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L'Unione informa |
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18 giugno 2009 - 26 Sivan 5769 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma |
In
America lo chiamano il "grasshoper complex", il complesso della
cavalletta. Se una persona ritiene di essere davanti agli altri piccolo
come una cavalletta, gli altri finiranno per convincersi che è vero. E'
quello che emerge dal racconto della parashà di questa settimana, alla
fine del capitolo 13 del libro dei Numeri, dove 10 dei 12 esploratori
tornati dalla terra promessa riferiscono che sarà impossibile averla,
perché gli abitanti sono molto più grandi e potenti: "noi ci
consideravamo cavallette e così eravamo ai loro occhi"; gli esploratori
sapevano bene quali erano le loro sensazioni personali, ma come
facevano a sapere cosa gli altri pensavano di loro? Proprio alla fine
della parashà precedente abbiamo letto, in lode di Mosè, che la sua
virtù era quella di essere l'uomo più umile di tutti. L'umiltà
significa riconoscere i propri limiti e non montarsi la testa; ma
questo non significa che bisogna arrendersi davanti alle difficoltà e
pensare che gli altri, rispetto a noi, siano dei giganti. |
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Quando
parliamo di Israele su questa pagina spesso cerchiamo di correggere
l’erronea immagine negativa del paese che è diffusa nell’opinione
pubblica europea. Ma questo non può andare a scapito della libertà di
critica quando l’esecutivo israeliano commette gravi errori. Il 7
maggio scorso avevamo riportato la sentenza della Corte Suprema
israeliana che stabiliva che, dall’anno prossimo, le madri che lavorano
avrebbero potuto dedurre nella dichiarazione dei redditi le spese
sostenute per la governante dei bambini o per l’asilo nido. Ebbene,
questa settimana il governo di Israele nella nuova legge di bilancio ha
soppresso la decisione del tribunale e l'ha sostituita con un
modestissimo bonifico peraltro compensato dalla soppressione di un
altro bonifico in altra parte del bilancio. A parte il problema non
semplice dell’imposizione dell’opinione del potere esecutivo su quella
del giudiziario, proprio il Tribunale aveva saputo interpretare una
necessità primaria nella società israeliana ampiamente dimostrata dalle
indagini sociali. Perché questa scelta? Da un lato, per l'arida
applicazione di astratti modelli economici da parte di funzionari del
Tesoro totalmente isolati dalle necessità del paese reale. Dall'altro,
per piccoli interessi di coalizione che inducono il governo a preferire
le necessità di gruppi specifici di popolazione rispetto a quelle della
società nel suo complesso. Tre le conclusioni possibili. La prima è che
Israele perde un'ottima occasione per promuovere la condizione della
donna e della famiglia giovane e produttiva. La seconda è che il
governo di Gerusalemme perde credibilità nel dibattito sulla cosiddetta
questione demografica. La terza è che quanto abbiamo descritto ricorda
molto da vicino ciò che avviene quotidianamente sotto altri cieli.
Israele come tutte le Nazioni. |
Sergio Della Pergola,
demografo Università Ebraica di Gerusalemme |
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Pagine d'Israele 4 - Jerusalem Post da Agron a Horovitz 60 anni di informazione
“La
verità è più forte della TNT e brucia più luminosa delle fiamme
dell’incendio”, con queste parole il giornale di lingua inglese,
Jerusalem Post (allora ancora Palestine Post), il 2 febbraio 1948
dimostra al mondo che nemmeno mezza tonnellata
di esplosivo può fermare la verità: “il tiranno, il fascista, lo stolto
e l’ignorante hanno sempre cercato lungo la storia di sopprimere la
verità; ma ogni volta hanno fallito”. Sono circa le 11 del primo
febbraio quando a Gerusalemme due disertori inglesi, Eddie Brown e
Peter Cameron, posizionano un’auto rubata della polizia britannica di
fronte alla sede del giornale. Il piano progettato dall’agente arabo
Abou Khalil Genno è semplice: la vettura è stata riempita di tritolo e
all’ora stabilita uno fra Brown e Cameron deve attivare il detonatore.
L’obbiettivo principale è Gershon Agron, fondatore del Palestine Post
(1932) e fervente sionista, che però quel giorno si trova a Londra per
lavoro.
L’esplosione
è spaventosa, decine di persone rimangono ferite gravemente, tre
perdono tragicamente la vita; uffici e macchinari vengono rasi al suolo
(nella foto a fianco la sede del Palestine Post dopo l'esplosione).
La drammatica notte non intimorisce i sopravvissuti e il Palestine Post
riesce a uscire il giorno seguente in versione ridotta; le due pagine
del giornale, stampate in una piccola tipografia, sono una forte
dimostrazione di coraggio e servono a dare un segnale di speranza, in
particolare alla popolazione ebraica di Gerusalemme, martoriata da
continui bombardamenti ed esplosioni. Marlin Levin, collaboratore del
Jerusalem Post, ricorda “sembrava che le nostre vite dipendessero dagli
estremisti di tutte le parti. Gli arabi che sparavano agli
autobus israeliani e bombardavano i centri ebraici, spargevano chiodi
sulle strade percorse dai diplomatici inglesi. Gruppi clandestini
dell'estrema destra israeliana lanciavano granate nei bar frequentati
dai soldati della corona, sparavano sui villaggi arabi e facevano
saltare i ponti utilizzati dalle forze armate britanniche. Un mosaico
di vita formato da sparatorie, incendi dolosi, omicidi per
ventiquattro ore al giorno.”
In
questo clima di tensione e paura, Gershon Agron (nella foto a fianco)
cerca di infondere coraggio attraverso il suo giornale; crede
fortemente nello Stato ebraico e non vuole lasciare da solo il suo
popolo. GA, acronimo con cui è conosciuto in redazione, arriva in
Heretz Israel nel 1918 come sergente del battaglione nordamericano dei
Fucilieri Reali (per lo più formato da volontari ebrei). Nato in Russia
nel 1894, si fa le ossa nel mondo giornalistico a Philadelphia e New
York, lavorando presso la rivista Yiddische Welt e Das Yiddische Folk
(parte dell’Organizzazione nazionale sionista) oltre che come
corrispondente per l’Agenzia Telegrafica Ebraica. Agron è un brillante
autodidatta, conosce alla perfezione l’inglese e l’ebraico; dimostra
inoltre grandi capacità oratorie e alla Temple Univerity di
Philadelphia tutti conoscono i suoi entusiastici discorsi da sionista
convinto. GA vuole raggiungere a tutti i costi Israele, nel 1914
scrive addirittura al celebre rabbino Judah Magnes per farsi procurare
un lavoro, possibilmente a Tel Aviv o Gerusalemme. Il sogno si realizza
nel 1918 e Agron viene nominato quasi subito rappresentante delle
agenzie di stampa straniera; fonda la Foreign Press Association e la
Jerusalem Journalists Association ma la sua massima aspirazione sarebbe
di creare un proprio giornale in lingua inglese con cui sostenere
e diffondere le idee sioniste nel paese e oltre mare. Come si suol
dire, la sorte aiuta gli audaci e nel 1932 un certo signor Lurie rileva
il Palestine Bulletin e vorrebbe Agron come direttore. I due trovano un
accordo, che comprende l’assunzione di Ted, il figlio del proprietario.
Nonostante la perplessità di GA, Ted si dimostrerà uno dei più
efficienti e abili caporedattori che il Post abbia mai avuto; nessuno
ne sa quanto lui riguardo la pubblicazione di un giornale. I
compiti dunque sono ben definiti, TRL (immancabile acronimo affibbiato
a Ted dai suoi collaboratori) si occupa della parte tecnica, Agron
degli argomenti da trattare. Quest’ultimo attacca ferocemente il
governo inglese per la sua politica contro le migrazioni in Israele
(Libro Bianco del 1939). In quegli anni il Palestine Post è
considerato un giornale di sinistra, peraltro apertamente schierato al
fianco del partito Mapai. Le istituzioni sioniste lo ritengono uno dei
più importanti veicoli per influenzare le autorità inglesi. Il
prestigio del giornale nel mondo politico aumenta gradualmente; Agron
acquista popolarità e ottiene una posizione autorevole nel panorama
dell’informazione internazionale. Lincoln diceva: "evita la fama se
vuoi vivere in pace"; in effetti l’importanza del direttore del Post,
lo rende un bersaglio appetibile e l’attacco terroristico del 1948 alla
sede del giornale è diretto a lui. Quel giorno però GA è a Londra; la
tragica notizia lo riempie di dolore ma non si scompone, è pronto a
lottare e decide di tornare subito a Gerusalemme, dove rimarrà lungo
tutto il periodo dei bombardamenti. “Un giorno, mentre eravamo a Sion
Square, non lontano dalla redazione, una pioggia di bombe è caduta dal
cielo e attorno a noi tutto esplodeva. Ho gridato ad Agron di
raggiungere il rifugio più vicino. Ha rifiutato e si è diretto verso un
anziano lustrascarpe, tranquillamente seduto sotto al tendone di un
cinema. Più tardi chiesi ad Agron il motivo di quel gesto pericoloso ed
avventato. Mi disse: -Se quel vecchio è stato abbastanza coraggioso da
starsene seduto là fuori mentre cadevano le bombe, beh io non potevo
essere da meno-” racconta Marlin Levin, in quegli anni giornalista e
fotografo del Post. Il coraggio e il forte legame con la città verranno
premiati nel 1955, quando Agron diviene sindaco di Gerusalemme. Nel
1950 il Palestine Post cambia nome e diviene il Jerusalem Post;
l’utilizzo dell'inglese agevola la diffusione del giornale a livello
internazionale ma le copie vendute in patria sono fortemente inferiori
rispetto agli altri grandi quotidiani. Il Post è letto soprattutto
fuori dai confini israeliani e diventa un buon tramite di informazioni
per la stampa straniera, che attinge a piene mani dai suoi articoli. Per
circa cinquant’anni il Post rappresenta la sinistra israeliana,
appoggiando il Mapai prima e i laburisti poi. Il vento cambia con la
nuova proprietà: nel 1989 il Post viene acquistato dal David Randler,
braccio destro di Conrad Black, magnate canadese dell’editoria e primo
azionista della Hollinger Internetional Inc., gruppo che controlla
l’inglese Daily Telegraph, l’americano Chicago Sun Times e il canadese
National Post. Black e Radler affidano il controllo editoriale del
Post a Yehuda Levy, colonnello in ritiro dell’esercito israeliano, ma
cominciano a emergere i primi malumori. In redazione si mormora
che Levy vorrebbe dare un impronta di destra al giornale anche se
in un’intervista alla radio l’editore smentisce “non è corretto dire
che voglio cambiare la linea editoriale da sinistra a destra, anche se
ne ho pieno diritto” ed aggiunge “vorrei solo che si adottasse una
posizione più sionista”. In quegli anni il Post sostiene apertamente la
necessità di un compromesso territoriale con i palestinesi e critica
aspramente il governo per la gestione della prima intifada (1987). Le
incomprensioni della redazione con l’editore, diventano aperta ostilità
quando Levy ordina a Erwin Frenkel, direttore del giornale, di
eliminare un editoriale dalla prima pagina dell’edizione
internazionale. L’articolo è una dura risposta alle critiche del primo
ministro Yitzhak Shamir, il quale aveva definito le posizioni di
sinistra del Post come una minaccia per il ruolo di Israele nel mondo
ebraico. Frenkel risponde che il giornale è fiero di essere in costante
disaccordo con la politica territoriale del Likud, riferendosi al
rifiuto del primo ministro di cedere dei territori, gesto che, a suo
dire, sarebbe stato un primo passo verso il processo di pace. L’imposizione
di Levy scatena un vespaio; ad aggiungere benzina sul fuoco ci pensa lo
stesso editore che dichiara di voler entrare attivamente nelle scelte e
nel lavoro del quotidiano. Siamo nel gennaio del 1990, Frenkel decide
di rassegnare le dimissioni; nove membri della redazione, fra cui David
Landau, uno dei caporedattori e futuro direttore di Haaretz, minacciano
di farlo se entro trenta giorni il collega non sarà reintegrato e Levy
non tornerà sui suoi passi. Viene addirittura indetto uno sciopero a
cui partecipano gran parte dei membri dello staff. Menachem
Shalev, uno dei corrispondenti del Post, spiega in questi termini la
preoccupazione generale “gli uffici del primo ministro e il ministero
degli esteri mantengono una costante pressione sul Post, ma fino ad ora
non avevano un indirizzo a cui recapitare le proprie rimostranze. Ora
c’è e ha un nome ”. Levy non molla; trenta giornalisti e
collaboratori lasciano il quotidiano, primo fra tutti Landau che farà
tesoro della lunga esperienza al Post per trasmetterla alla sua nuova
creatura, l’edizione inglese di Haaretz. In questi anni il
giornale prende una posizione decisamente più conservatrice, spesso
appoggiando apertamente le scelte del Likud. Nonostante un inevitabile
cambio di pubblico e la competizione di Haaretz, il Post riesce a
mantenere quasi inalterata la sua diffusione, che si attesta a circa
25.000 copie in settimana, 55.000 nel week-end e 70.000 per l’edizione
internazionale. Per dare nuovo impulso al giornale, nel 2002
viene nominato direttore il poco più che trentenne Bret Stephen, che
diviene il più giovane nella storia del Post ad aver ricoperto quella
posizione. A dispetto dell’età, Stephen si dimostra pronto ad
affrontare questa grande sfida. Già caporedattore del Wall Street
Journal a Bruxelles e a New York, in un'intervista sostiene che la più
grande sfida editoriale “è di fornire al lettore un’informazione
veloce, precisa e accurata. Il Post è un quotidiano ma l’85% del nostro
pubblico è online, quindi la nostra vera copertura non è giornaliera ma
oraria. Se c’è un attacco terroristico vogliamo far uscire la notizia
il più velocemente possibile, ma non così in fretta da rischiare
errori”. Per quanto concerne il pubblico, Stephen dichiara: “c’è una
grande sensibilità fra i nostri lettori riguardo la linea editoriale,
l’uso di una determinata terminologia, la scelta delle storie, persino
quella delle foto. Per esempio dobbiamo chiamare i territori Giudea e
Samaria o West Bank? Quando parliamo di un attacco, dobbiamo definirlo
terrorismo o guerriglia? C’è molta soggettività in questo lavoro, il
rischio di una pioggia di critiche e i lettori non sono sempre disposti
a perdonare”. L’avventura di Stephen alla guida del Post dura solo
due anni, anche e soprattutto a causa dei problemi che sta vivendo la
proprietà. Conrad Black è costretto a dimettersi dalla Hollinger
Corporation perche' su di lui pesano gravissime imputazioni. Assieme a
Randler, è accusato dalla U.S Attorney di riciclaggio di denaro,
racket, frode e ostacolo alla giustizia. Alla Hollinger subentra
nel 2004 la Mirkaei Tikshoret, una casa editrice di Tel Aviv, e diventa
direttore David Horovitz. Il forte conservatorismo di destra lascia
spazio ad una linea editoriale più moderata e meno schierata. Horovitz,
già direttore del Jerusalem Report e collaboratore di quotidiani di
prestigio come il New York Times e l’Indipendent, cerca di
riequilibrare il giornale, inserendo articoli e autori che garantiscono
punti di vista differenti e assicurano un’informazione più completa. Di
sinistra o di destra, a lungo unico giornale israeliano in lingua
inglese, il Jerusalem Post ha dato un contributo notevole alla
diffusione dell’informazione oltre i confini del paese e ai giornalisti
di lingua straniera. In quasi ottant’anni, il Post ha resistito alle
esplosioni, ai cambiamenti, alla concorrenza, forse memore di ciò che
scrisse quel suo giornalista, David Courtney, all’indomani dell’attacco
terroristico alla sede del giornale: “la verità non muore mai e deve
esserci sempre qualcuno a raccontarla”.
Daniel Raichel
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pilpul |
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Notizie tristi
Purtroppo,
in questi giorni la stampa democratica ha dovuto occuparsi della
libertà in Iran. Lo sforzo è stato fatale. Decine di giornalisti del
più famoso quotidiano nazionale con sede a Roma sono stati trovati
inerti davanti al computer. Erano completamente mummificati. Dagli
orecchi ormai sassosi fuoriusciva un sibilo come quando si è bucata
una gomma. Il Tizio della Sera
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rassegna stampa |
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Gli ebrei esuli tornano italiani
Il
Viminale risolve la storica questione degli ebrei italiani cui era
stata revocata, a causa delle leggi razziali del 1938, la concessione
della cittadinanza del nostro Paese e che, a seguito delle norme
fasciste, lasciarono l'Italia. Il Regio decreto legge del 20 gennaio
1944 restituì poi la cittadinanza a tutti gli ex connazionali di
origine ebraica. Ma è rimasta in sospeso fino a oggi la vicenda degli
ebrei italiani andati all'estero che hanno deciso di acquistare la
cittadinanza dello Stato di destinazione. E' probabile che questa
scelta sia stata dettata all'epoca anche dalla mancanza della
conoscenza della revoca delle leggi razziali, oltre che dalla necessità
di non trovarsi nello status di apolidi. La circolare del ministero
dell'Interno, a cura della Direzione centrale per i diritti civili, la
cittadinanza e le minoranze, sostiene che «nel loro comportamento non
può ravvisarsi una scelta volontaria e consapevole di rinuncia alla
cittadinanza italiana». Con questa premessa ed escluso il caso che ci
sia stata un'espressa volontà di rinuncia - il ministero dell'Interno
ritiene che non c'è stata nessuna perdita di cittadinanza. Anzi, gli
ebrei italiani fuggiti all'estero non solo non l'hanno mai persa ma
«conseguentemente l'hanno trasmessa ai loro discendenti».
Marco Ludovico, Il Sole 24 Ore - 18 giugno 2009 L'ordinanza sul sito del Viminale www.interno.it |
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notizieflash |
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MO,
Avigdor Lieberman a Hillary Clinton:
"No a un congelamento completo degli insediamenti" New York, 17 giu - Il
ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, in visita in
questi giorni a Washington ha ribadito al segretario di Stato americano
Hillary Clinton che Israele dice no a un congelamento "completo" dello
sviluppo degli insediamenti nei territori palestinesi occupati su cui
preme l'amministrazione Obama. La Clinton ha invece sottolineato che
per gli Stati Uniti lo stop agli insediamenti è "importante ed
essenziale" per il processo di pace. Il segretario di Stato
americano, nel corso di una conferenza stampa con Lieberman, nel
ribadire la posizione degli Usa ha offerto comunque a Israele la
disponibilità a valutare possibili soluzioni. Secondo quanto ha
affermato la Clinton, l'inviato dell' amministrazione Obama in Medio
Oriente, George Mitchell, avrà a breve una serie di colloqui con gli
israeliani sulle loro "maggiori preoccupazioni". Fonti americane e
israeliane hanno lasciato trapelare che Washington sarebbe disponibile
a mostrarsi flessibile sulla prosecuzione di progetti di sviluppo degli
insediamenti che siano già avviati, insistendo invece sulla necessità
di congelare qualsiasi nuova iniziativa in Cisgiordania. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
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