di Venezia che ha appena aperto al pubblico. La 53° Esposizione Nazionale d’Arte, visitabile fino al 22 novembre all’Arsenale, al Giardino delle Vergini e ai Giardini di Castello, ha superato se stessa innanzitutto quanto a partecipazioni nazionali, che quest’anno sono ben 77, con molte new entries fra cui Emirati Arabi e, come evento collaterale, Palestina c/o Venice. Ma, al di là dei numeri, multiculturale e multicentrica è soprattutto l’impostazione data alla mostra internazionale dal direttore di questa edizione, Daniel Birnbaum (1963 - nell'immagine in alto), svedese trapiantato a Francoforte dove dal 2001 è rettore della Staedelschule di Francoforte sul Meno. Dal lavoro dei 90 artisti invitati, rigorosamente provenienti da tutto il mondo non solo non emerge più alcun “punto di vista” dominante, ma nemmeno una qualche estetica “forte”, dai valori visuali ben definiti e riconoscibili. In altre parole: in nessun punto della mostra internazionale ci si sente davvero “colpiti” da un lavoro, un’installazione o un pensiero trasformato in forme visibili. Da una sala all’altra, sotto le maestose volte e gallerie dell’Arsenale o nello spazio del Padiglione ai Giardini, l’impressione è piuttosto quella di scivolare da un racconto all’altro (qualche volta incompiuto o ancora in progress) e da una dimensione espressiva all’altra ma tutte sostanzialmente equivalenti e assolutamente politically correct: con parecchie trovate divertenti o graziose, e anche una certa tendenza a glissare dall'“impegno” politico frontale e diretto per ricorrere a vie oblique più lunghe e più ambigue, a parte forse i deja vu anti-imperialisti di Rirkrit Tiravanija (Argentina) o di Anawana Haloba (Zambia). Ma soprattutto l’arte apprezzata da Birnbaum è  tutto sommato gradevole, talvolta meditabonda, melanconica, sottile, predilige gli interstizi, le pieghe del linguaggio e non esce volentieri sulle superfici aperte. D’altra parte il titolo stesso di questa mostra, Fare mondi, sottolinea è vero il rispetto del curatore per l’atto creativo puro (un segno se preso sul serio è già un  mondo, dice nel suo statement) ma è un contenitore aperto veramente a tutto, a qualunque cosa, forma ed esperienza all’insegna del più trasparente, onnivoro e onnicomprensivo eclettismo.

BirnbaumIn un certo senso il Padiglione Israeliano, dedicato quest’anno alla retrospettiva di Raffi Lavie (1937-2007), artista nato e vissuto a Tel Aviv che più di ogni altro rappresenta i “valori urbani, laici e locali incontaminati dalle narrative di qualsiasi ideologia determinata”, si legge nell’introduzione alla mostra, risulta in qualche misura coerente con questa scelta curatoriale: Raffi Lavie (nell'immagine una delle sue opere)  è uno che ha rivendicato la “periferia” israeliana rispetto ai fasti del “Centro” occidentale, che ha portato a casa estetiche correnti negli anni sessanta e settanta, guardando a Jean Dubuffet e a Robert Rauschenberg, ma adattandole a un contesto locale dominato dalle presenze di artisti come Aviva Uri e Arie Aroch; che ha lavorato per sottrazione invece che per aggiunta, componendo immagini a base di pennellate libere, ingenue come di cancellature, abrasioni e ampie emergenze di vuoto; che ha sempre prediletto materiali poveri ed umili, come il compensato, per segnalare la doppia marginalità, geografica e spirituale, dell’essere israeliano ed ebreo. Tutte cose che, sulla carta, possono ben piacere a Birnbaum, anche se poi sul piano estetico i quadri di Lavie, con la loro discreta ma precisa appartenenza a un’ideale di pittura decisamente storicizzato, non vanno troppo d’accordo con i linguaggi più diffusi e attuali oggi, al cui confronto risultano esili e poco comprensibili da parte del pubblico non israeliano.

PalestineCavalcano invece l’onda dell’antagonismo e della rivendicazione aperta, senza preoccuparsi troppo o niente affatto dei “valori visivi”, gli artisti selezionati a rappresentare la Palestina c/o Venezia (il cui spazio alla Giudecca era l’unico in cui i cataloghi, pur ampiamente sponsorizzati, venivano venduti anche alla stampa nei giorni dell’inaugurazione “per sostegno alla causa”), prima fra tutti Emily Jacir, vincitrice del Leone d’Oro per la migliore artista under 40 la scorsa edizione, e adesso impegnata ad “arabizzare” le fermate del vaporetto della linea 1 (quella che fa il Canal Grande) per sottolineare "secoli di scambi interculturali tra Venezia e il Mondo Arabo, chiaramente visibili sulle rive del canale" e forse anche per alludere a scenari futuri di radicale trasformazione culturale ed etnica della città lagunare. Un intervento che ha suscitato l’immediato entusiasmo di Arianna Di Genova dalle colonne del Manifesto e che invece suona prepotente, aggressivo e falsificante sul piano storico. Venezia, che ha evidentemente combattuto arabi e turchi (vd Lepanto) è certo la città più orientale della penisola, la “porta d’Oriente”: ma di un ‘Oriente che nei secoli è stato bizantino, armeno, naturalmente ebraico, copto, siriaco, greco e quant’altro prima che arabo. È stato culla di tutte quelle civiltà che a un certo punto sono state conquistate dagli arabi cui hanno in parte trasmesso quel complesso e ricco insieme di capacità tecniche e di linguaggi artistici che è ben evidente per esempio nella Grande Moschea di Damasco, probabilmente costruita dalle stesse maestranze che pochi anni prima lavoravano per gli imperatori di Bisanzio.

Infine: ci si permette di chiedere a Emily Jacir e anche ad Arianna Di Genova come pensa reagirebbe il sindaco di Damasco o di un’altra città araba se un artista europeo decidesse di riscrivere i nomi delle strade e dei monumenti in greco o italiano ?. Si urlerebbe immediatamente al neo-colonialismo. E forse si procederebbe a un rapido arresto dell’artista. Da noi invece si inneggia all’apertura e alla gioia. Però intanto dal fondo oscuro del cuore d'Europa riemergono a preoccupante velocità xenofobia e razzismo della specie più cruda e primitiva. Chissà forse anche l'arte farebbe bene a porsi il problema. 

53° Esposizione Nazionale d’Arte, Giardini-Arsenale e varie sedi, Venezia, fino al 22 novembre. Orario: 10 - 18 tranne il lunedì (Giardini)  e il martedì (Arsenale). Biglietti: euro 18; ridotto 8/15 euro. info: 041.5218828. Catalogo Marsilio. www.labiennale.org
     
Martina Corgnati, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia Albertina di Torino





Convegno Adei I nuovi percorsi della Wizo europea,
donne leader all'incontro di Roma

"Mi considero fortunata a essere donna ed ebrea" ha dichiarato Fiamma Nirenstein, giornalista, scrittrice e attualmente deputata alla Camera, per il Popolo della Libertà dove ricopre il ruolo di vicepresidente della Comissione Affari Esteri e Comunitari, intervenendo al Consiglio annuale delle Federazioni Wizo europee che si svolge in questi giorni al Centro Bibliografico dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
La giornalista ha ripercorso le varie fasi della sua vita, dal viaggio in Israele pochi giorni prima che scoppiasse la Guerra dei sei giorni, al suo lavoro di inviata speciale, fino al suo attuale incarico di deputata nel Parlamento italiano rivendendole alla luce della sua identità ebraica e del suo grande amore per la terra di Israele.
Le adeine, che si incontrano in questi giorni per il Convegno Wizo europeo, dovranno eleggere in questo ambito il nuovo esecutivo, discuteranno alcune importanti modifiche nella costituzione della Wizo europea (ECWF) ed esamineranno i percorsi possibili per realizzare un maggior coinvolgimento delle donne ebree all'ONU, al Consiglio d'Europa e alla European Women's Lobby.
Al convegno che si svolge in questi giorni a Roma sono presenti oltre alla presidentessa Wizo mondiale Helena Glaser rappresentanti delle donne ebree di Austria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Belgio, Svizzera, Finlandia, Danimarca e ovviamente Israele. L'Italia è rappresentata da Roberta Nahum.


 
 
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  Donatella Di CesareLa voce del Signore nella tenda della adunanza
e la relazione tra un Io e un Tu

“Quando Mosè entrava nella tenda della adunanza per udire la parola del Signore, egli udiva la voce che si faceva sentire rivolta a lui dal di sopra del coperchio che era sull’Arca della Testimonianza, tra i due cherubini; da lì il Signore gli parlava” (Num 7, 89).
Da Rashi a Sforno, da Leibowitz a Lévinas, questo versetto è stato variamente interpretato nell’ermeneutica ebraica. Fra l’altro c’è un particolare che non deve sfuggire.
La Voce che viene dall’alto passa tra i due cherubini prima di uscire nella tenda della radunanza o dell’incontro. Il tra, il frammezzo che separa e unisce i due cherubini, lo spazio in cui la Voce si declina in un parlare umano nella tenda, è lo spazio della relazione interpersonale, tra un io e un tu. Così si può dire che solo in questo tra la Parola divina è udibile, articolabile, comprensibile.
Ma si può anche dire che divina è, per la Torah, la parola che si dà tra un io e un tu. Si dovrebbe riflettere su questo in un’epoca, come la nostra, segnata dall’incapacità di ascoltare.

Donatella Di Cesare, filosofa





block notesDiario di viaggio - Patrick Debois
archeologo coraggioso dell'orrore

Padre Patrick Desbois ha ricevuto ieri la laurea honoris causa dall'Università Ebraica di Gerusalemme. Il sacerdote francese da sette anni ricerca capillarmente, in Ucraina e Bielorussia, ma prossimamente anche in Polonia e Russia, le fosse comuni degli ebrei uccisi in quello che egli usa chiamare "l'Olocausto delle pallottole". Niente campi e forni, ma la sistematica eliminazione di tutti gli ebrei dei villaggi rurali attraverso un macabro tiro a segno, secondo la direttiva tedesca "un corpo una pallottola". Ovvero, non più di un proiettile "sprecato" per la feccia dell'umanità: i fortunati muoiono subito, gli altri vengono comunque sepolti vivi, coperti da cataste di cadaveri o di agonizzanti, sui quali ai bambini ucraini viene richiesto di ballare, per schiacciarli e quindi fare più posto. Non sono casi sporadici. Finora padre Desbois ha trovato più di 800 fosse comuni, alcuni grandissime, con i resti di 45.000 corpi, altri a dimensione familiare, per un totale, finora, di un milione e 200 mila persone. In questo genocidio capillare gli occupanti tedeschi si avvalgono della "manodopera" locale: civili ucraini, contadini perlopiù, donne, bambini, allettati da benefici - tra i quali la possibilità di impadronirsi dei beni degli ebrei - o costretti con le minacce. Proprio attraverso di loro padre Desbois, archeologo dell'orrore, riesce a risalire alle fosse comuni. "Per sessant'anni si sono tenuti  dentro il ricordo dell'atrocità" - racconta - "ora prima di morire vogliono liberarsene, e forse il fatto che io sia un prete li aiuta ad aprirsi". Ma dopo tanto tempo, i ricordi non sono vaghi, poco credibili? "Al contrario, precisissimi anche nei minimi dettagli, ricordano il colore dei capelli, il vestito, le ultime parole.. E' come se il ricordo, sepolto nella coscienza, emerga intatto, un po' come a Pompei, dove la lava ha seppellito senza alterare corpi e reperti. Come riesce a farli raccontare? "Con una tecnica che andiamo via via affinando. Di solito il ricordo, di cui non sono nemmeno consapevoli, emerge rievocando un dettaglio, per esempio il colore del cavallo che tirava il carretto con cui trasportavano i morti, o il nome di un fiore sul percorso....  Appena il ricordo sale alla coscienza diventa irrefrenabile: parlano a volte per ore, e noi registriamo e filmiamo tutto". Non ha avuto difficoltà con le autorità locali? "Che domanda! Certo, e grandissime, ma questo non ci impedisce di andare avanti." Come spiega, lei che è un religioso, che tante persone siano state disposte a collaborare in queste atrocità? "E' una domanda che lascio agli altri, perchè se cominciassi a cercare di rispondere, farei quello invece di andare a cercare le fosse. La gente di pensiero è tanta, filosofi, scienziati, storici, psicologi. La gente d'azione pochissima". C'è un tono di insofferenza nella voce di padre Desbois: è chiaro che si riferisce a chi pontifica su comode poltrone. Lui invece rischia la pelle, ciò che sta facendo richiede coraggio e determinazione, e sa benissimo che rischia ogni giorno la vita. Ma non ci furono anche lì dei giusti, gente che cercò di salvare gli ebrei? "Certo, ma furono trucidati con tale crudeltà da scoraggiare gli imitatori. Ci hanno raccontato di famiglie di contadini ucraini squartati ed esposti al mercato perchè nascondevano gli ebrei.." Ci sono degli ebrei sopravvissuti? "Pochissimi. Nei piccoli paesi si sa tutto di tutti, e la delazione è facile. Ho incontrato un paio di sopravvissuti: bambini allora, che, sepolti vivi, sono riusciti, grazie alla taglia minuscola, a farsi strada e uscire da sotto la catasta dei cadaveri". Che cosa la spinge a fare questo lavoro? "Il desiderio di dare un nome e un ricordo a questi morti senza nome e senza ricordo. Secondo la tradizione ebraica, il loro spirito aleggia infelice finché non è degnamente seppellito". Ma lei apre le fosse comuni? "Me ne guardo bene. Non è compito mio, semmai dei rabbini. Io cerco le testimonianza e le localizzo, a volte anche con l'aiuto di metal detector (denti d'oro, fedi, catenine rimasero spesso sui cadaveri, tant'e' vero che nel tempo si è sviluppato un macabro commercio di questi reperti). Il mio compito lo considero esaurito quando ho dato un nome a ogni morto." Complimenti, padre Desbois. E' un onore e un premio conoscere una persona come lei.

Viviana Kasam 
 
 
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Al centro della rassegna vi sono le elezioni; ma quelle libanesi, non quelle europee che dominano i giornali del nostro continente (su cui è riportato solo l'articolo di Caterina Maniaci su Libero, anche se il risultato andrebbe molto meditato, essendo il frutto di temi che ci riguardano e ci coinvolgono, come il rifiuto generale dell' dell'elettorato all' islamizzazione strisciante del nostro continente).
In Libano ha vinto la vecchia maggioranza antisiriana e tendenzialmente anti-Hezbollah. Ne sono convinti tutti, a parte il solito De Giovannangeli sull'Unità. Lorenzo Cremonesi, per esempio in un articolo sul Corriere dichiara che "Hezbollah non sfonda", in un altro, sempre sul Corriere, parla di "delusione del Partito di Dio". In sostanza il fronte filo-occidentale avrebbe ottenuto 70 dei 128 seggi elettorali, un risultato buono anche perché il rigido meccanismo costituzionale libanese, con una rappresentanza precostituita per gruppi religiosi, assegnava in partenza la maggior parte dei seggi. E' soprattutto il blocco cattolico, che si presentava diviso a queste elezioni, ad aver determinato il risultato, bocciando il generale Aiun e la sua innaturale alleanza con gli estremisti sciiti. Bisogna registrare così intanto una seria battuta d'arresto al piano egemonico iraniano in Medio Oriente. E certo non è sbagliato leggere in questo risultato l'effetto della deterrenza israeliana esercitata negli ultimi due anni: i libanesi hanno scelto di non farsi governare da un branco di fanatici che vedono nel conflitto con Israele e nell'instaurazione di un regime islamico i capisaldi della loro azione: in sostanza non vogliono né la guerra né quel velo che non dispiace a Obama. Il problema è quello che succederà nei prossimi giorni, come dice Ugo Tramballi sul Sole subito dopo aver affermato che  "Hezbollah ha perso" : ci saranno nuovi attentati, nuovi moti di piazza? O Hezbollah accetterà pacificamente il risultato?  Impossibile dirlo.
Ancora più inquietante l'ipotesi di Gian Micalessin sul Giornale: "il vero colpo grosso potrebbe metterlo a segno questa settimana l'inviato di Barack Obama George Mitchell, spedito a Damasco per convincere il regime di Bashir Assad a chiudere ogni rapporto di collaborazione l'Iran. il ribaltamento dì fronte prevederebbe il sacrificio di Beirut e il suo ritorno sotto l'influenza di Damasco, ma spezzerebbe l'asse iraniano sciita segnando la prima vittoria della nuova strategia anti iraniana della Casa Bianca." Sarebbe veramente il colmo dell'illusione di grande politica da apprendisti stregoni regalare un'altra volta il Libano, che è l'unico paese arabo abbastanza democratico da rendere significative delle elezioni, alla più torva delle dittature della regione, il cui atteggiamento filo-iraniano non è affatto un capriccio, ma la necessità vitale di contare e sopravvivere. E' improbabile che una scelta così folle venga fatta, ma già il fatto di immaginare la possibilità di una tale inutile resa qualifica il masochismo strategico in vesti machiavelliche che caratterizza la più velleitaria e dilettantistica politica estera americana da decenni a questa parte, nonostante il culto mediatico di Obama, accuratamente costruito dagli spin doctor. Sul tema, da meditare l'articolo di Morton Klain sul Jerusalem Post, in cui si parla di "inquietante trasformazione di Hilary Clinton su Israele" – Clinton cui Obama avrebbe "passato il testimone" sulla questione degli insediamenti, secondo Anna Guaita sul Messaggero.
A questo proposito, va letto con attenzione l'articolo sulla "bufala delle colonie" pubblicato da Charles Krauthammer sul Jerusalem Post, che espone lucidamente quanto sia innaturale concentrare sul problema degli insediamenti il fulcro del discorso sui due stati. Sempre sul Jerusalem Post
, è utile l'editoriale non firmato che contesta il legame fra la fondazione dello Stato di Israele e la Shoà, contenuto nel discorso di Obama al Cairo.
A cui Netanyahu ha deciso di risponde con un discorso pubblico altrettanto annunciato (Il Giornale, Il Messaggero), in cui preciserà la posizione israeliana e presenterà un suo piano di pace, mettendo al primo posto la sicurezza (Il Sole).
Interessante infine l'intervista del corrispondente di Le Monde, con una dei "giovani delle colline", che sostengono gli insediamenti anche contro la volontà del governo israeliano.

Ugo Volli

 
 
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Walter Arbib a Sorgente di vita:
“Attraverso il mondo per aiutare gli altri”

Roma, 8 giu -
I ricordi del 4 giugno a Roma, un’intervista con il benefattore Walter Arbib e il “Moked” a Milano Marittima sono gli argomenti della puntata di Sorgente di vita di questa sera. Alcuni ebrei romani raccontano il loro 4 giugno del 1944: i tedeschi in fuga e l’arrivo  degli americani, l’euforia della liberazione, la gioia di assaporare il pane bianco, le sigarette e la cioccolata. E poi le immagini della mostra al Museo ebraico di Roma e la cerimonia per ricordare la riapertura del Tempio Maggiore. Nel secondo servizio viene presentato un profilo di Walter Arbib: la fuga da Tripoli nel 1967, l’accoglienza  in Italia, il successo come imprenditore in Canada, il debito di riconoscenza verso il nostro paese, l’ impegno di solidarietà con missioni umanitarie dall’Etiopia al Darfur, dal Medio Oriente al terremoto in Abruzzo. L’ultimo servizio è dedicato al “Moked” a Milano Marittima, dove giovani e famiglie con bambini provenienti da tante  città italiane si sono incontrati per mettere a fuoco il tema dell’educazione ebraica. Ne parlano a Sorgente di Vita  rav Roberto Della Rocca, direttore del DEC, rav Benedetto Carucci Viterbi, lo psicologo Daniel Segre e il professor Gavriel Levi. La replica questa notte alle ore 1:20, e ancora lunedì 15 giugno alle ore 7 del mattino.

Per vedere i servizi delle puntate precedenti clicca qui

Elezioni in Libano,                                                                                  
Israele: “Il nuovo governo impedisca attacchi”
Gerusalemme, 8 giu -
“Qualsiasi governo che sarà formato a Beirut dovrà fare in modo che il Libano non sia usato come base per violenze contro Israele e contro i suoi cittadini" -  così recita il comunicato diffuso oggi dal ministero degli Esteri israeliano che segue con interesse, come il resto degli Stati della regione e la comunità internazionale gli sviluppi politici in Libano. "Spetta al governo libanese - prosegue il comunicato - operare per rafforzare la stabilità e la sicurezza nel suo territorio, porre fine al contrabbando di armi e attuare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, prime fra tutte le risoluzioni n.1559 e 1701. Israele considera il governo libanese responsabile di qualsiasi azione militare o di altro genere proveniente dal suo territorio". La risoluzione 1559 del 2 settembre 2004 chiede al Libano di ristabilire la sua sovranità su tutto il territorio nazionale, il ritiro delle "forze straniere", la fine delle "ingerenze straniere" nella politica interna libanese e il disarmo di tutte le milizie libanesi e non. La 1701, approvata l'11 agosto 2006, pose fine al conflitto israelo-libanese di quell'anno. La risoluzione chiedeva la fine totale delle ostilità, il ritiro delle truppe israeliane dalle aree occupate in sud Libano, lo stazionamento di una forza potenziata dell'Unifil, il disarmo degli Hezbollah, il pieno controllo del governo libanese su tutto il territorio dello stato e vietava la presenza di forze paramilitari a sud del fiume Litani.
 
 
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