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L'Unione informa
 
    12 giugno 2009 - 20 Sivan 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino
Nella nostra Parashà è narrato che Miriam prese le difese di Tzipporà, trascurata dal marito Moshè, troppo preso dai suoi compiti. 'Disse ad Aron:"Dio parla solo con Moshè? Non  parla forse anche con noi?" E Dio ascoltò'. Che cosa Dio ascoltò? È necessario sottolineare che Dio sente? Ascoltò ciò che era nascosto dietro alle parole di Miriam. Solo l'Eterno riesce veramente a sentire il non detto. Non era la povera Tzipporà che Miriam voleva difendere
ma solo il suo ruolo e la sua posizione. Denunciare soprusi verso altri, anche se veri, pensando in realtà solo a se stessi, equivale a fare lashòn harà.
 "Se ci fosse una lotteria della vita, trovare un amico potrebbe essere considerato il primo premio". (Rav Adin Steinsaltz)

Guido
Vitale,

giornalista
guido vitale  
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  vercelli Sessanta anni di storia di Israele
nel nuovo libro di Claudio Vercelli
 

 Il 1948 e la nascita dello Stato di Israele, la Guerra di indipendenza del 1948-49, l'economia del nuovo Stato, la crisi di Suez, la Guerra del Yom Kippur, la guerra in Libano, l'assassinio di Yitzhak Rabin. Questo e molti altri sono gli argomenti esaminati nel nuovo libro di Claudio Vercelli, ricercatore di Storia contemporanea all'Istituto di Studi storici Salvemini di Torino dove coordina il progetto didattico Usi della storia, usi della memoria e autore di numerosi volumi fra cui Tanti Olocausti. La deportazione e l'internamento nei campi nazisti (Firenze, 2005), Israele e Palestina: una terra per due (Torino, 2005), Il conflitto israelo-palestinese tra passato e presente (Vercelli, 2006), Israele, Storia dello Stato, 1881-2008 (Firenze, 2008) e ora questo saggio, Breve storia dello Stato d'Israele, edito da Carocci di Roma. Il libro, lungi dall'essere una esposizione superficiale, esamina i fatti che si sono snodati lungo un cinquantennio di storia, cercando di comprendere le dinamiche politiche, sociali, economiche e culturali che sono parte attiva dell'evoluzione del Medio Oriente.

Claudio, perché scrivere un manuale di Storia dello Stato di Israele
Questo libro nasce da un'esigenza specifica. Un testo per l'Università di oggi deve rispondere a dei precisi parametri: in primo luogo è legato a delle dimensioni di grandezza numerica, perché la riforma fa sì che non si debbano presentare manuali troppo lunghi. In secondo luogo, ci si è resi conto che mancava un libro per gli studenti che non fosse un volume di opinioni, ossia idee di alcuni presentate come fatti certi. C'era qualche volume in circolazione, ma non recente. Si trattava di un vuoto non casuale perché discutere di Israele è molto difficile. Difficile tanto più farlo all'Università, dove a volte anche le persone più moderate esprimono pregiudizi forti. Ci voleva un testo che parlasse ad un’ampia platea e che riuscisse a spiegare la Storia di Israele come soggetto storico, senza ricondurla solamente al conflitto israelo-palestinese, partendo però dai concreti eventi.
Quale è stata la difficoltà più grande che hai incontrato nello scriverlo?
Cercare di collegare la storia di Israele e dell'Yishuv a una storia più ampia, quella europea. Israele non nasce per caso perché è anche il prodotto di alcune trasformazioni europee. Gli ebrei giunti in Palestina attraverso le Alyot sono infatti portatori di precise idee che rimandano innanzitutto al nazionalismo di matrice risorgimentale, ma anche a un liberalismo avanzato, che persegue diritti politici e civili oltre che a un socialismo inteso nel senso più ampio di giustizia sociale.
Se si leggono le biografie dei padri fondatori ci si rende conto che sono tutti depositari di idee politiche molto nette e di una immagine di società da costruire non meno chiara. Il loro pensiero è contraddistinto dal confronto dialettico con la modernità. Alle loro spalle ci sono modelli di società di massa, come quello americano, che va progressivamente affermandosi oltre i suoi confini geografici, ma anche e soprattutto le suggestioni dell’esperienza sovietica. Alla base di tutto c’è però l’idea di trasformare l’ebreo in un «uomo nuovo», la cui identità sarebbe stata forgiata dal lavoro e dalla socialità. Lo Stato d’Israele nasce da questo percorso culturale e morale, oltre che politico. Il mio sforzo è stato quindi quello di ragionare su di un contesto tumultuoso, per capire veramente da quali soggetti era composto. Se nel 1948 Israele nasce è perché c'era già stata, nei decenni trascorsi, l'esperienza dell’Yishuv, che aveva posto le basi del nuovo Stato.
Pensi che sia attualmente percorribile l'idea di due popoli due Stati?
Sarebbe auspicabile, ma temo che oggi non sia materialmente fattibile. Vedo sul versante palestinese una fragilità politica che impedisce di individuare il soggetto con cui interloquire. Qual è la loro vera leadership? Chi governa cosa? Nello scenario internazionale i palestinesi sono visti come le vittime per eccellenza. È questo però un terreno pericoloso, poiché una vita degna d’essere tale implica che ci si rimbocchi le maniche, non si viva di condiscendenza e di fatalismo. Il rischio, altrimenti, è di rimanere al palo. Se poi guardo a Gaza, laddove maggiori sono le ingiustizie, a me sembra che ci sia anche una disposizione d’animo da parte della popolazione a farsi manipolare. Ritengo quindi che oggi manchino a Gerusalemme degli interlocutori validi. Non da ultimo, c'è un interesse da parte dei paesi arabi ad alimentare il conflitto, scaricando tutte le incongruenze e le inadempienze su Israele che diventa capro espiatorio delle altrui responsabilità.
Cosa vedi nel futuro di Israele?
Nell'immediato vi è il problema del nucleare iraniano. Non si tratta solo di una questione militare ma anche politica. Ma la vera scommessa del futuro è quella che gli arabi chiamano la «guerra delle culle». La sopravvivenza israeliana è legata alla demografia. Sergio Della Pergola calcola che se non ci fosse stata la Shoah ora gli ebrei sarebbero 32 milioni mentre invece assommano a circa 13 milioni. Il problema della continuità di Israele è ancora più pressante per la triste impressione che entro venti anni la popolazione araba, che vive in Israele e nei Territori palestinesi, potrebbe superare quella ebraica. La «israelianità», l’essere cittadini di quel paese, peraltro, è un coacervo di molti elementi. Israele stesso è il prodotto di una miriade di storie diverse. Riuscirà a confrontarsi con i processi di globalizzazione? Come vedi non offro delle risposte ma pongo altri quesiti. Le oligarchie arabe dei paesi circostanti, infine, sono in difficoltà. Per Israele intravedo all’orizzonte dei grossi punti interrogativi ma forse troverà elementi e forze per ridefinire la propria identità, a partire dall'alto livello di scolarizzazione della sua popolazione, proiettata com’è verso il mondo. Fra gli interlocutori possibili vi sono India e Cina. Insomma, ancora una volta la sua forza sta nel futuro poiché il sionismo non si è mai proiettato all’indietro ma sempre in avanti.

Lucilla Efrati

 
 
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  notesDiario di viaggio - Ieri, domani
e la bellezza di Israele 


Il figlio dell'ambasciatore italiano in Israele, Tommaso Mattiolo, 12 anni, ha scritto una poesia intitolata "Ieri e Domani", dove dice che Ieri e Domani non si incontrano mai, perché uno guarda sempre indietro e l'altro sempre avanti. Mi ha fatto pensare a Israele e all'Italia. L'Italia, oggi, è un Paese che guarda indietro: non c'è ottimismo, speranza, non c'è più avanguardia, e quello che si costruisce, è quasi sempre già vecchio e obsoleto prima di nascere, concepito per l'ieri, o al massimo per l'oggi, non per il domani.
Israele è invece un Paese che, nonostante la precarietà, guarda al domani, e lo senti. Tutto è all'avanguardia, e non solo nella ricerca scientifica. Lo è nelle sagome dei grattacieli che vengono su come funghi a Tel Aviv; nei progetti della gente; nei bambini che continuano a nascere numerosi nonostante la guerra; negli edifici stupendi che sorgono (o risorgono) a Gerusalemme, come il nuovo Mamilla shopping center, che collega con una passeggiata di negozi la città nuova alla città vecchia.
Israele è un Paese dove l'estetica ha un posto importante. All'inizio non era cosi: si costruiva per far posto agli immigrati, con pochi soldi e pochi fronzoli. Oggi tutto è bello. Le piazze con le fontane-scultura; l'arredo urbano; i fiori disposti con arte lungo le
strade e le autostrade; le aiuole che spuntano ovunque, continua sfida al deserto; gli edifici nuovi, sia quelli avveniristici che fanno concorrenza a Shangai, sia quelli in pietra a Gerusalemme, che riprendono gli stilemi della tradizione rivisti secondo il gusto di
oggi. Sono meravigliosi i musei nuovi, i memoriali, i luoghi pubblici,come il nuovo porto di Tel Aviv, con la lunga passeggiata di doghe di legno e ristoranti e negozi aperti fino a tarda notte; è splendido Neve Tzedek, il quartiere Bauhaus ristrutturato che sta diventando i centro della vita artistica e culturale a Tel Aviv. In ogni quartiere, ogni pochi isolati, c'è un parco giochi per i bambini, che possono scendere da casa e, senza attraversare la strada, trovare i loro amichetti, come se l'intera città fosse fatta di cortili. Ci sono nuovi ristoranti che ti sembra di stare a Londra, o New York; negozi raffinati, design, caffè letterari, musica ovunque.
Mi ha emozionata  sapere che militari hanno un corpo specializzato, detto Arma dell'Istruzione, che porta una volta alla settimana i soldati a visitare musei e siti archeologici; perché i tre anni passati sotto la naja non devono  spegnere la mente e il gusto del bello. E infatti li vedi ovunque, ragazzi in divisa che ascoltano con attenzione le guide - quasi tutte laureate in archeologia o storia dell'arte.
Un altro dettaglio che mi ha colpita è la pulizia dei bagni pubblici. Anche nei luoghi più sperduti, sono curati, lindi, abbelliti da fiori; non c'e' una carta per terra, come se mani invisibili fossero lì a pulire continuamente ed assicurarsi che non manchi nulla. Gran
segno di civiltà.
Com'è diverso questo Paese da come ce lo descrivono i media! Quanta gioia di vivere, quanta allegria, quanta bellezza. Questo i giornali non lo dicono. Vittima di una propaganda alimentata da chi vorebbe cancellare Israele dalla faccia della terra, i giornalisti, e anche molti turisti indottrinati, guardano senza vedere, o meglio  vedono solo i propri pregiudizi.

Viviana Kasam 
 
 
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rassegna stampa    
 
 
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La visita di Muhammar Gheddafi in Italia, raccontataci, tra gli altri, da Nino Cirillo per il Messaggero, Gerardo Pelosi per il Sole 24 Ore, Alessandro Caprettini per il Giornale, avviata sotto i fragili auspici di un difficile equilibrio di ruoli da mantenere tra le parti in gioco, si sta trasformando, passo dopo passo, in una serie di gaffe, tensioni, scontri e soprattutto attriti diplomatici, all’interno di una strategia della comunicazione che l’esuberante leader libico utilizza come una clava. A fronte dell’imbarazzo della Farnesina, di cui ci dà conto Gianna Fregonara su il Corriere della Sera, si sommano gli effetti politici delle roboanti affermazioni del rais nelle quali, tra gli altri, gli Stati Uniti sono posti sullo stesso piano di Al Qaeda (mentre il pluripartitismo è caricaturalizzato come un onere). Lo sconcerto è palese, ancorché diffuso, ed è raccontato da Fabrizio Rizzi su il Messaggero. Tranciante Marco Travaglio su l’Unità che, con sarcasmo, ravvisa nello spiazzamento italiano dinanzi all’esibizionismo del «colonnello» il segno di una sudditanza che, a suo dire, sarebbe espressione di una reciprocità tra i due paesi, quella di una concezione a raggio limitato della democrazia. Per gli ebrei italiani, ed in particolare per quelli di origine tripolina, lo smacco è forte laddove all’intenzione, anticipata già da un primo viaggio esplorativo effettuato nel 2004 in Libia, avrebbe ora dovuto seguire un incontro formale con Gheddafi, che ha però da tempo fatto sapere che la sua «agenda» ha spazi liberi solo nello Shabbat. Da ciò l’impossibilità di alcunché di ufficiale e dignitoso, per gli evidenti vincoli di ordine religioso. In tutta probabilità non si tratta di un caso ma di una calcolata provocazione, della quale ci danno conto il Giornale e l’Unità, nel mentre quest’ultima ci ricorda anche della richiesta dell’Unione dei giovani ebrei d’Italia di ottenere l’estradizione di Al Zomar, responsabile dell’attentato contro il Tempio maggiore di Roma del 1982.

Al ballon d’essai del rais libico, ad uso e consumo dei media ma, soprattutto, dei suoi connazionali, seguono invece obblighi di considerazioni, per parte nostra, su cose e fatti di ben altro tenore poiché destinati a lasciare tracce tangibili. La prima delle questioni aperte demanda alla montante vertenza tra Gerusalemme e Washington nel merito dell’agenda mediorientale, di cui oggi fanno il sunto Pierre Chiartano su Liberal e Fiamma Nirenstein per Panorama, in attesa del preannunciato discorso domenicale di Benjamin Netanyahu, menzionato da Eric Salerno per il Messaggero, che dovrebbe mettere a fuoco le linee guida della sua Amministrazione per i tempi a venire. In seconda battuta apriamo una finestra sull’islamismo radicale grazie ad un informato articolo di Fausto Biloslavo per Panorama, laddove ci parla delle guerre infra-musulmane che stanno attraversando, come crepe profonde, paesi e gruppi in lotta tra di loro.

Ancora una volta, poi, ci soffermiamo sulle elezioni in Medio Oriente. Dopo quelle libanesi è oggi il giorno dell’Iran. Ovviamente ne parlano un po’ tutte le testate ma per articoli di sintesi demandiamo a Andrea Nicastro per il Corriere della Sera, Alberto Negri per il Sole 24 Ore, Luigi Spinola su il Riformista e di Francesco Di Leo sempre per la stessa testata. Su quale sia il possibile esito non c’è certezza, come ci ricorda Livio Caputo su il Giornale. La vittoria di Mahomud Ahamdinejad, candidato iperconservatore, o come viene definito in patria, esponente degli «osulgarian» (i «principialisti», ossia quelli che si rifanno ai principi duri, puri e fondamentali) parrebbe ancora la più plausibile, ovvero quella su cui le opinioni dei commentatori sono sufficientemente convergenti, pur con alcuni interessanti distinguo, tra i quali quelli di Sergio Romano su Panorama, del Foglio e di Gabriel Bertinetto per l’Unità. Senza fare riferimento alcuno a ipotetici sondaggi, dei quali in Occidente non abbiamo la diretta e immediata conoscenza, a diversi analisti sembra di potere dire che è lui ad avere maggiori possibilità di vedersi rinnovato il mandato alla Presidenza della Repubblica islamica. Peraltro quello che è l’ex sindaco di Teheran, modesto politico ma grande agitatore di folle, in quattro anni di una gestione del potere non incontrastata, poiché si è dovuta ripetutamente confrontare con la lobby energetica degli ayatollah, ma politicamente forte perché priva di una opposizione strutturata, ha consolidato il suo radicamento nella società iraniana. Ahmadinejad è infatti l’esponente più in vista di quelle classi sociali che peggio soffrono della crisi economica e morale che attanaglia il paese. Parrebbe un paradosso, a ben pensarci (i ceti subalterni che votano per colui che più si è impegnato in questi anni nel portare l’Iran verso una condizione di conclamata marginalità) ma è una buona riprova della chiave del successo di quei movimenti populisti che sanno capitalizzare a proprio favore lo sbandamento di una società giovane (un terzo della popolazione iraniana è sotto i trent’anni), proletarizzata e priva di ragionevoli prospettive a breve come a medio termine. Se ne hanno segni, in tal senso, anche in altre parti del mondo, a partire, ad esempio, dal voto xenofobo e fascistoide che l’Ungheria ha espresso nei giorni scorsi per l’elezione dei suoi rappresentanti all’Unione europea. A ciò si somma, contrapponendovisi, l’insofferenza lievitante della classe media urbana, raccontata da Claudio Gallo per la Stampa, che coglie i riflessi negativi della politica degli uomini che si sono raccolti intorno ad Ahmadinejad. Riflessi negativi all’interno del paese, con la secca restrizione degli spazi di libera espressione ma anche per il perdurare di una grave crisi economica che sembra non trovare sbocchi, colpendo i redditi della gran parte della popolazione (a fronte delle montanti ricchezze delle oligarchie “rivoluzionarie” di marca clericale); riflessi negativi sul piano internazionale, dove il presidente uscente sembra coltivare il nesso tra nazionalismo ed isolamento, giocato sulla carta della (pre)potenza nucleare, assai poco gradita a parte della borghesia interna che ne coglie tutta la pericolosità. Ahmadinejad ha giocato di rimessa, a ben vedere, spostando il baricentro della discussione politica dai problemi concreti agli atti di fedeltà: alle difficoltà economiche ha contrapposto il programma nucleare; alle accuse di censura, tutte peraltro fondate, ha risposto con il richiamo all’Islam come forza trainante della storia; alle rimostranze contro le violenze perpetrate dai suoi sostenitori ha fatto seguire la retorica del sacrificio e del martirio. Riguardo anche a tutto questo, da intendersi come il retroscena delle elezioni odierne, si legga Paolo Lepri sul Corriere della Sera. Mir Hossein Moussavi e la moglie Zahra Rahnavard, le due figure più in vista nel fronte riformista, sulle quali però si sofferma criticamente Emanuele Ottolenghi per il Riformista, soffrono così l’oscuramento che da parte dei pubblici poteri è stato esercitato nei loro confronti.

In questa partita pesano peraltro i contrasti nel fronte degli avversari, divisi tra conservatori, pragmatici e riformisti, accomunati tutti dai «principialisti» nell’accusa, ripetuta con assordante costanza, di essere dei «corrotti», ossia individui che, a vario titolo, trascendono il lascito sciita, ed in particolare quello dell’imam Ruhollah Khomeyni, faro non solo della tradizione ma anche e soprattutto della «rivoluzione islamica». In questo mix, per nulla innovativo, di rimando ad una dimensione arcadica (quella dei principi puri e perenni), di costante invito alla mobilitazione degli spiriti e dei corpi e di ossessivo richiamo, quasi tribale, contro la minaccia delle «perversioni» provenienti dall’Occidente e dai suoi emissari (i riformisti, soprattutto), c’è la forza aggregativa di Ahmadinejad, il suo essere, ideologicamente, un politico la cui collocazione è propria a quell’arco di forze che  si richiamano al fascismo. Peraltro, la concezione che ha del potere e del ricorso ad esso demanda all’esperienza storica di quel movimento: contano in ciò gli innumerevoli atti di forza e di rottura, così come l’emarginazione, la delegittimazione e la persecuzione delle opposizioni, la retorica del complotto ma anche e soprattutto il ricorso alle milizie armate a difesa della «morale pubblica» come quella «polizia del velo», Gasht Ershad, nata due anni fa e che ha al suo attivo una miriade di aggressioni ai danni di chi non si uniforma allo standard imposto dal regime.

Chiudiamo invitando a leggere l’affettuoso memento redatto da Luisa Arezzo su Liberal, in morte del suo direttore, Renzo Foa, figura di primo piano del giornalismo italiano, figlio di Vittorio, quest’ultimo leader storico della sinistra italiana, scomparso dopo una malattia che ce l’ha sottratto per sempre.

 
Claudio Vercelli

 
 
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Elezioni iraniane: per Maariv è meglio che vinca Ahmadinejad    Tel Aviv, 12 giu -
Il quotidiano israeliano, Maariv, pubblica oggi in prima pagina un articolo dell'editorialista Ben Caspit, secondo cui "Se Mahmud Ahmadinejad uscirà sconfitto, lo rimpiangeremo". Caspit ritiene che nessuno come il presidente iraniano uscente ha servito, suo malgrado, gli interessi della campagna israeliana di sensibilizzazione contro il nucleare iraniano. Se vincesse il candidato conservatore moderato Mir Hossein Mussavi Israele sarebbe in difficoltà maggiore perché, "la sua maschera riformista confonde il fatto che in Iran comanda comunque Ali Khamenei, alla guida di un esercito di ayatollah". Se Mussavi dovesse prendere le redini, conclude Caspit, la lotta di Israele per fermare i progetti atomici di Teheran sarebbe dunque ancora più difficile. Dello stesso parere Efraim Kam, ricercatore del centro di studi strategici dell'università di Tel Aviv, secondo cui "tutti comprendono che Ahmadinejad è un fellone, e dunque per Israele è più facile convincere il mondo della serietà della minaccia iraniana". "Per Israele è preferibile una vittoria di Ahmadinejad", sostiene Kam. Diverso il parere dell'ex capo del Mossad Efraim Halevi, secondo cui effettivamente "in passato Ahmadinejad è stato il regalo più bello che l'Iran abbia elargito ad Israele" ma adesso "dobbiamo augurarci una vittoria di Mussavi, con il quale è forse possibile per l'Occidente ricercare formule diplomatiche di intesa. Gli analisti israeliani concordano che i candidati alle presidenziali iraniane sono tutti comunque accomunati da una ostilità viscerale verso lo Stato ebraico e determinati, con accenti diversi, a portare avanti i programmi nucleari del loro Paese.

 
 
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