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L'Unione informa
 
    17 giugno 2009 - 25 Sivan 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Alfonso Arbib Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano
La parashà di Beha'alotekhà comincia con l'ordine al kohèn di accendere la menorà. Il termine usato per indicare l'accensione è derivato dalla radice "far salire". Rashì spiega l'uso di questo termine in questo modo. Il kohèn deve accendere la menorà fino a che la fiamma salga autonomamente. Secondo i Maestri, nell'accensione della menorà è presente simbolicamente l'educazione. Per poter educare qualcuno è necessario occuparsene con impegno e intensità ponendosi però l'obiettivo che l'allievo diventi indipendente dal maestro. Bisogna accendere la fiamma ma bisogna anche far in modo che riesca a salire autonomamente.
Alcuni noti gruppi antisemiti hanno preannunciato alla polizia di New York che questo sabato pomeriggio manifesteranno di fronte ad alcune sinagoghe. La polizia li ha autorizzati a condizione che i sit in siano limitati a poche persone, sui marciapiedi opposti a quelli delle sinagoghe ed entro orari specifici. Le singole congregations così hanno preavvertito per email gli iscritti a "non far caso ai provocatori che si troveranno sul marciapiede opposto". Antisemiti, agenti ed ebrei: tutti sanno cosa avverrà, nei minimi dettagli, sabato pomeriggio. Il pathos così è finito prima ancora di incominciare.‬‬  Maurizio
Molinari,
giornalist
a
Molinari  
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  Un dramma sempre taciuto. Immagini, emozioni, rivendicazioni
per spiegare i diritti dei profughi ebrei dai Paesi arabi


rifugiati dimenticati"C'è una storia mai raccontata, una storia mai ascoltata, ma una verità che va conosciuta" si esprime così Irwin Cotler, membro del Parlamento canadese ed ex ministro di Giustizia e Procuratore generale del Canada, da anni  impegnato nella battaglia contro l'antisemitismo intervenendo alla serata organizzata da Justice for Jews from Arab Countries (JJAC), in collaborazione con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane nel cortile del palazzo della Cultura della Comunità Ebraica di Roma affollato da esponenti della realtà ebraica tripolina, dove è stato proiettato il film "The Forgotten refugees - I rifugiati dimenticati" prodotto dal David Project di Boston e premiato da diversi Festival internazionali.
L'iniziativa, è solo l'ultima fra quelle organizzate in questi giorni dalla JJAC, che è stata ricevuta in audizione parlamentare alla Camera dei deputati grazie all'intervento di Fiamma Nirenstein, giornalista e parlamentare alla Camera nelle fila del Popolo della Libertà che ne è stata promotrice, con lo scopo di affrontare il tema dei diritti degli ebrei espulsi dagli Stati arabi e sottolineare come dal conflitto israelo-palestinese siano scaturiti profughi palestinesi e profughi ebrei e non soltanto profughi palestinesi.
Il film documentario, tradotto in italiano per l'occasione, esplora la storia la cultura e l'esodo forzato degli ebrei delle Comunità del Medio Oriente e del nord Africa nella seconda metà del '900 con una serie di testimonianze di ebrei fuggiti dall'Egitto, dallo Yemen, dalla Libia, dal Marocco e dall'Iraq. Le drammatiche immagini di impiccagioni di massa, di case e di sinagoghe bruciate, di cimiteri profanati si alternano alle parole di ricordo, a momenti drammatico e a momenti nostalgico, dei testimoni aiutando la ricostruzione storica del clima che si respirava in queste Comunità ebraiche un tempo floride.
I numeri possono aiutarci a capire la dimensione del fenomeno: nel 1945 in Algeria c'erano 140 mila ebrei oggi neanche uno, in Egitto 75 mila oggi solo 100, in Iraq 135 mila oggi 60, in Libia 38 mila oggi neanche uno, il numero totale del fenomeno si aggira intorno a un milione di profughi, la maggior parte dei quali ha trovato la salvezza e si è ricostruita una vita in Israele, mentre alcuni di essi per mettere in salvo le famiglie sono scomparsi nel nulla nelle terre d'origine e le famiglie non hanno avuto neanche la possibilità di dar loro una degna sepoltura.
Nel giugno 2007 una versione abbreviata del film documentario è stata proiettata per la prima volta in occasione del Congresso sui diritti umani americano e nel marzo 2008 la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha adottato una risoluzione in favore degli ebrei fuggiti dai Paesi arabi.
"Oggi abbiamo accompagnato la JJAC al Parlamento -  ha detto il Consigliere Ucei Victor Magiar intervenendo subito dopo il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici che ha espresso l'appoggio a tutte le iniziative che la JJAC intraprenderà in questo senso, - l'Ucei vuole appoggiare la causa della JJAC per una questione di giustizia e verità: quasi un milione di ebrei hanno lasciato i Paesi arabi. Quello che è importante dire è che questo argomento non è mai stato sollevato e noi vogliamo portarlo all'attenzione internazionale".
"Siamo stati ammazzati nelle nostre case negli anni '20-'30, - ha continuato Magiar ribadendo l'impegno dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane -  prima ancora che nascesse lo Stato ebraico, siamo stati cacciati prima, dopo e durante la nascita dello Stato di Israele e vogliamo impegnarci a dare il nostro appoggio alla JJAC per salvaguardare i beni culturali ebraici nei Paesi arabi".
"E' tragico constatare che se fosse stato accettato il Piano di spartizione previsto sessanta anni or sono, non ci sarebbero state guerre arabo-israeliane, né profughi – ebrei o arabi – e nessuna delle sofferenze di questi ultimi sessant’anni. - Ha affermato Irwin Cotler intervenendo dopo la proiezione del filmato - Avremmo celebrato il sessantesimo anniversario dello Stato di Israele e di quello palestinese.  La narrativa revisionista mediorientale – che pregiudica l’autentica riconciliazione tra i due popoli –
continua a sostenere che c’è solouna popolazione vittima, quella dei profughi palestinesi, e che Israele è stato responsabile della “nakba” (tragedia) palestinese del 1948. Il risultato è che le sofferenze di 850 mila ebrei cacciati dai Paesi arabi, l’esodo dimenticato, è stato eclissato sia dal piani di pace relativi al Medio Oriente sia dalla narrativa degli ultimi sessant’anni. E’ evidente che gli ebrei sono stati perseguitati nei Paesi arabi. Ci sono state leggi repressive (sul modello delle leggi di Norimberga) mirate contro la popolazione ebraica, il cui risultato è stata l’espulsione, i sequestri illegali delle proprietà, arresti e detenzioni arbitrarie e torture. Praticamente dei veri e proprio pogrom antiebraici.
Basti pensare, ha precisato Cotler, che 101 risoluzioni dell'ONU dal 1948 a oggi, riguardano profughi palestinesi e nessuna i profughi ebrei. La questione non è che ci sono 850 mila rifugiati ebrei, ha concluso Cotler, il fatto è che mio padre quando ero piccolo mi ha insegnato il significato della parola giustizia e sono cresciuto con il senso di questa parola..."

Lucilla Efrati





La crisi iraniana, le elezioni, e l'apertura americana
Interrogativi e risposte al grande enigma del Medio Oriente


PitiglianiL'Iran, il suo ruolo nel Medio Oriente, l'arma nucleare e le opzioni per l'Occidente. Temi scottanti trattati in un'atmosfera da “circolo letterario”, quella che si è respirata a Roma al convegno coordinato da Giorgio Gomel organizzato dal Gruppo Martin Buber all’Istituto Pitigliani. In una sala adornata dai dipinti dell'artista israeliana Lika Tov i relatori del convegno Renzo Guolo, docente di Sociologia dell'Islam all'Università di Torino, studioso di movimenti islamici nonché editorialista della Repubblica e Bijan Zarmandili, esule iraniano, giornalista del gruppo Espresso-Repubblica hanno cercato risposte a molti interrogativi.

I temi sul tappeto, presenti fra il pubblico anche i Consiglieri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Victor Magiar e Anselmo Calò e il Presidente della Fondazione dei Beni Culturali ebraici in Italia, Bruno Orvieto, sono quelli che riempiono ormai le prime pagine dei giornali: i risultati delle elezioni iraniane e le prospettive che si aprono alla luce della rinnovata vittoria di Ahmadinejad per l'Occidente; il legame fra Medio Oriente e Iran e gli sviluppi del conflitto israelo-palestinese e, in particolar modo la domanda centrale: “Cosa farebbe l'Iran se questo conflitto trovasse una soluzione, ci si opporrebbe?”; quali le novità e le conseguenze dell'apertura del presidente americano Barack Obama verso i Paesi arabi?

Il primo a prendere la parola è stato il professor Renzo Guolo che ha tracciato sommariamente la storia politica dell'Iran, pur sottolineando lui stesso come la “situazione sia notevolmente complessa e articolata”.
In merito ai brogli elettori, tema di stretta attualità, entrambi i relatori hanno affermato che ci sono buone probabilità che questi siano avvenuti. “Difficile credere che Ahmadinejad possa aver ottenuto un consenso così ampio visto il fallimento completo nella politica interna del Paese, in particolare modo nella politica economica. Sotto il suo mandato – ha osservato il professor Guolo - il Paese ha visto aumentare notevolmente la disoccupazione e l'inflazione”. “Non solo, sembrerebbe – ha aggiunto ancora il professore per avvalorare l’ipotesi brogli – che Ahmadinejad abbia registrato forti consensi nelle comunità minori, come quelle azere, considerate - dice il professore rivolgendosi al pubblico - che Mussavi proviene da quelle comunità”.
Entrambi però tengono a chiarire l’impossibilità, anche dopo la dichiarazione della Guida Suprema Khamanei di andare a un nuovo conteggio delle schede, che i risultati vengano stravolti, l’Iran non ammetterebbe mai l’illegittimità delle elezioni.
“Ma perché tanto clamore e attenzione da parte dei Media internazionali verso Mussavi che differenza ci sarebbe nella sua politica rispetto a quella di Ahmadinejad?” è un altro degli argomenti emersi nella discussione e portato alla luce dal giornalista Zarmandili, lo stesso ha precisato che la politica di Mussavi non sarebbe migliore di quella di Ahmadinejad. “Mussavi non è un riformista bensì un conservatore con una forte identità nazionale” – ha precisato Guolo - “La grande differenza fra i due sarebbe da rintracciare solo nella diversa attenzione rivolta alla politica estera, Mussavi se eletto si sarebbe occupato in prevalenza di politica interna e quindi di riforme interne al Paese”, ha aggiunto.
La nuova amministrazione americana e i discorsi di apertura, tenuti prima in Turchia e poi in Egitto, del Presidente americano, aprono nuove prospettive.
Obama sembra essere un uomo politico di cui entrambi i relatori riconoscono le capacità politiche.
“Obama nel suo discorso al Cairo” ha chiarito ancora Guolo “sembra aver capito quale sia l'atteggiamento migliore per relazionarsi con l'Iran, un Paese di forti valori nazionalistici. Non si può, come aveva fatto la vecchia amministrazione americana, pensare di proibire all'Iran di dotarsi del nucleare semplicemente con dei richiami internazionali. Usando il pugno di ferro. Obama ha fatto di meglio ha parlato nel suo discorso del diritto al nucleare per ogni nazione, e allo stesso tempo, ovviamente, non ha parlato di nucleare militare. Ritengo che sia questo il modo migliore per poter interagire con gli iraniani”.
Il nazionalismo e il precludere con dei divieti la possibilità all'Iran di gestire il proprio Paese sono temi centrali da non sottovalutare.
Quando tra il pubblico una ascoltatrice attenta ha posto la domanda se esista veramente, come anticipato dall’ex ministro della Giustizia canadese ed esperto di diritto internazionale Irwin Cotler, la possibilità nella legge internazionale di accusare e quindi incriminare Ahmadinejad di “istigazione al genocidio nei confronti degli ebrei” e “quali sarebbero le conseguenze se questa legge fosse applicata”, ancora entrambi i relatori hanno insistito sul forte carattere nazionalista dell’Iran, confermando che sarebbe una mossa sbagliata, l'orgoglio nazionale sarebbe ferito e i consensi e la difesa per Ahmadinejad sarebbero inevitabili.
“L'Iran ricopre un ruolo di centralità nel Medio Oriente innanzitutto per la sua vastità, per la sua posizione geografica, e l’asse del potere potrebbe spostarsi verso le regioni dell’Asia centrale che l’Iran ha il potenziale per dominare” ha sottolineato Zarmandili, e ha aggiunto: “Obama l’ha capito ne riconosce l’importanza per questo l’argomento di riflessione dovrebbe spostarsi sul cosa succederebbe se Iran e Usa giungessero a un accordo? Cosa succederebbe nel Medio Oriente quali sarebbero le concessioni che si porterebbe dietro questo eventuale accordo”. Sostanzialmente qualcosa si sta muovendo vedremo presto i risultati.
“La centralità del ruolo dell’Iran in quella regione spiega, concretamente, anche l'importanza attribuita alle elezioni iraniane, che hanno subito, da parte del mondo, una attenzione vasta quanto quelle dell'americano Barack Obama”, ha fatto notare Zarmandili.
“L'Iran ha un grande potenziale - ha ribadito ancora il giornalista Zarmandili - dovrebbe capire che non ha motivo di porre così tanta attenzione verso il Medio Oriente, i palestinesi, i Paesi arabi in generale, potrebbe estendere la sua egemonia politica in quel vasto territorio geografico dove la Russia ha lasciato un vuoto, mi riferisco alla zona dell'Asia Centrale, ma questa classe dirigente – ha aggiunto -  non mi sembra in grado di capirlo e approfittarne veramente”.

Valerio Mieli

 
 
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  block notesDiario di viaggio - Da Tel Aviv a Gerusalemme
Diplomatici raddoppiati, diplomatici dimezzati


C'e' una situazione di grande imbarazzo, di cui pochi sono al corrente, nel campo della diplomazia europea in Israele. Per una direttiva dell'Unione Europea, a cui tutti i governi si attengono, le ambasciate si trovano a Tel Aviv, non essendo Gerusalemme la capitale riconosciuta. Gerusalemme resta sotto la giurisdizione dei Consoli generali, che sono accreditati anche presso l'Autorità palestinese. Sembra un cavillo burocratico, è invece una situazione che nuoce moltissimo all'immagine di Israele nel mondo. Infatti, le delegazioni, politiche, economiche, religiose, quando si recano a Gerusalemme sono costrette a far riferimento ai Consoli, e non possono nemmeno essere accompagnate ufficialmente dagli ambasciatori. I Consoli hanno come referente privilegiato l'Autorità palestinese (lo Stato di Israele fa capo alle ambasciate), e hanno interesse a mantenere buone relazioni e a rappresentare gli interessi dei propri referenti. Ovvero, mostrano (talvolta nella luce peggiore) la realtà palestinese, organizzano visite a Hebron, Ramallah, ai check points, ai territori occupati, quasi mai alle realtà culturali straordinarie, alle realizzazioni stupefacenti israeliane. Così - commenta una importante personalità politica francese, non ebreo, "chi arriva a Gerusalemme filoisrealiano ritorna neutro; chi arriva neutro ritorna
antiisraeliano; chi arriva antiisraeliano ritorna antisemita".
Il problema è che giornalisti, politici, personaggi televisivi, opinion maker, più facilmente hanno interesse a recarsi a Gerusalemme che a Tel Aviv, e quindi, invece che alle ambasciate, fanno riferimento ai Consolati. E ne escono spesso artificiosamente contro Israele, e questa è l'immagine che proiettano all'estero. Gli ambasciatori, così, sono dimezzati, come il Visconte di Calvino, al punto da finire a volte in secondo piano rispetto a funzionari
inferiori per grado, e "concorrenti" per funzione. La beffa è che quasi tutti gli  ambasciatori europei, dopo qualche mese di soggiorno a Tel Aviv, sono entusiasti del Paese, della qualità della vita, della cultura, delle eccellenza in ogni campo, e frustrati di non riuscire a  comunicarlo a casa propria.

Viviana Kasam 
 
 
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La magmatica situazione iraniana, con la vasta protesta popolare contro l’esito probabilmente falsificato del voto pronta a trasformarsi in rivolta e in guerra civile, campeggia al centro degli eventi internazionali di oggi e trova adeguato spazio sulle pagine dei quotidiani. L’attenzione dei giornali all’Iran si manifesta su piani diversi e complementari, che è interessante passare in rapida rassegna.
Innanzitutto è la difficoltà di dare notizia a fare notizia. Il Corriere della Sera denuncia in un articolo di Andrea Nicastro e Davide Frattini il blocco pressoché totale dell’informazione in atto da parte del sistema di potere Khamenei-Ahmadinejad: per seguire qualsiasi avvenimento legato alle contestazioni in corso è necessario il permesso del Ministero degli Interni, il quale non rinnova il pass agli interpreti e spesso rispedisce a casa molti inviati di testate straniere. Il bavaglio ai mass media – descritto anche dal Messaggero e dal Sole 24 Ore (che significativamente parla di “velo elettronico”) – è la puntuale conseguenza del recente attacco del Presidente ufficialmente rieletto alla stampa internazionale, le cui ingerenze alimenterebbero la protesta post-elettorale. Ma alla censura montante sta rispondendo un montante tam tam elettronico. Come ci riferisce il Sole 24 Ore, Twitter, Facebook You Tube sono il veicolo che la rabbia e l’organizzazione degli studenti iraniani usano per diffondere nel mondo il loro dissenso politico, mentre entrano in scena anche gli hacker-attivisti tentando di sabotare i sistemi di controllo informatico in mano al potere. E’ interessante e paradossale che in un Paese in cui il dominio politico sulle coscienze naviga sull’integralismo religioso iper-tradizionalista e anti-modernista, la ribellione navighi invece su internet, che appare così come vero strumento di libertà civile.
Se dai problemi di informazione passiamo ai fatti, troviamo ampi resoconti di una situazione ancora fluida. Il Paese appare spaccato in due. L’immagine di questa divisione ce la dà Alberto Negri sul Sole 24 Ore, descrivendo i due opposti cortei che hanno attraversato ieri le strade di Teheran: quello delle donne mute e velate a sostegno dell’establishment, quello delle donne e degli uomini in appoggio di Moussavi vestiti a lutto per le vittime della repressione. In realtà, il binomio Kathami-Ahmadinejad, che si è di prepotenza auto-riconfermato al vertice, appare oggi in grado di controllare e arginare l’opposizione diffusa. Certo, è costretto a farlo con la forza (come ci ricordano Il Messaggero, Il Sole 24 Ore
, Il Tempo, e un po’ tutti i quotidiani), quella forza brutale che guida i reparti speciali del regime a fare irruzione a suon di pestaggi nelle hall degli alberghi o a sparare sulla folla, quella violenza che ha provocato sette morti lunedì scorso. Una forza che è anche segno di debolezza, o comunque di una incertezza politica sul presente e sul futuro dell’Iran.
A orientarci nella complessa matassa religioso-politica dell’Iran della Repubblica Islamica (ma sempre meno repubblica e sempre meno islamica, dice l’oppositore ayatollah Saanei intervistato dal Sole 24 Ore) ci guidano le interessanti analisi di Riccardo De Polo sul Messaggero, di Carlo Panella e di Daniele Raineri sul Foglio. Sguardi diversi, comunque analoghi nello spingersi a osservare dietro e al di sopra della nobile protesta popolare e nel restituirci l’immagine di una drastica lotta per il potere in corso tra i nomi forti del regime khomeinista. Si scontrano visioni differenti del rapporto Islam-politica-società, visioni più o meno aperte all’Occidente (e questo certo fa la differenza), visioni comunque legate a una tradizione religiosa radicata e rivendicata da tutti. Dietro l’ideologia religiosa, gli spazi di potere personale ricercati da vari personaggi eccellenti (Khamenei, e contro di lui Rafsanjani – Presidente dell’Assemblea degli Esperti, Larijiani – Presidente del Parlamento, Montazeri – ayatollah dissidente, e ancora altri). Dietro ancora, le più o meno ampie prospettive di apertura all’Occidente, le possibili scelte politiche ed energetiche: prospettive differenti, per tutte le quali però l’obiettivo nucleare, per scopi pacifici e probabilmente non solo, resta comunque prioritario. Neppure il moderato Moussavi e i suoi alleati, che purtroppo – come rileva Panella – hanno anch’essi scomodi scheletri nell’armadio, ne farebbero probabilmente a meno.
Ma l’Occidente che fa di fronte a quel che accade in queste ore in Iran? Obama sta a guardare, e anzi giudica sostanzialmente analoghi i programmi di Ahmadinejad e quelli del suo principale rivale; ambedue ostili agli Stati Uniti, che comunque devono provare a dialogare con chi è al potere. Sul Corriere della Sera Suzanne Maloney, ex consulente del Dipartimento di Stato americano, si dice convinta che i vertici attuali controlleranno la piazza e giudica positivamente la cautela del Presidente Usa. Anche Nathan Brown, intervistato dall’Unità, non si scalda molto per i possibili cambiamenti; arriva anzi a sostenere che l’approccio diplomatico di Obama, basato su un Iran dominato da Ahmadinejad, è rimasto spiazzato dagli eventi e ci vorrà del tempo prima che la sua strategia di dialogo possa riprendere con un regime così contestato. In Europa solo Sarkozy (seguito però in parte dalla Merkel e da Gordon Brown) si è schierato decisamente contro la repressione messa in atto dal regime iraniano e contro il suo truce leader: ce lo fa notare Davide Carretta sul Foglio, analizzando i molteplici interessi francesi nel Medio Oriente che spingono l’Eliseo a farsi paladino delle libertà iraniane. Gli altri sono in posizione di attesa, e addirittura Frattini si affanna a ribadire la centralità della presenza dell’Iran alla prossima conferenza di Trieste sull’Afghanistan (25-27 giugno): come se a Teheran non fosse in corso in queste ore una battaglia decisiva per il futuro. L’attendismo in questi casi è un invito alla normalizzazione, un chiaro (voluto?) sostegno al regime.
E invece servirebbe un appoggio internazionale e popolare per i coraggiosi oppositori del potere. Come quello che proveranno a dare i partecipanti alla manifestazione indetta per oggi a Roma dal Partito Radicale e dal Riformista, a cui anche la Comunità di Roma e l’UGEI hanno dato la loro adesione (Paolo Conti sul Corriere della Sera). Come quello richiesto con nobile franchezza da Davide Giacalone, che su Libero striglia le coscienze addormentate dell’Occidente. Come quello a cui ci richiama Abraham Yehoshua nell’intervista concessa all’Unità.
Certo, il colloquio di Umberto De Giovannangeli con il grande scrittore israeliano sfiora appena la questione iraniana, per poi soffermarsi sulla realtà israeliana. E’ interessante la posizione di Yehoshua sul recente discorso di Netanyahu. Ci tiene a negare qualsiasi feeling con la linea del premier, eppure gli dà atto di un innegabile, importante cambiamento di linea. Che un governo di destra, guidato da un leader carismatico della destra, si dica disposto ad accettare uno Stato palestinese non è cosa di poco conto: su questo, afferma, bisogna lavorare per disegnare un progetto credibile. Quanto al carattere demilitarizzato del possibile nuovo Stato palestinese, deludendo l’intervistatore Yehoshua concorda appieno: quale israeliano sarebbe disposto a vivere con una pistola perennemente puntata contro la schiena?
A Gaza intanto è arrivato l’ex-Presidente americano Jimmy Carter, sempre pronto a portare la sua accorata testimonianza filopalestinese e antisraeliana. Come ci raccontano con toni ugualmente partecipi il Manifesto e il Messaggero, ha dimostrato angoscia per le distruzioni inferte da Israele e vergogna per gli aerei americani di cui Israele dispone, ha colloquiato con Hanyieh e cercato di dare un’immagine democratica ad Hamas, ha consegnato una lettera del pade di Ghilad Shalit che verrà recapitata al figlio o più probabilmente cestinata senza pietà. Ma tanto Carter, come senza pietà nota invece Francesco Battistini sul Corriere della Sera, è ormai un “simpatico ottantacinquenne che non conta quasi niente”.
Anche la storia fa notizia, come sappiamo da tempo. Il Tempo riprende da Avvenire dei giorni scorsi la rivelazione di un complotto nazista ai danni di Pio XII, grande obiettivo dell’RSHA in alternativa al Re dopo l’arresto di Mussolini il 25 luglio 1943. In realtà, questa novità storica fornisce al quotidiano romano l’occasione per l’ennesima rivalutazione di papa Pacelli, figura indubbiamente ambigua nel suo atteggiamento verso il nazismo ma anche pontefice in odore di santità dalla cui immagine positiva bisogna sgombrare ogni invadente “leggenda nera”. Ancora alla storia di quegli anni ci riporta Francesco Battistini, che sul Corriere della Sera racconta la vicenda di un anziano cardiologo americano di origine polacca il quale, ex-deportato ad Auschwitz ed ex componente di un Sonderkommando, ha conservato per decenni pochi gioielli, unico tesoro di persone morte nelle camere a gas e nascoste in Lager nelle pieghe delle loro uniformi di Haftlinge, consegnando ora quei beni personali così carichi di terribile memoria allo Yad Vashem.

David Sorani

 
 
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Nahum (UGEI): "Ci appelliamo a tutti  i Sindaci di Italia                
affinché dedichino una via agli studenti iraniani"
Roma, 17 giu - 
Il presidente dell'Unione giovani ebrei d'Italia (UGEI), Daniele Nahum, in un comunicato ufficiale ha dichiarato: "Per noi è un dovere morale e civile essere presenti oggi a piazza Farnese per rimanere al fianco degli iraniani che lottano per la libertà e la democrazia nel loro Paese. Per questo - afferma Nahum - esprimeremo la nostra solidarietà al popolo iraniano liberando nell'aria dei palloncini verdi che coloreranno il cielo di Roma di speranza e pace per quella terra." " Inoltre - prosegue Nahum, che conclude - estenderemo il nostro appello fatto al Sindaco di Roma Gianni Alemanno, ancora non raccolto, di dedicare una via della Capitale al 9 luglio 1999 data che ricorda la più grande manifestazione degli studenti iraniani contro il regime, a tutti i Sindaci d'Italia". 
 
 
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