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L'Unione informa |
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24 giugno 2009 - 2 Tamuz 5769 |
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alef/tav |
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Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano |
La
parashà di Shelàch Lekhà racconta la storia degli esploratori che,
mandati da Moshè a esplorare la terra d'Israele, tornarono dal loro
viaggio dicendo che quella terra è impossibile da conquistare perché è
la terra che divorava i suoi abitanti. Gli esploratori riescono a
spaventare il popolo ebraico che decide di non entrare in terra
d'Israele e si propone addirittura di tornare in Egitto. La conseguenza
di questa decisione fu che il popolo ebraico rimase quarant'anni nel
deserto e la generazione non realizzò l'obbiettivo di entrare in terra
d'Israele. Questa storia rappresenta la più grave delle occasioni
perdute del popolo ebraico. Questa occasione perduta è indubbiamente
una tragedia. Gli adulti, usciti dall'Egitto moriranno nel deserto. Ma
i quarant'anni non sono solo una tragedia bensì un nuovo inizio che
preparerà la generazione successiva a realizzare l'obbiettivo per cui
si era usciti dall'Egitto. Anche la capacità di partire da una tragedia
per un nuovo inizio è una delle caratteristiche peculiari del popolo
ebraico. La tragedia lascia il segno e le ferite non necessariamente si
rimarginano ma non c'è mai solo la fine ma anche l'inizio di una nuova
storia. |
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Gli
ebrei di Iquitos vivono nella giungla del Perù, discendono da un pugno
di mercanti sefarditi che nel Seicento si insediarono in questo remoto
angolo dell'Amazzonia e negli ultimi anni hanno riscoperto le loro
radici costruendo una sinagoga e convertendosi, grazie all'opera
infaticabile e volontaria di Reategui Levy, un ispettore della
compagnia petrolifera peruviana che li ha incontrati per caso. Sono
diverse centinaia. Ora andranno tutti in Israele. |
Maurizio Molinari,
giornalista |
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La sicurezza di Israele e la minaccia iraniana al centro del viaggio di Netanyahu in Italia Si
è conclusa la visita lampo in Italia del premier israeliano Benjamin
Netanyahu che ha lasciato la capitale alla volta di Parigi.
Poco prima di lasciare l'Italia Netanyahu era stato ricevuto
al Quirinale dal Presidente Giorgio Napolitano. Ieri pomeriggio il capo
del governo israeliano era stato ricevuto dal premier
Silvio Berlusconi e, dopo una
cerimonia all'Arco di Tito con esponenti della Comunità
ebraica fra cui il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane, Renzo Gattegna, il Presidente della Comunità Ebraica di Roma,
Riccardo Pacifici, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, la
vicepresidente Ucei Claudia De Benedetti e il Consigiere Ucei Sandro Di
Castro, oltre al copresidente del Keren Kayemet le-Israel Rafy Sassun,
accompagnati dal Ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi e dal suo
consigliere Alain Elkan, è stato ricevuto a Montecitorio per una cena
ufficiale nella quale il Presidente della Camera Gianfranco Fini ha
dichiarato: "La pace in Medio Oriente si conquista unicamente se si
garantisce la sicurezza dello Stato d'Israele". "Oggi più che mai - ha
spiegato Fini - la questione della sicurezza di Israele non riguarda
solo quel Paese ma tutto l'Occidente e noi italiani: è minacciata da
nemici tradizionali che assumono forme sempre più pericolose, è
minacciata dal regime teocratico dell'Iran che oggi mostra il suo volto
anche attraverso la brutale repressione che colpisce il suo popolo e,
alla luce di questo, tutti dobbiamo preoccuparci di cosa potrebbe
accadere se dovesse dotarsi di un'arma nucleare". "Personalmente - ha
aggiunto Fini - ritengo che queste non siano precondizioni ma oneste
fotografie della realtà: Israele ha una precisa natura e riconoscere il
diritto di Israele ad esistere significa riconoscere quella identità,
cioé di nazione del popolo ebraico. Non può essere pensato in modo
diverso".
. Tutti in verde a Trieste
A cosa serve la politica in Italia? Le strade d'Europa si sono riempite
per esprimere solidarietà all'opposizione iraniana che contesta lo
scandalo di elezioni truccate da un regime oppressivo, mentre le strade
italiane sono rimaste vuote (eccezion fatta per le due nobili
iniziative promosse dal Pd romano e da Il Riformista e Radio Radicale
che hanno registrato un'affluenza assai scarsa). Non è certo una
questione di numeri, comunque sempre indicativi: in discussione è
invece il valore o la concezione stessa della politica . Sia il
centrodestra che il centrosinistra si dichiarano da anni paladini dei
più alti e nobili valori democratici, difensori della libertà (o delle
libertà) e, ovviamente, dei diritti umani. Eppure, ogni qualvolta la
politica estera ci impone di prendere posizione su delicate questioni
che riguardano regimi illiberali con cui, ahinoi, l'Italia ha proficui
rapporti economici, i nostri rappresentanti in parlamento (al governo o
all'opposizione poco conta) ricorrono alla più fervida creatività per
riuscire a non urtare il despota di turno. Non abbiamo ancora superato
lo shock della visita del Re dei Re d'Africa e, peggio, lo shock del
pellegrinaggio alla sua tenda, che dobbiamo già registrare un nuovo
caso imbarazzante. Loro, i nostri rappresentanti in parlamento, la
chiamano realpolitik, ma sbagliano: la realpolitik è un approccio
realistico, pragmatico e non ideologico, atto ad evitare il conflitto
aperto e a trovare strade nuove per risolvere spinose questioni
internazionali. La prima regola di questa arte diplomatica è sempre
stata quella di conservare le proprie credibilità e dignità nel
dialogare con interlocutori imbarazzanti, per generare, anche nel
compromesso, dei reali miglioramenti nelle relazioni internazionali.
Oggi non è in atto la ricerca di nessuna nuova strada né, tantomeno, il
tentativo di migliorare le condizioni sul terreno. La strada che
percorriamo è sempre la stessa: quella dei commessi viaggiatori, dei
piazzisti in cerca di incrementare o conservare la propria clientela,
consapevoli che la democrazia, se non la si può esportare, la si potrà
almeno barattare nel grande bazar della diplomazia internazionale.
Certo l'Occidente sta ricalibrando le sue misure: lo stesso Obama che
in un primo momento, per non delegittimare e danneggiare i manifestanti
di Teheran, aveva prudentemente considerato uguali Ahmadinejad e
Mousavi, ha già corretto la linea chiedendo di fermare la
«repressione». Anche il nostro ministro degli esteri sta cercando una
via d'uscita sull'affaire dell'invito all'Iran per il G8 di
Trieste:invece di ritirarlo lo lascia decadere . Ma l'imbarazzo non
riguarda tanto le scelte del governo (condizionato dalle dinamiche
delle diplomazie degli altri stati) quanto l'ambiguità dei partiti
italiani: espongono i valori della democrazia come vecchi souvenir,
utili da brandire durante le nostre elezioni (contro il regime
berlusconiano o contro i comunisti) e poi sorvolando su Darfur, Tibet,
Iran, Corea... Le mobilitazioni arrivano solo se utili a ferire la
parte politica avversa. A cosa serve la politica in Italia? La nostra
politica è capace di usare qualsiasi cosa quando è in discussione la
lotta per il potere, ma è incapace di disegnare idee o di programmare
azioni che servano a realizzare una società (o un mondo) migliore.
Giovedì prossimo, a Trieste, l'Iran dovrebbe partecipare al G8 e la
diplomazia internazionale potrebbe cogliere l'occasione per fare
pressioni su Teheran: ma anche ritirare l'invito all'Iran sarebbe una
buona forma di pressione. Ma almeno i partiti, quelli che si
considerano democratici, potrebbero promuovere proprio a Trieste una
manifestazione contro la repressione in atto in Iran: sarebbe un segno
forte rivolto ad Ahmadinejad e soci, e sarebbe anche un buon segno per
la nostra stanca politica.
Victor Magiar, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (tratto da Europa - 23 giugno 2009)
Il pesciolino e lo squalo, la favola di Shalit fra fantasia e premonizione
Una
favola, una favola come tante, racconta di uno squalo che sta per
mangiare un pesciolino. Ma i due iniziano a giocare a nascondino e
diventano amici. La mamma-squalo è contraria a questa amicizia e dice a
suo figlio: "Il pesce è un animale che mangiamo. Non giocare con lui". Anche
la mamma pesce non vuole che suo figlio giochi con lo squalo "Lo squalo
è l'animale che ha divorato tuo padre e tuo fratello, non giocare con
lui", gli dice. Dopo essersi evitati per un anno, i due si rincontrano.
Lo squalo dice al pesce: "Sei un nemico, ma possiamo fare la pace?". Il
pesce felice di aver rivisto il suo compagno di giochi è
d'accordo e i due annunciano la rinata amicizia alle madri. "Da quel
giorno - scriveva Shalit - lo squalo e il pesce hanno vissuto in pace”.
Sarebbe bello se le cose fossero andate così, ma lo squalo che
Gilad ha incontrato il 25 giugno 2006 e che da tre anni lo tiene
prigioniero, non è uno lo squalo della storia e non ha voglia di
giocare.
Gilad
Shalit (nell'immagine a fianco) è il soldato ventiduenne dell'esercito
israeliano rapito da un commando di guerriglieri palestinesi di Hamas
che hanno condotto un attacco contro un avamposto militare in
territorio israeliano tre anni fa, da allora non si hanno notizie certe
su di lui, tutti i tentativi di mediazione hanno dato esito negativo e
alla Croce rossa internazionale non è stato consentito di visitarlo. Quando il pesciolino e lo squalo s’incontrarono per la prima volta
la favola che Gilad Shalit scrisse nel 1997, quando era in quinta
elementare, è una storia piena di speranza che un'insegnante del
soldato rapito ha trovato mentre faceva le pulizie di Pesach e l'ha
fatta avere alla famiglia che a sua volta ne ha curato la pubblicazione
attraverso Free Gilad, l'associazione fondata da Noam Shalit (il padre di Gilad). Lo
scorso anno la casa editrice La Giuntina in occasione della Fiera del
libro di Torino ha tradotto e pubblicato la favola in italiano.
Tutti i profitti ricavati dalla vendita del libro vengono devoluti
all’Associazione Keren Maor, che coordina la campagna internazionale
volta a ottenere la liberazione di Gilad e a mantenere alta
l'attenzione dei media. All’iniziativa partecipa anche
l’associazione degli illustratori israeliani, con un corredo di disegni
originali di mano di trenta diversi artisti. Ciascuno ha interpretato
l’incontro fra pesce e squalo secondo il proprio stile, dando vita ad
una galleria di immagini per i lettori più giovani. Il libro non
è acquistabile in libreria ma solo sul sito della casa editrice. La
favola di Gilad è stata anche oggetto di un lavoro di gruppo che una
scuola di Pistoia, seguendo l'esempio di una scuola americana, ha
ripreso e diffuso attraverso Youtube (a fianco uno dei disegni realizzati dai ragazzi che compaiono sul filmato) . Anche
un'altra scuola, l'Esopo di Roma, a seguito di un incontro svoltosi in
occasione del sessantunesimo anniversario della fondazione dello stato
di Israele cui hanno partecipato il Presidente della Provincia Nicola
Zingaretti e il Presidente della Comunità Ebraica della capitale
Riccardo Pacifici ha promosso delle iniziative a sostegno della
liberazione di Gilad Shalit: “Sarebbe molto bello se decideste di
inviare una lettera ai governi di Israele e Palestina per chiedere la
liberazione di Shalit. - ha suggerito Pacifici durante l'incontro
- Voi potreste essere la prima scuola di Roma e d’ Italia che fa
una cosa del genere”. La proposta di Pacifici è stata prontamente
raccolta dagli alunni e dagli insegnanti della Scuola che ha deciso di
dedicare l'ultimo mese di scuola a questo progetto. Le lettere dei
ragazzi insieme a quelle di sostegno alla famiglia del soldato rapito,
sono state esposte in una sala di Palazzo Valentini, sede della
Provincia di Roma. Sarebbe molto bello se le lettere e i lavori
che i ragazzi hanno svolto per spronare la liberazione di Gilad
aprissero una breccia nel cuore dello squalo che non ha avuto voglia di
giocare con il pesciolino e che lo tiene in ostaggio da tre anni.
Lucilla Efrati
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Noterelle - Stolti paragoni
Qualche settimana fa giocando con il telecomando mi è capitato di
vedere la stella gialla cucita sul vestito di Emma Bonino, mentre
Monica Guerritore, con solennità grave, stava recitando, pensai, un
brano del diario di Anna Frank . Invece erano passi delle lettere sul
“ciarpame” di Veronica Lario. Quando i politici o i giornalisti
televisivi si servono della storia, stupisce sempre la loro assenza di
umiltà. “Ho parlato da stolto (Insipienter locutus sum)”, insegna Pier
Vincenzo Mengaldo, un grande italianista, che si è saggiamente
appoggiato a Giobbe (42, 3) prima di affrontare il tema dello
sterminio: “Sono cose troppo alte e non le capisco” (et quae ultra
modum excederent scientiam meam).
Sia
chiaro. L’uso del giallo come colore dell’afflizione non l’hanno
inventato Pannella o la Bonino. Ne siamo afflitti dall’inizio degli
anni Novanta. Se ne era servito, in modo più soft, chi a suo tempo
aveva manifestato per difendere l’innocenza di Adriano Sofri. Stesso
discorso va fatto per le comparazioni riguardanti le leggi razziste.
Era già “razziale” la Bossi-Fini. I paragoni storici sono sempre
rischiosi, soprattutto quando a servirsene sono i politici o gli
storici politicizzati. Raccogliendo i suoi ricordi sulla scuola
italiana, Carlo Dionisotti non nascondeva il timore che quelle sue
pagine risentissero dei “crucci provocati dagli eventi”. Sia fra chi
sostiene che siamo ormai in pieno 1938, sia in chi lo nega, ben altri,
temo, siano i crucci.
Non da oggi, gli ebrei sono
considerati, in Italia più che altrove, il termometro delle sofferenze
umane. Ricordo che a suo tempo il governo Prodi, insieme a giudici e
militari, volle una presenza ebraica nella commissione che avrebbe
dovuto giudicare le efferatezze dei nostri soldati in missione in
Somalia. E’ l’idea di ebraismo dolente, che andrebbe capovolta,
soprattutto quando si affrontano i problemi dell’immigrazione. Possiamo
essere un esempio da imitare, non solo da compiangere. La storia degli
ebrei italiani e la storia dell’emigrazione clandestina hanno un
denominatore comune, che non è il Manifesto della razza, ma il modo
attraverso cui gli ebrei, nel corso dei secoli hanno cessato di essere
“clandestini”, “stranieri” e sono diventati cittadini. Proprio la
Padania ebraica è il luogo che dovrebbe insegnare come sia tortuosa, ma
attuabile l’integrazione. Mezzo millennio circa di coabitazione, in
Piemonte, senza respingimenti.
Alberto Cavaglion
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La
visita del premier israeliano Netanyahu in Italia sullo sfondo (in
realtà il contesto emergente) della ancora magmatica situazione
iraniana: questo in poche parole lo scenario sul quale soffermare oggi
il nostro sguardo e la nostra riflessione. Dell’incontro Bibi-Papi,
come qualcuno ha già irriverentemente definito il vertice di ieri a
Palazzo Chigi, si potrebbe in realtà cercare sui giornali di stamane
una linea interpretativa tutta in chiave di politica italiana (o di
“politica all’italiana”): Berlusconi che coglie l’occasione offertagli
dall’agenda diplomatica per sollevarsi dalla suburra politica a
base di festini e di escort, e riprendere un ruolo istituzionale nella
politica alta parlando di alleanze, di paese amico, di Iran, di
trattative di pace. Ecco quindi i giornali più vicini alla maggioranza (Il Giornale, Il Foglio, Il Messaggero, Il Tempo)
sottolineare il significato strategico dell’incontro, tratteggiare –
fuori dalle “calunnie” di questi giorni – la bella improbabile immagine
di Silvio come raffinato politico internazionale, rimarcare la stima
che ha per lui Netanyahu quando lo definisce “campione di pace”. Ecco,
dall’altra parte, i quotidiani più critici verso il nostro governo
descrivere ironicamente questo impiego tutto in un’ottica interna degli
affari di Stato, pronti però anch’essi a fare un uso di parte della
politica mondiale (vedasi specialmente Umberto De Giovannangeli sull’Unità e Sandra Volandri su Liberazione, ma anche – tra le righe – Maurizio Caprara sul Corriere della Sera). Bassezze della nostra politica attuale, costretta a dipanarsi in mezzo a un pantano di scorie d’altro genere. Per
fortuna che, al di là dell’immagine odierna di Berlusconi, si parla
anche e soprattutto dei contenuti reali dell’incontro romano tra i due
leaders. Preoccupazione per l’Iran e per la sua corsa all’atomica,
solidarietà con le sue proteste anti-regime, impulso in chiave europea
e mondiale alle sanzioni anti-Teheran; apertura a uno Stato palestinese
smilitarizzato e pronto ad accettare Israele come “Stato ebraico”;
grande “Piano Marshall” per lo sviluppo economico del mondo palestinese
come ricetta vincente verso la pace: Silvio e Bibi si sono trovati
d’accordo praticamente su tutto, come due vecchi amici che parlano di
progetti comuni. Tanto che Berlusconi ha persino colto l’occasione del
clima da pacche sulle spalle per raccomandare con tatto e moderazione a
Netanyahu di sospendere la realizzazione degli insediamenti nei
Territori. Tanto che il premier israeliano ha invitato quello italiano
a parlare alla Knesset, cosa non comune, nel quadro di futuri incontri
bilaterali stabili tra i due Paesi. I commenti della carta
stampata a questa luna di miele politica sono naturalmente assai
diversificati. Assai positivi quelli di Vincenzo La Manna sul Giornale e del Foglio (che parla di una “linea di alleanza unica in Europa”). Più critico e sottile il giudizio di Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore:
con questo vertice italiano Netanyahu (verso il quale traspare un velo
di disprezzo politico) riesce a sviare momentaneamente l’attenzione
dall’imbarazzante questione delle colonie che lo contrappone ad Obama;
quanto a Berlusconi, ha dato un appoggio “eccessivo” alla strategia
israeliana della smilitarizzazione palestinese; e tutti e due poi,
cercando il consenso di Obama al nuovo piano Marshall nella zona,
tralasciano il fatto che per il Presidente americano esso può essere
realizzato solo in presenza di uno Stato palestinese. Ma le critiche
più nette all’accordo senza problemi tra i vertici italiano ed
israeliano vengono, come è prevedibile, dai giornali più fortemente
critici nei confronti di Israele e del suo atteggiamento
internazionale. Così l’Unità denuncia il silenzio sulla “catastrofica
situazione” di Gaza; così Liberazione disapprova la “linea di appoggio
acritico a Israele”; così sul Manifesto qualifica
i progetti di apertura di nuove trattative e l’idea di uno Stato
palestinese smilitarizzato come “storielle” sovrapposte a uno scenario
che rende ancora impossibile ogni incontro, mentre Michele Giorgio –
implacabile con “La strana coppia Netanyahu-Berlusconi” – critica tout
court i buoni rapporti tra Italia e Israele. Rilievi legittimi, per
carità; l’appiattimento e la convergenza totali su linee maestre
“indiscutibili” non sono mai un buon segno, meglio la discussione e lo
stimolo politico. Quello che però amareggia di fronte a troppe penne di
troppi giornali italiani è l’insuperabile pregiudiziale anti-israeliana
che traspare dai loro articoli: al di là della situazione politica
contingente in Israele, più o meno giustamente stigmatizzata in fasi
diverse, parlare di Israele è sempre per costoro come parlare di
qualcosa di estraneo e di non pienamente legittimato, quasi che a monte
di tutto e al di là delle sue reali o presunte responsabilità Israele
avesse una colpa originaria, probabilmente – colpa non apertamente
denunciata – l’ esistenza stessa. E’ sulla spinta di questa amarezza di fondo che la lettura di articoli come quelli di Daniel Pipes e di Riccardo Paradisi
su Liberal costituiscono quasi una boccata d’ossigeno per chi, magari
in modo critico, ha invece a cuore la situazione di Israele. Pipes
traccia le ragioni della ricerca, da parte israeliana, di appoggi a uno
Stato riconosciuto come “ebraico”; che sono poi le stesse per cui il
mondo palestinese non vuole sentirne parlare: solo uno Stato
ufficialmente “non ebraico” può essere la meta del ritorno dei profughi
non ebrei, il luogo di un ipertrofico sviluppo demografico palestinese
(la politica dell’utero), il bersaglio delle opposizioni politiche e
delle ambizioni nazionali anche violente. Insomma, per gli israeliani
solo uno Stato “ebraico” sarebbe sicuro; per i palestinesi solo uno
Stato “non ebraico” sarebbe snaturabile dall’interno in vario modo.
Sarà, ma non tutti la pensano così. Per esempio Yehoshua non vede la
necessità di questa “sottolineatura ebraica” dello Stato. E comunque
ciò non basta per sospendere ogni trattativa, come suggerisce Pipes.
Paradisi parte da questo spunto di Pipes per intrecciare con alcuni
interlocutori (Fiamma Nirenstein, Sergio Romano, Riccardo Di Segni) un
ideale colloquio sull’identità “ebraica”, che pare da intendersi più in
senso nazionale e culturale che non propriamente etnico-religioso.
Questo noi lo sappiamo bene, attenti come siamo a non dare
dell’ebraismo la unilaterale definizione di religione. Ma certo è
su questo significato ambiguo che molti, intenzionalmente o meno,
continuano ad equivocare. Molto ci sarebbe da scrivere e da
commentare sull’Iran, ancora nell’occhio del ciclone della protesta.
Tutte le drammatiche cronache dei quotidiani parlano di un movimento
intenso ma ormai in calo, tenuto a bada con metodi sempre più violenti
e omicidi da parte del regime. E’ sul versante dell’interpretazione che
emergono divergenze tra gli stessi iraniani. Mentre le interviste allo
scrittore Majd e al mullah Kadivar pubblicate da Repubblica
sottolineano con forza (e probabilmente con intenzione politica) che
non si tratta di una rivoluzione, che in discussione non è la
Repubblica islamica, che permane da parte del popolo la fiducia negli
ayatollah, le parole del filosofo Jahanbegloo sembrano andare in
tutt’altra direzione, delineando una chiara anche se lenta crisi di
legittimità del sistema, avviato a un suo inevitabile tramonto. Parole
convincenti, analoghe a quelle scritte qualche giorno fa da Vittorio
Emanuele Parsi su La Stampa. Anche Il Foglio
riflette sul tema Iran e soprattutto sui riflessi che la sua evoluzione
potrebbe avere per l’Occidente. “Oltre la piazza” si intitola un
significativo e anonimo articolo in cui si cerca di mettere a fuoco i
mutamenti avvenuti nello scacchiere mondiale d’Occidente dopo l’11
settembre 2001 rispetto all’immagine dell’Islam.In questo quadro, la
protesta dei verdi di Mousavi potrebbe divenire l’aristotelica “topica
di riferimento” dello stesso Occidente. Su un piano collaterale ma
centrale per la situazione mondiale si colloca il mutato atteggiamento
di Obama, ora finalmente critico in modo aperto e deciso nei confronti
della repressione di Khamenei, Ahmadinejad e soci. Su questo sotto-tema
intervengono molti quotidiani (Corriere della Sera, Messaggero, Unità, Avvenire e altri ancora). Persino Il Foglio,
voce dei neocon americani, pare ravvedersi nei confronti del Presidente
Usa, anche se giudica tardivo il suo cambiamento di linea. Ma sarà poi
un cambiamento effettivo? Obama rinuncerà a trattare con Teheran,
almeno con questa Teheran? C’è da dubitarne, vista la sua spinta
all’intervento politico risolutivo. Vedremo. David Sorani |
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Milano, 'Entebbe 1976' il libro che narra le imprese del fratello del Premier Netanyahu in uscita in questi giorni Milano, 24 giu - Esce
in questi giorni, tradotto in italiano dalle edizioni Libreria Militare
di Milano il libro 'Entebbe 1976', scritto dal più giovane dei tre
fratelli Netanyahu, Iddo. Il 4 luglio 1976 più di cento tra israeliani
e ebrei di varie nazionalità e i membri dell'equipaggio di un volo Air
France, da una settimana ostaggi di militanti del Fronte di liberazione
della Palestina all'aeroporto di Entebbe in Uganda, vennero liberati
dalle forze speciali israeliane con una operazione considerata
esemplare nella storia militare, guidata da Yoni Netanyahu, fratello
dell'attuale premier israeliano Benyamin. Quella impresa, che costò la
vita a Yoni Netanyahu e tutta la sua vita, vengono ripercorse nel
libro. Basata su decine di interviste ai protagonisti e sulla
consultazione di materiale d'archivio riservato, il libro è una
ricostruzione tecnica accurata dal punto di vista militare
dell'operazione, che ebbe risonanza mondiale, e nel contempo una storia
avvincente con gli aspetti umani di tutti i protagonisti, a partire da
Yoni, comandante del Sayeret Matkal, l'unità speciale che portò a
termine decine di missioni rocambolesche, e che sacrificò la propria
vita in quella che è finita negli annali come "l'impresa senza
precedenti".
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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