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L'Unione informa |
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19 giugno 2009 - 27 Sivan 5769 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
Agli
ebrei che per paura dei cananei non volevano entrare in terra d’Israele
Iehoshua disse: “Non abbiate paura. Ce li mangiamo come il pane. La
loro ombra si è allontanata dalle loro teste”. Chi ha una testa che non
fa ombra non fa paura. Chi ha tante belle idee che non lasciano traccia
sulla terra è insignificante. |
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La
voce del genocidio del Ruanda, colui che nel 1994 dalla radio delle
Mille Colline incitava gli hutu a massacrare i tutsi e segnalava nomi e
indirizzi delle vittime apparteneva a un italo-belga, Georges Omar
Ruggiu. Ruggiu era stato condannato per genocidio a dodici anni nel
2000 dal Tribunale penale internazionale sui crimini del Ruanda. Dopo
aver scontato in Tanzania, sede del Tribunale, otto anni di prigione,
Ruggiu era stato inviato in Italia nel carcere di Voghera a scontare il
rimanente della pena. Compresi i vari benefici, avrebbe dovuto essere
liberato nel luglio di quest'anno, dopo nove anni di prigione. Non era
molto, per un genocidario, non vi pare? Ma il 21 aprile il magistrato
di sorveglianza gli ha concesso tre mesi di sconto per buona condotta,
e il Ruggiu è diventato ufficialmente libero, scomparendo
nell'anonimato. Invano il Tribunale internazionale ha chiesto ragione
di questa decisione alle istituzioni italiane. I nostri tribunali,
comportandosi come se Ruggiu fosse stato non un criminale condannato da
un tribunale internazionale per reati terribili, ma un comune ladro di
polli, lo hanno rimesso in libertà anticipata. Ciò che conta in questo
paese è la buona condotta! Chi potrà ancora credere alle firme che le
istituzioni italiane appongono sui trattati internazionali, quando li
violano poi tranquillamente? Chi potrà ancora pensare che all'Italia, e
agli italiani, interessi qualcosa dei genocidi e dei diritti umani? |
Anna Foa,
storica |
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Verità e giustizia per gli ebrei del Mediterraneo Magiar: "E' ora di raccontare questo dramma"
Per
una giornata il dramma degli ebrei profughi dai paesi arabi ha
ritrovato voce e racconto. Per un giorno questa vicenda ormai secolare,
che ha visto l'espulsione di oltre un milione di persone dal Marocco,
dall'Egitto, dall'Algeria, dalla Tunisia, dalla Libia e da tanti altri
luoghi ancora, è tornata all'attenzione collettiva. Grazie alle
iniziative promosse a Roma da Justice for jewish from arab countries
(Jjac), realtà internazionale di cui l'UCEI è parte, se n'è parlato
alla commissione Affari esteri della Camera, in un incontro con i
principali media e in un evento aperto alla cittadinanza al Palazzo
della cultura. Ma il percorso non si esaurisce qui perché
l'obiettivo è ben più ambizioso di una generica sensibilizzazione
dell'opinione pubblica. “Vogliamo che la storia degli ebrei profughi
dai paesi arabi sia raccontata nella sua interezza e che su questa
vicenda si possano finalmente ristabilire verità e giustizia”, dice
infatti Victor Magiar (nell'immagine), consigliere UCEI, egli stesso
protagonista, bambino, di una drammatica fuga dalla Libia narrata pochi
anni fa nel romanzo E venne la notte
(Giuntina). Punto di partenza di questo nuovo inizio, un documento
programmatico che ha visto la luce proprio nell'incontro romano.
Victor, quali sono le possibili prospettive d'azione? Il
documento, su cui vi è stato consenso unanime, ci impegna a porre il
tema degli ebrei profughi dai paesi arabi all'opinione pubblica
internazionale affinché sia considerata con la dovuta attenzione nelle
trattative di pace per il Medioriente. L'accostamento con la questione palestinese è quasi scontato, anche se si tratta di vicende storiche molto diverse. Il
paragone con i palestinesi scatta immediato. E ce ne siamo resi conto
anche nell'incontro con la commissione Affari esteri della Camera. La
relazione però non è simmetrica e questo va spiegato. I palestinesi
sono profughi perché vittime di un conflitto bellico. Gli ebrei furono
invece costretti a lasciare i paesi arabi ben prima della nascita dello
Stato d'Israele e della guerra. I primi pogrom nel nord Africa
avvengono infatti tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Qual'è dunque il rapporto con il mondo palestinese? Non
vi è alcun rapporto conflittuale. Vogliamo solo che la storia degli
ebrei dei paesi arabi ritrovi la sua verità e abbia il giusto peso
nelle trattative internazionali. Un aspetto che ha trovato grande attenzione in questi giorni riguarda i beni culturali. Nei
paesi arabi la presenza ebraica è plurimillenaria. Vi sono dunque
cimiteri, sinagoghe, musei e edifici dal valore storico e affettivo
incommensurabile. Uno dei nostri obiettivi è riuscire a tutelare questo
straordinario patrimonio attraverso una serie d'accordi con i singoli
governi. Un compito non facile. Assolutamente
no. Anche perché la questione si pone in modo molto diverso da paese a
paese, anche in relazione alla maggiore o minore persistenza della
popolazione ebraica. La fuga
degli ebrei dai paesi arabi ha riguardato oltre un milione e mezzo di
persone. Eppure, malgrado la sua entità, questa vicenda è ancora poco
conosciuta. Per quali motivi? E' una storia finora
raccontata da pochi per molteplici motivi. Il nostro esodo ha raggiunto
il culmine alla fine degli anni Quaranta, quando il mondo andava
prendendo coscienza della Shoah. Davanti a quell'immensa tragedia la
nostra sembrava una storia minore. Un altro aspetto riguarda il nostro
atteggiamento. Fuggendo dai paesi arabi siamo infatti andati verso la
libertà, verso l'Europa o Israele. E qui, pur conservando la memoria
del passato, abbiamo guardato al futuro costruendoci una nuova vita.
Sotto quest'aspetto il nostro essere profughi è stato profondamente
diverso dall'esperienza palestinese. L'aver relegato in secondo piano
la storia dei profughi ebrei dal mondo arabo dipende infine dal fatto
che l'elaborazione di questa perdita così dolorosa ha richiesto un suo
tempo storico. E’ un dolore ormai pacificato? Fino
a un certo punto. Noi ebrei abbiamo abitato per secoli in Libia, in
Algeria, in Marocco e in altri paesi in città cosmopolite in cui le
lingue, le religioni, le culture e le usanze si mescolavano in armonia
e con grande apertura mentale. A Tripoli nella mia classe c'erano bimbi
arabi, italiani, francesi, inglesi, greci, jugoslavi … Era un mondo
plurale oggi scomparso, distrutto per sempre dal nazionalismo arabo,
dal panarabismo e dal panislamismo. E questo ancor oggi continua a
farci soffrire fin nel profondo.
Daniela Gross |
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pilpul |
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Fumetto - Batman compie 70 anni, ma dietro il pipistrello c'è il Golem
Gotham
City. È notte, una serata tranquilla, non si muova una foglia. Un
giovane studente della DeWitt Clinton High School percorre la strada
verso casa. Sono solo due isolati. Ma la strada è poco illuminata e
negli ultimi mesi le rapine sono aumentate. Moise ha paura. Mantiene un
passo veloce, poi senza che se ne possa accorgere è sbattuto dentro una
strada chiusa. Due balordi gli puntano un coltello. La strada è buia.
Credono che sia ricco, non hanno capito che è solo uno studente. Gli
urlano addosso offese, gli puntano il coltello alla gola. Poi
un soffio di vento. Improvviso. I due balordi si fermano, per un
istante. Niente. Riprendono le loro minacce che si fanno sempre più
concrete. La lama è sulla giugulare. Quando...un altro rumore, sordo,
secco, forte. I due uomini si gelano. Dietro di loro sentono un’ombra
che si avvicina. Moise non può credere ai suoi occhi, il leggendario
Golem è forse arrivato negli USA? E forse lì a New York per salvarlo? I
due uomini hanno sentito la voce di un Essere grande, forte,
spaventosamente forte. L'ombra è sopra di loro. Sono paralizzati dalla
paura. Moise sorride ora, spavaldo. Ma poi anche lui si gela. Non
sembra un golem l’Essere che sovrasta tutti, come un gigante
invincibile. Sembra un mostro, un pipistrello, forse un vampiro. No. No. L’essere
vestito di nero, con una maschera da pipistrello, afferra i due balordi
che si giocano l’ultimo alito di energia cercando di scappare. E' un
istante. Poi niente. Sono a terra legati. L’essere guarda Moise poi via su per i tetti. Il Golem è tornato,ma ha un vestito da pipistrello, è Batman.
Non
sapremo mai se questo era un pensiero degli autori di uno dei
personaggi più longevi del fumetto statunitense. Però era nei ricordi e
nelle storie raccontate ai bambini di un Essere di terra, e il più
famoso è quello creato dal rabbino Judah Loew ben Bezalel a Praga, per
difendere gli innocenti dagli antisemiti. E Batman sembra proprio
raccogliere le caratteristiche del mitico Essere di Praga. Creato
da Bob Kane, vero cognome Khan, e Bill Finger, due ragazzi ebrei del
Bronx, esordì nel numero 27 della rivista Detective Comics nel 1939 e
proprio quest’anno si festeggia il settantesimo anniversario. In Italia
sarà l’editore Cino De Luca a pubblicarlo fino alle più recenti
edizioni della De Agostini-Planeta, braccio fumettistico e spagnolo
della multinazionale italiana De Agostini. Batman è in realtà
Bruce Wayne, giovane miliardario orfano dei genitori uccisi da una
delle nemesi più riuscite della serie, il Jocker. Il nostro
pipistrello è sempre stato studiato tradizionalmente secondo alcuni
schemi che fanno risalire l’origine dei supereroi dalle riviste pulp
degli anni Trenta e da un serie di eroi come The Shadow, noto alla
radio per la sua risata che intimidiva i criminali e soprattutto per la
voce di Orson Welles. Lo stesso Kane cambiò a diciotto anni il suo
cognome e per quasi tutta la vita negò le sue origini ebraiche. Sia
Kane che Finger hanno frequentato la stessa scuola, DeWitt Clinton High
School, insieme a un altro signore, Stan Lee, creatore dell’interno
universo della Marvel. Difficile dire se in quella scuola ci fosse
un portale aperto verso il mondo della fantasia e della creatività, di
cosa fantasticassero quei ragazzi ebrei, provenienti da tutto il mondo
che si incontravano lì a studiare.
Esistono
però diverse somiglianze ed elementi in comune tra il mitico Golem e
Batman, tanto da far pensare che gli echi di antiche leggende e storie
raccontate in famiglia abbiano avuto l’effetto di stimolare i due
autori. Entrambi hanno famiglie incompiute, il Golem è una creazione di
un rabbino, Bruce è cresciuto dal maggiordomo; entrambi combattono
preferibilmente di notte; entrambi difendono gli innocenti, entrambi
cercano la “pace”, cercano di colmare l’ingiustizia del mondo. E per
contrasto se il Golem non pecca per intelligenza, Batman è uno degli
uomini più intelligenti della Terra. Kane nella sua biografia
racconta che “le strade erano un melting pot composto da differenti
gruppi etnici e spesso ogni nazionalità era l’una contro l’altra. Per
sopravvivere, se uno era solitario come me, doveva aderire a una banda
del quartiere”. Forse è una forzatura e forse la storia di Batman
risiede veramente nella mitica voce di Orson Welles, ma nell’inconscio
più profondo, dove risiedono le nostre paure più ancestrali, alberga
anche il nostro ancestrale ricordo di salvezza e non è detto che Bob
Kane e Bill Finger, che avevano sentito quelle storie di Golem, di
Sansone e di Mosè in Sinagoga come in famiglia, abbiano soddisfatto
involontariamente quel desiderio di giustizia e di salvezza frustrato
da una vita di quartiere molto competitiva.
Andrea Grilli |
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Non
si spengono gli echi dall’Iran. Per un quadro d’insieme della
situazione, dopo una settimana di ripetute tensioni e continui tumulti,
rimandiamo all’articolo di Roberto Caro su l’Espresso.
Plausibile che il regime riesca a porre la mordacchia, sul lungo
periodo, alle manifestazioni dell’opposizione, piuttosto divisa al suo
interno e soprattutto priva di un leader capace per davvero di
condizionare le scelte del paese orientandolo, se non da subito almeno
nei tempi a venire, verso un esito politico diverso da quello che si è
misurato con le elezioni di venerdì scorso. Sulle ultime evoluzioni
della scena ci informano peraltro Davide Frattini per il Corriere della Sera, Fabio Morabito per il Messaggero, Francesco De Leo su il Riformista, Alberto Negri per il Sole 24 Ore, Giordano Stabile su La Stampa, Gabriel Bertinetto per l’Unità.
Quel che si va riscontrando in questi giorni, tra le altre cose, è una
spaccatura profonda e intensa tra due realtà sociali compresenti
nell’Iran contemporaneo. Da una parte i sostenitori del pallido e
anemico fronte riformista, identificatisi con la figura di Mir
Moussavi, uomo non privo di coni d’ombra e di contraddittorietà, così
come lo descrive Francesco Ruggeri su Libero, e con sua moglie, Zara Rahnavard, di cui ne dà un intenso e forte ritratto Giulio Meotti su Il Foglio.
Al basso tenore del loro candidato, dietro il quale si cela la figura
dell’ayatollah Rafsanjani, fa da contorno la vivacità di quanti,
soprattutto nelle classi medie urbane, partendo da quella megalopoli
che è Teheran, hanno voluto manifestare attraverso le elezioni
l’indisponibilità a celebrare silenziosamente il binomio tra
nazionalismo e pauperismo, un legame sul quale il populista Ahmadinejad
ha costruito le sue fortune. Dall’altra parte si collocano i
sostenitori di quest’ultimo, che incarna invece l’idea di un Iran come
«nazione musulmana in rivoluzione permanente». Il suo carisma, infatti,
si alimenta dell’aura di rappresentante degli strati esclusi dalla
ripartizione della ricchezza prodotta, che nel paese sono molti.
Affinché le sue fortune non declinino ha quindi bisogno che il
malcontento di quella parte della popolazione che si sente
ingiustamente messa alla porta dal banchetto dei potenti del regime
trovi un suo saldo ancoraggio e una non meno robusta rappresentanza
nella sua figura. Tutta la sua campagna elettorale è stata quindi
giocata su un doppio registro, vellicando le aspirazioni
ipernazionaliste, spacciate come imprescindibile passaggio di un più
ampio progetto di reislamizzazione del Medio Oriente sotto l’egida
sciita, e la critica ai poteri «corrotti», che sarebbero parte stessa
di un paese che deve ancora essere «purificato» al suo interno per
raggiungere lo status internazionale che si meriterebbe. La retorica
della «grande nazione ferita», dei «sacrosanti diritti mutilati», della
«minaccia» interna ed esterna sono consustanziali alla politica del
discusso vincitore delle elezioni di venerdì poiché gli danno un
orizzonte di significati senza il quale non avrebbe spazio di manovra
alcuno. Non di meno, la costante mobilitazione degli spiriti è
funzionale - per il calimero di Teheran, così come per la « guida della
Rivoluzione» Ali Khamenei, vero baricentro dei complessi equilibri
iraniani - ad impedire che si cristallizzi un nuovo blocco di interessi
in grado di contrapporsi attivamente a quelli rappresentati da questi
ultimi, garanti del vastissimo sistema di poteri paramilitare che ruota
intorno ai basiji e ai pasdaran, tutte «guardie della rivoluzione».
Tali sono i termini, tra gli altri, nei quali Carlo Panella, su il Foglio,
ci aiuta a capire il magmatico scenario iraniano. Elemento
condizionante rispetto al futuro è la tenuta del clero sciita,
anch’esso assai più eterogeneo al suo interno di quanto non possa
sembrare al nostro sguardo, piuttosto disattento, proclivi come siamo a
pensare all’Iran contemporaneo come a un tutt’uno. Sono queste, in
fondo, anche le impressioni di Alberto Negri su Il Sole 24 Ore nel mentre titola sulla «faida di Teheran tra ex rivoluzionari», così come del Messaggero,
quando ci dice che «l’ago della bilancia saranno i mullah della città
di Qom», il cui schierarsi con Khamenei o con Rafsanjani contribuirà a
fare la differenza rispetto al’impatto delle proteste in corso. Sullo
sfondo di questa lotta di potere nella quale gli elettori iraniani
hanno recitato una parte importante ma non unica né univoca, e quindi
neanche definitiva, c’è lo scenario internazionale, messo in movimento
da Barack Obama, con il suo discorso cairota di due settimane fa al
quale demanda Lucio Caracciolo su La Repubblica.
Peraltro, non ci si stancherà mai di ripetere che il vero problema
della società iraniana è la crescente marginalità economica, di fronte
ad una parte della popolazione che rivendica il diritto ad un pieno
ingresso nella modernità, occhieggiando in qualche modo alle
esperienze della transizione nei regimi dell’ex blocco sovietico
e, forse, anche a qualcosa di più, quanto meno nel caso del voto
giovanile acculturato, espressosi nelle aree urbane. La persistenza di
una oligarchia clericale, saldatasi economicamente, nella
rappresentanza dei suoi giganteschi interessi economici, alle forze più
regressive costituite dalle diffusissime milizie paramilitari, è il
nocciolo di una struttura di potere che ha ingenerato, in questi ultimi
tre decenni, a fare dalla «rivoluzione islamica» del 1979, un vero e
proprio «regime reazionario di massa», così come altri definirono il
fascismo in Italia. Ciò ci pone dinanzi al problema, in sé
inderogabile, dell’analisi del sistema di costruzione del consenso
intorno ai vincitori di queste ultime elezioni presidenziali. Si può
discutere quanto si vuole di brogli o di vittoria più o meno carpita ma
rimane il fatto che, comunque la si voglia quantificare, Mahomud
Ahmadinejad può contare su una solida base di assensi. Quel modo di
fare che a noi risulta intollerabile nella sua spavalda tracotanza,
nella sua irritante offensività, sospeso com’è tra iperbolico dileggio
e compiaciuto paternalismo, è il nocciolo medesimo della capacità
seduttiva del leader populista dinanzi alla sua base elettorale.
Bisogna prenderne atto, non per deflettere dalla lotta politica contro
ciò che rappresenta, ma piuttosto per darle maggiore incisività.
Tuttavia, si sappia che quel che Ahmadinejad costituisce non è un
fermento passeggero ma un dato strutturale nel Medio Oriente
contemporaneo, sospeso tra fragili speranze di innovazione e concrete
spinte di regressione. Su un altro scenario mediorientale, quello del
rapporto tra israeliani e americani, l’Avvenire
commenta che Avigdor Lieberman avrebbe dato uno «schiaffo»
all’amministrazione statunitense ribadendo la necessità della «naturale
crescita» degli insediamenti colonici. Una cronaca a tutto campo, al
riguardo, è quella offertaci da Umberto De Giovannangeli per l’Unità.
Al di là dei singoli episodi di attrito, è oramai evidente che tra
Washington e Gerusalemme si è aperta una nuova stagione politica,
basata su una alleanza competitiva. Cosa ciò possa comportare anche per
altri attori regionali, come l’Unione Europea, inevitabilmente chiamati
in causa negli scenari in divenire, è oggetto delle riflessioni di
Franco Venturini sul Corriere della Sera,
laddove raccoglie le indicazioni del nostro Ministro agli esteri
Frattini su un possibile, ancorché futuribile, contributo alla
sicurezza attraverso una missione di pace destinata a presidiare e a
tutelare i confini tra Israele e l’ipotetico stato palestinese, così
come tratteggiato da Benjamin Netanyahu nel discorso all’Università Bar
Ilan di domenica scorsa. A conclusione della rassegna di oggi, infine,
l’articolo di Stefan Wagstyl per il Financial Times,
sulla minacciosa ascesa della destra radicale e xenofoba, nell’Europa
orientale, e in particolare in Ungheria, dove essa ha vinto l’ultima
tornata elettorale, quella per le europee. A rischio è la tenuta civile
di un Paese in cui le spinte razziste sono il segno di un processo di
grave involuzione, non solo culturale, laddove si ha a che fare con una
società che non solo non riesce a integrarsi nell’Unione ma rischia di
disintegrarsi socialmente. Claudio Vercelli |
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notizieflash |
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Gilad
Shalit, qualcosa si muove,
l’Egitto preme su Hamas per la liberazione Tel Aviv, 19 giu - Ghilad
Shalit, le trattative sembrano rimettersi gradualmente in moto, è la
prima volta dall’arrivo di Benyamin Netanyahu (aprile 2009). L’Egitto
sta esercitando pressioni su Hamas affinché ammorbidisca le proprie
posizioni in vista di uno scambio di detenuti con Israele che includa
la liberazione del soldato israeliano Shalit. A diffondere la notizia
il sito web Yediot Ahronot. L’Egitto spinge affinché Hamas modifichi la
lista degli oltre mille detenuti palestinesi di cui esige la
liberazione. Hamas, scrive Yediot Ahronot, potrebbe forse accettare di
rivederla nella speranza di ottenere due altri successi: un
riconoscimento internazionale e un sensibile allentamento del blocco
imposto alla striscia di Gaza. Fonti palestinesi hanno detto a Yediot
Ahronot che il recente discorso al mondo arabo pronunciato dal
presidente Barack Obama e la visita a Gaza dell'ex presidente Usa Jimmy
Carter potrebbero dare slancio a una corrente 'pragmatica' in seno a
Hamas.
Germania: ergastolo per il “boia di Falzano”, ex tenente della Wermacht Berlino, 18 giu - La
Procura di Monaco di Baviera ha chiesto oggi l'ergastolo per il “boia
di Falzano” Josef Eduard Scheungraber, l'ex tenente della Wermacht,
oggi novantenne, sospettato di avere ordinato la strage di Falzano di
Cortona (Arezzo) il 27 giugno del 1944, potrebbe trascorrere il resto
dei suoi giorni in un carcere tedesco. Il caso di Scheungraber si
affianca a quello di un altro anziano presunto ex nazista, John
Demjanjuk, 89 anni, ribattezzato il 'Boia di Sobibor' e sospettato di
avere contribuito allo sterminio di 29 mila ebrei nel campo di
concentramento dell'allora Polonia occupata. Anche Demjanjuk, estradato
in Germania dagli Usa lo scorso 12 maggio, verrà giudicato dal
tribunale di Monaco di Baviera. Oggi Scheungraber era in aula, ma non
ha parlato. Per lui, lo farà il suo avvocato mercoledì prossimo, giorno
in cui il processo - cominciato lo scorso settembre - riprenderà con
gli interventi della difesa. Il verdetto è atteso per il tre luglio.
L’ottantenne Silvano R., una delle poche persone ancora vive che
potrebbero aiutare la giuria a formulare un verdetto, era stata sentita
in collegamento video da Falzano di Cortona. Secondo l'accusa,
Scheungraber avrebbe ordinato la strage per rappresaglia contro un
agguato teso dai partigiani alle truppe del Terzo Reich, che era
costato la vita a due soldati. "E' stata una grande disgrazia", aveva
detto il testimone, spiegando di avere visto come "una intera truppa di
soldati tedeschi" avrebbe raggruppato alcuni abitanti del villaggio con
ordini come "tu qui e tu qui, voi venite". Undici persone, aveva poi
ricordato Silvano R. - che all'epoca aveva 16 anni - sarebbero state
uccise in una casa di campagna, che poi sarebbe stata fatta saltare in
aria con la dinamite. "Io ero molto vicino, ho sentito un grande
botto", aveva detto, aggiungendo che i soldati avrebbero ucciso altre
tre persone e avrebbero dato alle fiamme numerose case, inclusa quella
di suo padre. Scheungraber, che vive a Ottebrunn, in Baviera, è stato
condannato all'ergastolo nel 2006 da un tribunale militare a La Spezia
per la strage costata la vita a 14 civili italiani. Il tribunale
tedesco ha avviato il processo contro l'ex ufficiale nazista il 15
settembre del 2008, proprio sulla base dei documenti del processo
italiano. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
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offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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