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L'Unione informa |
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17 giugno 2009 - 25 Sivan 5769 |
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alef/tav |
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Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano |
La parashà di Beha'alotekhà comincia con l'ordine al kohèn
di accendere la menorà. Il termine usato per indicare l'accensione è
derivato dalla radice "far salire". Rashì spiega l'uso di questo
termine in questo modo. Il kohèn deve
accendere la menorà fino a che la fiamma salga autonomamente. Secondo i
Maestri, nell'accensione della menorà è presente simbolicamente
l'educazione. Per poter educare qualcuno è necessario occuparsene con
impegno e intensità ponendosi però l'obiettivo che l'allievo diventi
indipendente dal maestro. Bisogna accendere la fiamma ma bisogna anche
far in modo che riesca a salire autonomamente. |
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Alcuni
noti gruppi antisemiti hanno preannunciato alla polizia di New York che
questo sabato pomeriggio manifesteranno di fronte ad alcune sinagoghe.
La polizia li ha autorizzati a condizione che i sit in siano limitati a poche persone, sui marciapiedi opposti a quelli delle sinagoghe ed entro orari specifici. Le singole congregations
così hanno preavvertito per email gli iscritti a "non far caso ai
provocatori che si troveranno sul marciapiede opposto". Antisemiti,
agenti ed ebrei: tutti sanno cosa avverrà, nei minimi dettagli, sabato
pomeriggio. Il pathos così è finito prima ancora di
incominciare. |
Maurizio Molinari, giornalista |
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davar |
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Un dramma sempre taciuto. Immagini, emozioni, rivendicazioni per spiegare i diritti dei profughi ebrei dai Paesi arabi
"C'è
una storia mai raccontata, una storia mai ascoltata, ma una verità che
va conosciuta" si esprime così Irwin Cotler, membro del Parlamento
canadese ed ex ministro di Giustizia e Procuratore generale del Canada,
da anni impegnato nella battaglia contro l'antisemitismo intervenendo
alla serata organizzata da Justice for Jews from Arab Countries
(JJAC), in collaborazione con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
nel cortile del palazzo della Cultura della Comunità Ebraica di Roma
affollato da esponenti della realtà ebraica tripolina, dove è stato
proiettato il film "The Forgotten refugees - I rifugiati dimenticati"
prodotto dal David Project di Boston e premiato da diversi Festival
internazionali. L'iniziativa, è solo l'ultima fra quelle
organizzate in questi giorni dalla JJAC, che è stata ricevuta in
audizione parlamentare alla Camera dei deputati grazie all'intervento
di Fiamma Nirenstein, giornalista e parlamentare alla Camera nelle fila
del Popolo della Libertà che ne è stata promotrice, con lo scopo di
affrontare il tema dei diritti degli ebrei espulsi dagli Stati arabi e
sottolineare come dal conflitto israelo-palestinese siano scaturiti
profughi palestinesi e profughi ebrei e non soltanto profughi
palestinesi. Il film documentario, tradotto in italiano per
l'occasione, esplora la storia la cultura e l'esodo forzato degli ebrei
delle Comunità del Medio Oriente e del nord Africa nella seconda metà
del '900 con una serie di testimonianze di ebrei fuggiti dall'Egitto,
dallo Yemen, dalla Libia, dal Marocco e dall'Iraq. Le drammatiche
immagini di impiccagioni di massa, di case e di sinagoghe bruciate, di
cimiteri profanati si alternano alle parole di ricordo, a momenti
drammatico e a momenti nostalgico, dei testimoni aiutando la
ricostruzione storica del clima che si respirava in queste Comunità
ebraiche un tempo floride. I numeri possono aiutarci a capire la
dimensione del fenomeno: nel 1945 in Algeria c'erano 140 mila ebrei
oggi neanche uno, in Egitto 75 mila oggi solo 100, in Iraq 135 mila
oggi 60, in Libia 38 mila oggi neanche uno, il numero totale del
fenomeno si aggira intorno a un milione di profughi, la maggior parte
dei quali ha trovato la salvezza e si è ricostruita una vita in
Israele, mentre alcuni di essi per mettere in salvo le famiglie sono
scomparsi nel nulla nelle terre d'origine e le famiglie non hanno avuto
neanche la possibilità di dar loro una degna sepoltura. Nel giugno
2007 una versione abbreviata del film documentario è stata proiettata
per la prima volta in occasione del Congresso sui diritti umani
americano e nel marzo 2008 la Camera dei Rappresentanti degli Stati
Uniti ha adottato una risoluzione in favore degli ebrei fuggiti dai
Paesi arabi. "Oggi abbiamo accompagnato la JJAC al Parlamento -
ha detto il Consigliere Ucei Victor Magiar intervenendo subito dopo il
Presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici che ha
espresso l'appoggio a tutte le iniziative che la JJAC intraprenderà in
questo senso, - l'Ucei vuole appoggiare la causa della JJAC per una
questione di giustizia e verità: quasi un milione di ebrei hanno
lasciato i Paesi arabi. Quello che è importante dire è che questo
argomento non è mai stato sollevato e noi vogliamo portarlo
all'attenzione internazionale". "Siamo stati ammazzati nelle
nostre case negli anni '20-'30, - ha continuato Magiar ribadendo
l'impegno dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - prima ancora
che nascesse lo Stato ebraico, siamo stati cacciati prima, dopo e
durante la nascita dello Stato di Israele e vogliamo impegnarci a dare
il nostro appoggio alla JJAC per salvaguardare i beni culturali ebraici
nei Paesi arabi". "E' tragico constatare che se fosse stato
accettato il Piano di spartizione previsto sessanta anni or sono, non
ci sarebbero state guerre arabo-israeliane, né profughi – ebrei o arabi
– e nessuna delle sofferenze di questi ultimi sessant’anni. - Ha
affermato Irwin Cotler intervenendo dopo la proiezione del filmato -
Avremmo celebrato il sessantesimo anniversario dello Stato di Israele e
di quello palestinese. La narrativa revisionista mediorientale – che
pregiudica l’autentica riconciliazione tra i due popoli – continua
a sostenere che c’è solouna popolazione vittima, quella dei profughi
palestinesi, e che Israele è stato responsabile della “nakba”
(tragedia) palestinese del 1948. Il risultato è che le sofferenze di
850 mila ebrei cacciati dai Paesi arabi, l’esodo dimenticato, è stato
eclissato sia dal piani di pace relativi al Medio Oriente sia dalla
narrativa degli ultimi sessant’anni. E’ evidente che gli ebrei sono
stati perseguitati nei Paesi arabi. Ci sono state leggi repressive (sul
modello delle leggi di Norimberga) mirate contro la popolazione
ebraica, il cui risultato è stata l’espulsione, i sequestri illegali
delle proprietà, arresti e detenzioni arbitrarie e torture.
Praticamente dei veri e proprio pogrom antiebraici. Basti
pensare, ha precisato Cotler, che 101 risoluzioni dell'ONU dal 1948 a
oggi, riguardano profughi palestinesi e nessuna i profughi ebrei. La
questione non è che ci sono 850 mila rifugiati ebrei, ha concluso
Cotler, il fatto è che mio padre quando ero piccolo mi ha insegnato il
significato della parola giustizia e sono cresciuto con il senso di
questa parola..."
Lucilla Efrati
La crisi iraniana, le elezioni, e l'apertura americana Interrogativi e risposte al grande enigma del Medio Oriente
L'Iran,
il suo ruolo nel Medio Oriente, l'arma nucleare e le opzioni per
l'Occidente. Temi scottanti trattati in un'atmosfera da “circolo
letterario”, quella che si è respirata a Roma al convegno coordinato da
Giorgio Gomel organizzato dal Gruppo Martin Buber all’Istituto Pitigliani. In una sala adornata dai dipinti dell'artista israeliana Lika Tov i relatori del convegno Renzo Guolo,
docente di Sociologia dell'Islam all'Università di Torino, studioso di
movimenti islamici nonché editorialista della Repubblica e Bijan Zarmandili, esule iraniano, giornalista del gruppo Espresso-Repubblica hanno cercato risposte a molti interrogativi.
I temi sul tappeto, presenti fra il pubblico anche i Consiglieri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Victor Magiar e Anselmo Calò e il Presidente della Fondazione dei Beni Culturali ebraici in Italia, Bruno Orvieto,
sono quelli che riempiono ormai le prime pagine dei giornali: i
risultati delle elezioni iraniane e le prospettive che si aprono alla
luce della rinnovata vittoria di Ahmadinejad per l'Occidente; il legame
fra Medio Oriente e Iran e gli sviluppi del conflitto
israelo-palestinese e, in particolar modo la domanda centrale: “Cosa
farebbe l'Iran se questo conflitto trovasse una soluzione, ci si
opporrebbe?”; quali le novità e le conseguenze dell'apertura del
presidente americano Barack Obama verso i Paesi arabi?
Il
primo a prendere la parola è stato il professor Renzo Guolo che ha
tracciato sommariamente la storia politica dell'Iran, pur sottolineando
lui stesso come la “situazione sia notevolmente complessa e
articolata”. In merito ai brogli elettori, tema di stretta
attualità, entrambi i relatori hanno affermato che ci sono buone
probabilità che questi siano avvenuti. “Difficile credere che
Ahmadinejad possa aver ottenuto un consenso così ampio visto il
fallimento completo nella politica interna del Paese, in particolare
modo nella politica economica. Sotto il suo mandato – ha osservato il
professor Guolo - il Paese ha visto aumentare notevolmente la
disoccupazione e l'inflazione”. “Non solo, sembrerebbe – ha aggiunto
ancora il professore per avvalorare l’ipotesi brogli – che Ahmadinejad
abbia registrato forti consensi nelle comunità minori, come quelle
azere, considerate - dice il professore rivolgendosi al pubblico - che
Mussavi proviene da quelle comunità”. Entrambi però tengono a
chiarire l’impossibilità, anche dopo la dichiarazione della Guida
Suprema Khamanei di andare a un nuovo conteggio delle schede, che i
risultati vengano stravolti, l’Iran non ammetterebbe mai
l’illegittimità delle elezioni. “Ma perché tanto clamore e
attenzione da parte dei Media internazionali verso Mussavi che
differenza ci sarebbe nella sua politica rispetto a quella di
Ahmadinejad?” è un altro degli argomenti emersi nella discussione e
portato alla luce dal giornalista Zarmandili, lo stesso ha
precisato che la politica di Mussavi non sarebbe migliore di quella di
Ahmadinejad. “Mussavi non è un riformista bensì un conservatore con una
forte identità nazionale” – ha precisato Guolo - “La grande differenza
fra i due sarebbe da rintracciare solo nella diversa attenzione rivolta
alla politica estera, Mussavi se eletto si sarebbe occupato in
prevalenza di politica interna e quindi di riforme interne al Paese”,
ha aggiunto. La nuova amministrazione americana e i discorsi di
apertura, tenuti prima in Turchia e poi in Egitto, del Presidente
americano, aprono nuove prospettive. Obama sembra essere un uomo politico di cui entrambi i relatori riconoscono le capacità politiche. “Obama
nel suo discorso al Cairo” ha chiarito ancora Guolo “sembra aver capito
quale sia l'atteggiamento migliore per relazionarsi con l'Iran, un
Paese di forti valori nazionalistici. Non si può, come aveva fatto la
vecchia amministrazione americana, pensare di proibire all'Iran di
dotarsi del nucleare semplicemente con dei richiami internazionali.
Usando il pugno di ferro. Obama ha fatto di meglio ha parlato nel suo
discorso del diritto al nucleare per ogni nazione, e allo stesso tempo,
ovviamente, non ha parlato di nucleare militare. Ritengo che sia questo
il modo migliore per poter interagire con gli iraniani”. Il
nazionalismo e il precludere con dei divieti la possibilità all'Iran di
gestire il proprio Paese sono temi centrali da non sottovalutare. Quando
tra il pubblico una ascoltatrice attenta ha posto la domanda se esista
veramente, come anticipato dall’ex ministro della Giustizia canadese ed
esperto di diritto internazionale Irwin Cotler, la
possibilità nella legge internazionale di accusare e quindi incriminare
Ahmadinejad di “istigazione al genocidio nei confronti degli ebrei” e
“quali sarebbero le conseguenze se questa legge fosse applicata”,
ancora entrambi i relatori hanno insistito sul forte carattere
nazionalista dell’Iran, confermando che sarebbe una mossa sbagliata,
l'orgoglio nazionale sarebbe ferito e i consensi e la difesa per
Ahmadinejad sarebbero inevitabili. “L'Iran ricopre un ruolo di
centralità nel Medio Oriente innanzitutto per la sua vastità, per la
sua posizione geografica, e l’asse del potere potrebbe spostarsi verso
le regioni dell’Asia centrale che l’Iran ha il potenziale per dominare”
ha sottolineato Zarmandili, e ha aggiunto: “Obama l’ha capito ne
riconosce l’importanza per questo l’argomento di riflessione dovrebbe
spostarsi sul cosa succederebbe se Iran e Usa giungessero a un accordo?
Cosa succederebbe nel Medio Oriente quali sarebbero le concessioni che
si porterebbe dietro questo eventuale accordo”. Sostanzialmente
qualcosa si sta muovendo vedremo presto i risultati. “La
centralità del ruolo dell’Iran in quella regione spiega, concretamente,
anche l'importanza attribuita alle elezioni iraniane, che hanno subito,
da parte del mondo, una attenzione vasta quanto quelle dell'americano
Barack Obama”, ha fatto notare Zarmandili. “L'Iran ha un grande
potenziale - ha ribadito ancora il giornalista Zarmandili - dovrebbe
capire che non ha motivo di porre così tanta attenzione verso il Medio
Oriente, i palestinesi, i Paesi arabi in generale, potrebbe estendere
la sua egemonia politica in quel vasto territorio geografico dove la
Russia ha lasciato un vuoto, mi riferisco alla zona dell'Asia Centrale,
ma questa classe dirigente – ha aggiunto - non mi sembra in grado
di capirlo e approfittarne veramente”.
Valerio Mieli
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Diario di viaggio - Da Tel Aviv a Gerusalemme Diplomatici raddoppiati, diplomatici dimezzati
C'e'
una situazione di grande imbarazzo, di cui pochi sono al corrente, nel
campo della diplomazia europea in Israele. Per una direttiva
dell'Unione Europea, a cui tutti i governi si attengono, le ambasciate
si trovano a Tel Aviv, non essendo Gerusalemme la capitale
riconosciuta. Gerusalemme resta sotto la giurisdizione dei Consoli
generali, che sono accreditati anche presso l'Autorità palestinese.
Sembra un cavillo burocratico, è invece una situazione che nuoce
moltissimo all'immagine di Israele nel mondo. Infatti, le delegazioni,
politiche, economiche, religiose, quando si recano a Gerusalemme sono
costrette a far riferimento ai Consoli, e non possono nemmeno essere
accompagnate ufficialmente dagli ambasciatori. I Consoli hanno come
referente privilegiato l'Autorità palestinese (lo Stato di Israele fa
capo alle ambasciate), e hanno interesse a mantenere buone relazioni e
a rappresentare gli interessi dei propri referenti. Ovvero, mostrano
(talvolta nella luce peggiore) la realtà palestinese, organizzano
visite a Hebron, Ramallah, ai check points, ai territori occupati,
quasi mai alle realtà culturali straordinarie, alle realizzazioni
stupefacenti israeliane. Così - commenta una importante personalità
politica francese, non ebreo, "chi arriva a Gerusalemme filoisrealiano
ritorna neutro; chi arriva neutro ritorna antiisraeliano; chi arriva antiisraeliano ritorna antisemita". Il
problema è che giornalisti, politici, personaggi televisivi, opinion
maker, più facilmente hanno interesse a recarsi a Gerusalemme che a Tel
Aviv, e quindi, invece che alle ambasciate, fanno riferimento ai
Consolati. E ne escono spesso artificiosamente contro Israele, e questa
è l'immagine che proiettano all'estero. Gli ambasciatori, così, sono
dimezzati, come il Visconte di Calvino, al punto da finire a volte in
secondo piano rispetto a funzionari inferiori per grado, e
"concorrenti" per funzione. La beffa è che quasi tutti gli
ambasciatori europei, dopo qualche mese di soggiorno a Tel Aviv, sono
entusiasti del Paese, della qualità della vita, della cultura, delle
eccellenza in ogni campo, e frustrati di non riuscire a
comunicarlo a casa propria.
Viviana Kasam |
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La
magmatica situazione iraniana, con la vasta protesta popolare contro
l’esito probabilmente falsificato del voto pronta a trasformarsi in
rivolta e in guerra civile, campeggia al centro degli eventi
internazionali di oggi e trova adeguato spazio sulle pagine dei
quotidiani. L’attenzione dei giornali all’Iran si manifesta su piani
diversi e complementari, che è interessante passare in rapida rassegna. Innanzitutto è la difficoltà di dare notizia a fare notizia. Il Corriere della Sera
denuncia in un articolo di Andrea Nicastro e Davide Frattini il blocco
pressoché totale dell’informazione in atto da parte del sistema di
potere Khamenei-Ahmadinejad: per seguire qualsiasi avvenimento legato
alle contestazioni in corso è necessario il permesso del Ministero
degli Interni, il quale non rinnova il pass agli interpreti e spesso
rispedisce a casa molti inviati di testate straniere. Il bavaglio ai
mass media – descritto anche dal Messaggero e dal Sole 24 Ore
(che significativamente parla di “velo elettronico”) – è la puntuale
conseguenza del recente attacco del Presidente ufficialmente rieletto
alla stampa internazionale, le cui ingerenze alimenterebbero la
protesta post-elettorale. Ma alla censura montante sta rispondendo un
montante tam tam elettronico. Come ci riferisce il Sole 24 Ore,
Twitter, Facebook You Tube sono il veicolo che la rabbia e
l’organizzazione degli studenti iraniani usano per diffondere nel mondo
il loro dissenso politico, mentre entrano in scena anche gli
hacker-attivisti tentando di sabotare i sistemi di controllo
informatico in mano al potere. E’ interessante e paradossale che in un
Paese in cui il dominio politico sulle coscienze naviga
sull’integralismo religioso iper-tradizionalista e anti-modernista, la
ribellione navighi invece su internet, che appare così come vero
strumento di libertà civile. Se dai problemi di informazione
passiamo ai fatti, troviamo ampi resoconti di una situazione ancora
fluida. Il Paese appare spaccato in due. L’immagine di questa divisione
ce la dà Alberto Negri sul Sole 24 Ore,
descrivendo i due opposti cortei che hanno attraversato ieri le strade
di Teheran: quello delle donne mute e velate a sostegno
dell’establishment, quello delle donne e degli uomini in appoggio di
Moussavi vestiti a lutto per le vittime della repressione. In realtà,
il binomio Kathami-Ahmadinejad, che si è di prepotenza
auto-riconfermato al vertice, appare oggi in grado di controllare e
arginare l’opposizione diffusa. Certo, è costretto a farlo con la forza
(come ci ricordano Il Messaggero, Il Sole 24 Ore, Il Tempo,
e un po’ tutti i quotidiani), quella forza brutale che guida i reparti
speciali del regime a fare irruzione a suon di pestaggi nelle hall
degli alberghi o a sparare sulla folla, quella violenza che ha
provocato sette morti lunedì scorso. Una forza che è anche segno di
debolezza, o comunque di una incertezza politica sul presente e sul
futuro dell’Iran. A orientarci nella complessa matassa
religioso-politica dell’Iran della Repubblica Islamica (ma sempre meno
repubblica e sempre meno islamica, dice l’oppositore ayatollah Saanei
intervistato dal Sole 24 Ore) ci guidano le interessanti analisi di Riccardo De Polo sul Messaggero, di Carlo Panella e di Daniele Raineri
sul Foglio. Sguardi diversi, comunque analoghi nello spingersi a
osservare dietro e al di sopra della nobile protesta popolare e nel
restituirci l’immagine di una drastica lotta per il potere in corso tra
i nomi forti del regime khomeinista. Si scontrano visioni differenti
del rapporto Islam-politica-società, visioni più o meno aperte
all’Occidente (e questo certo fa la differenza), visioni comunque
legate a una tradizione religiosa radicata e rivendicata da tutti.
Dietro l’ideologia religiosa, gli spazi di potere personale ricercati
da vari personaggi eccellenti (Khamenei, e contro di lui Rafsanjani –
Presidente dell’Assemblea degli Esperti, Larijiani – Presidente del
Parlamento, Montazeri – ayatollah dissidente, e ancora altri). Dietro
ancora, le più o meno ampie prospettive di apertura all’Occidente, le
possibili scelte politiche ed energetiche: prospettive differenti, per
tutte le quali però l’obiettivo nucleare, per scopi pacifici e
probabilmente non solo, resta comunque prioritario. Neppure il moderato
Moussavi e i suoi alleati, che purtroppo – come rileva Panella – hanno
anch’essi scomodi scheletri nell’armadio, ne farebbero probabilmente a
meno. Ma l’Occidente che fa di fronte a quel che accade in queste
ore in Iran? Obama sta a guardare, e anzi giudica sostanzialmente
analoghi i programmi di Ahmadinejad e quelli del suo principale rivale;
ambedue ostili agli Stati Uniti, che comunque devono provare a
dialogare con chi è al potere. Sul Corriere della Sera
Suzanne Maloney, ex consulente del Dipartimento di Stato americano, si
dice convinta che i vertici attuali controlleranno la piazza e giudica
positivamente la cautela del Presidente Usa. Anche Nathan Brown,
intervistato dall’Unità,
non si scalda molto per i possibili cambiamenti; arriva anzi a
sostenere che l’approccio diplomatico di Obama, basato su un Iran
dominato da Ahmadinejad, è rimasto spiazzato dagli eventi e ci vorrà
del tempo prima che la sua strategia di dialogo possa riprendere con un
regime così contestato. In Europa solo Sarkozy (seguito però in parte
dalla Merkel e da Gordon Brown) si è schierato decisamente contro la
repressione messa in atto dal regime iraniano e contro il suo truce
leader: ce lo fa notare Davide Carretta sul Foglio,
analizzando i molteplici interessi francesi nel Medio Oriente che
spingono l’Eliseo a farsi paladino delle libertà iraniane. Gli altri
sono in posizione di attesa, e addirittura Frattini si affanna a
ribadire la centralità della presenza dell’Iran alla prossima
conferenza di Trieste sull’Afghanistan (25-27 giugno): come se a
Teheran non fosse in corso in queste ore una battaglia decisiva per il
futuro. L’attendismo in questi casi è un invito alla normalizzazione,
un chiaro (voluto?) sostegno al regime. E invece servirebbe un
appoggio internazionale e popolare per i coraggiosi oppositori del
potere. Come quello che proveranno a dare i partecipanti alla
manifestazione indetta per oggi a Roma dal Partito Radicale e dal
Riformista, a cui anche la Comunità di Roma e l’UGEI hanno dato la loro
adesione (Paolo Conti sul Corriere della Sera). Come quello richiesto con nobile franchezza da Davide Giacalone, che su Libero striglia le coscienze addormentate dell’Occidente. Come quello a cui ci richiama Abraham Yehoshua nell’intervista concessa all’Unità. Certo,
il colloquio di Umberto De Giovannangeli con il grande scrittore
israeliano sfiora appena la questione iraniana, per poi soffermarsi
sulla realtà israeliana. E’ interessante la posizione di Yehoshua sul
recente discorso di Netanyahu. Ci tiene a negare qualsiasi feeling con
la linea del premier, eppure gli dà atto di un innegabile, importante
cambiamento di linea. Che un governo di destra, guidato da un leader
carismatico della destra, si dica disposto ad accettare uno Stato
palestinese non è cosa di poco conto: su questo, afferma, bisogna
lavorare per disegnare un progetto credibile. Quanto al carattere
demilitarizzato del possibile nuovo Stato palestinese, deludendo
l’intervistatore Yehoshua concorda appieno: quale israeliano sarebbe
disposto a vivere con una pistola perennemente puntata contro la
schiena? A Gaza intanto è arrivato l’ex-Presidente americano Jimmy
Carter, sempre pronto a portare la sua accorata testimonianza
filopalestinese e antisraeliana. Come ci raccontano con toni ugualmente
partecipi il Manifesto e il Messaggero,
ha dimostrato angoscia per le distruzioni inferte da Israele e vergogna
per gli aerei americani di cui Israele dispone, ha colloquiato con
Hanyieh e cercato di dare un’immagine democratica ad Hamas, ha
consegnato una lettera del pade di Ghilad Shalit che verrà recapitata
al figlio o più probabilmente cestinata senza pietà. Ma tanto Carter,
come senza pietà nota invece Francesco Battistini sul Corriere della Sera, è ormai un “simpatico ottantacinquenne che non conta quasi niente”. Anche la storia fa notizia, come sappiamo da tempo. Il Tempo
riprende da Avvenire dei giorni scorsi la rivelazione di un complotto
nazista ai danni di Pio XII, grande obiettivo dell’RSHA in alternativa
al Re dopo l’arresto di Mussolini il 25 luglio 1943. In realtà, questa
novità storica fornisce al quotidiano romano l’occasione per l’ennesima
rivalutazione di papa Pacelli, figura indubbiamente ambigua nel suo
atteggiamento verso il nazismo ma anche pontefice in odore di santità
dalla cui immagine positiva bisogna sgombrare ogni invadente “leggenda
nera”. Ancora alla storia di quegli anni ci riporta Francesco
Battistini, che sul Corriere della Sera
racconta la vicenda di un anziano cardiologo americano di origine
polacca il quale, ex-deportato ad Auschwitz ed ex componente di un
Sonderkommando, ha conservato per decenni pochi gioielli, unico tesoro
di persone morte nelle camere a gas e nascoste in Lager nelle pieghe
delle loro uniformi di Haftlinge, consegnando ora quei beni personali
così carichi di terribile memoria allo Yad Vashem.
David Sorani |
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Nahum (UGEI): "Ci appelliamo a tutti i Sindaci di Italia affinché dedichino una via agli studenti iraniani" Roma, 17 giu - Il
presidente dell'Unione giovani ebrei d'Italia (UGEI), Daniele Nahum, in
un comunicato ufficiale ha dichiarato: "Per noi è un dovere morale
e civile essere presenti oggi a piazza Farnese per rimanere al fianco
degli iraniani che lottano per la libertà e la democrazia nel loro
Paese. Per questo - afferma Nahum - esprimeremo la nostra
solidarietà al popolo iraniano liberando nell'aria dei palloncini verdi
che coloreranno il cielo di Roma di speranza e pace per quella terra."
" Inoltre - prosegue Nahum, che conclude - estenderemo il nostro
appello fatto al Sindaco di Roma Gianni Alemanno, ancora non
raccolto, di dedicare una via della Capitale al 9 luglio 1999 data che
ricorda la più grande manifestazione degli studenti iraniani contro il
regime, a tutti i Sindaci d'Italia". |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
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Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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