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L'Unione informa
 
    24 giugno 2009 - 2 Tamuz 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  alfonso arbib Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano
La parashà di Shelàch Lekhà racconta la storia degli esploratori che, mandati da Moshè a esplorare la terra d'Israele, tornarono dal loro viaggio dicendo che quella terra è impossibile da conquistare perché è la terra che divorava i suoi abitanti. Gli esploratori riescono a spaventare il popolo ebraico che decide di non entrare in terra d'Israele e si propone addirittura di tornare in Egitto. La conseguenza di questa decisione fu che il popolo ebraico rimase quarant'anni nel deserto e la generazione non realizzò l'obbiettivo di entrare in terra d'Israele. Questa storia rappresenta la più grave delle occasioni perdute del popolo ebraico. Questa occasione perduta è indubbiamente una tragedia. Gli adulti, usciti dall'Egitto moriranno nel deserto. Ma i quarant'anni non sono solo una tragedia bensì un nuovo inizio che preparerà la generazione successiva a realizzare l'obbiettivo per cui si era usciti dall'Egitto. Anche la capacità di partire da una tragedia per un nuovo inizio è una delle caratteristiche peculiari del popolo ebraico. La tragedia lascia il segno e le ferite non necessariamente si rimarginano ma non c'è mai solo la fine ma anche l'inizio di una nuova storia. 
Gli ebrei di Iquitos vivono nella giungla del Perù, discendono da un pugno di mercanti sefarditi che nel Seicento si insediarono in questo remoto angolo dell'Amazzonia e negli ultimi anni hanno riscoperto le loro radici costruendo una sinagoga e convertendosi, grazie all'opera infaticabile e volontaria di Reategui Levy, un ispettore della compagnia petrolifera peruviana che li ha incontrati per caso. Sono diverse centinaia. Ora andranno tutti in Israele.  Maurizio Molinari,
giornalista
molinari  
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  netanyahuLa sicurezza di Israele e la minaccia iraniana
al centro del viaggio di Netanyahu in Italia
 
Si è conclusa la visita lampo in Italia del premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha lasciato  la capitale alla volta di Parigi. Poco prima di lasciare l'Italia Netanyahu era stato ricevuto al Quirinale dal Presidente Giorgio Napolitano. Ieri pomeriggio il capo del governo israeliano era stato ricevuto dal premier Silvio Berlusconi e, dopo una cerimonia  all'Arco di Tito con esponenti della Comunità ebraica fra cui il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, la vicepresidente Ucei Claudia De Benedetti e il Consigiere Ucei Sandro Di Castro, oltre al copresidente del Keren Kayemet le-Israel Rafy Sassun, accompagnati dal Ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi e dal suo consigliere Alain Elkan, è stato ricevuto a Montecitorio per una cena ufficiale nella quale il Presidente della Camera Gianfranco Fini ha dichiarato: "La pace in Medio Oriente si conquista unicamente se si garantisce la sicurezza dello Stato d'Israele". "Oggi più che mai - ha spiegato Fini - la questione della sicurezza di Israele non riguarda solo quel Paese ma tutto l'Occidente e noi italiani: è minacciata da nemici tradizionali che assumono forme sempre più pericolose, è minacciata dal regime teocratico dell'Iran che oggi mostra il suo volto anche attraverso la brutale repressione che colpisce il suo popolo e, alla luce di questo, tutti dobbiamo preoccuparci di cosa potrebbe accadere se dovesse dotarsi di un'arma nucleare". "Personalmente - ha aggiunto Fini - ritengo che queste non siano precondizioni ma oneste fotografie della realtà: Israele ha una precisa natura e riconoscere il diritto di Israele ad esistere significa riconoscere quella identità, cioé di nazione del popolo ebraico. Non può essere pensato in modo diverso".

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magiarTutti in verde a Trieste

A cosa serve la politica in Italia? Le strade d'Europa si sono riempite per esprimere solidarietà all'opposizione iraniana che contesta lo scandalo di elezioni truccate da un regime oppressivo, mentre le strade italiane sono rimaste vuote (eccezion fatta per le due nobili iniziative promosse dal Pd romano e da Il Riformista e Radio Radicale che hanno registrato un'affluenza assai scarsa). Non è certo una questione di numeri, comunque sempre indicativi: in discussione è invece il valore o la concezione stessa della politica . Sia il centrodestra che il centrosinistra si dichiarano da anni paladini dei più alti e nobili valori democratici, difensori della libertà (o delle libertà) e, ovviamente, dei diritti umani. Eppure, ogni qualvolta la politica estera ci impone di prendere posizione su delicate questioni che riguardano regimi illiberali con cui, ahinoi, l'Italia ha proficui rapporti economici, i nostri rappresentanti in parlamento (al governo o all'opposizione poco conta) ricorrono alla più fervida creatività per riuscire a non urtare il despota di turno. Non abbiamo ancora superato lo shock della visita del Re dei Re d'Africa e, peggio, lo shock del pellegrinaggio alla sua tenda, che dobbiamo già registrare un nuovo caso imbarazzante. Loro, i nostri rappresentanti in parlamento, la chiamano realpolitik, ma sbagliano: la realpolitik è un approccio realistico, pragmatico e non ideologico, atto ad evitare il conflitto aperto e a trovare strade nuove per risolvere spinose questioni internazionali. La prima regola di questa arte diplomatica è sempre stata quella di conservare le proprie credibilità e dignità nel dialogare con interlocutori imbarazzanti, per generare, anche nel compromesso, dei reali miglioramenti nelle relazioni internazionali. Oggi non è in atto la ricerca di nessuna nuova strada né, tantomeno, il tentativo di migliorare le condizioni sul terreno. La strada che percorriamo è sempre la stessa: quella dei commessi viaggiatori, dei piazzisti in cerca di incrementare o conservare la propria clientela, consapevoli che la democrazia, se non la si può esportare, la si potrà almeno barattare nel grande bazar della diplomazia internazionale. Certo l'Occidente sta ricalibrando le sue misure: lo stesso Obama che in un primo momento, per non delegittimare e danneggiare i manifestanti di Teheran, aveva prudentemente considerato uguali Ahmadinejad e Mousavi, ha già corretto la linea chiedendo di fermare la «repressione». Anche il nostro ministro degli esteri sta cercando una via d'uscita sull'affaire dell'invito all'Iran per il G8 di Trieste:invece di ritirarlo lo lascia decadere . Ma l'imbarazzo non riguarda tanto le scelte del governo (condizionato dalle dinamiche delle diplomazie degli altri stati) quanto l'ambiguità dei partiti italiani: espongono i valori della democrazia come vecchi souvenir, utili da brandire durante le nostre elezioni (contro il regime berlusconiano o contro i comunisti) e poi sorvolando su Darfur, Tibet, Iran, Corea... Le mobilitazioni arrivano solo se utili a ferire la parte politica avversa. A cosa serve la politica in Italia? La nostra politica è capace di usare qualsiasi cosa quando è in discussione la lotta per il potere, ma è incapace di disegnare idee o di programmare azioni che servano a realizzare una società (o un mondo) migliore. Giovedì prossimo, a Trieste, l'Iran dovrebbe partecipare al G8 e la diplomazia internazionale potrebbe cogliere l'occasione per fare pressioni su Teheran: ma anche ritirare l'invito all'Iran sarebbe una buona forma di pressione. Ma almeno i partiti, quelli che si considerano democratici, potrebbero promuovere proprio a Trieste una manifestazione contro la repressione in atto in Iran: sarebbe un segno forte rivolto ad Ahmadinejad e soci, e sarebbe anche un buon segno per la nostra stanca politica. 

Victor Magiar, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(tratto da Europa -  23 giugno 2009)




racconto shalitIl pesciolino e lo squalo, la favola di Shalit
fra fantasia e premonizione

Una favola, una favola come tante, racconta di uno squalo che sta per mangiare un pesciolino. Ma i due iniziano a giocare a nascondino e diventano amici. La mamma-squalo è contraria a questa amicizia e dice a suo figlio: "Il pesce è un animale che mangiamo. Non giocare con lui".
Anche la mamma pesce non vuole che suo figlio giochi con lo squalo "Lo squalo è l'animale che ha divorato tuo padre e tuo fratello, non giocare con lui", gli dice. Dopo essersi evitati per un anno, i due si rincontrano. Lo squalo dice al pesce: "Sei un nemico, ma possiamo fare la pace?". Il pesce  felice di aver rivisto il suo compagno di giochi è d'accordo e i due annunciano la rinata amicizia alle madri. "Da quel giorno - scriveva Shalit - lo squalo e il pesce hanno vissuto in pace”. Sarebbe bello se le cose fossero andate così, ma lo squalo che Gilad  ha incontrato il 25 giugno 2006 e che da tre anni lo tiene prigioniero, non è uno lo squalo della storia e non ha voglia di giocare.

giladGilad Shalit (nell'immagine a fianco) è il soldato ventiduenne dell'esercito israeliano rapito da un commando di guerriglieri palestinesi di Hamas che hanno condotto un attacco contro un avamposto militare in territorio israeliano tre anni fa, da allora non si hanno notizie certe su di lui, tutti i tentativi di mediazione hanno dato esito negativo e alla Croce rossa internazionale non è stato consentito di visitarlo.
Quando il pesciolino e lo squalo s’incontrarono per la prima volta la favola che Gilad Shalit scrisse nel 1997, quando era in quinta elementare, è una storia piena di speranza che un'insegnante del soldato rapito ha trovato mentre faceva le pulizie di Pesach e l'ha fatta avere alla famiglia che a sua volta ne ha curato la pubblicazione attraverso Free Gilad, l'associazione fondata da Noam Shalit (il padre di Gilad).
Lo scorso anno la casa editrice La Giuntina in occasione della Fiera del libro di Torino ha tradotto e  pubblicato la favola in italiano. Tutti i profitti ricavati dalla vendita del libro vengono devoluti all’Associazione Keren Maor, che coordina la campagna internazionale volta a ottenere la liberazione di Gilad e a mantenere alta l'attenzione dei media. All’iniziativa partecipa anche l’associazione degli illustratori israeliani, con un corredo di disegni originali di mano di trenta diversi artisti. Ciascuno ha interpretato l’incontro fra pesce e squalo secondo il proprio stile, dando vita ad una galleria di immagini per  i lettori più giovani. Il libro non è acquistabile in libreria ma solo sul sito della casa editrice.
disegno giladLa favola di Gilad è stata anche oggetto di un lavoro di gruppo che una scuola di Pistoia, seguendo l'esempio di una scuola americana, ha ripreso e diffuso attraverso Youtube (a fianco uno dei disegni realizzati dai ragazzi  che compaiono sul filmato) .
Anche un'altra scuola, l'Esopo di Roma, a seguito di un incontro svoltosi in occasione del sessantunesimo anniversario della fondazione dello stato di Israele cui hanno partecipato il Presidente della Provincia Nicola Zingaretti e il Presidente della Comunità Ebraica della capitale Riccardo Pacifici ha promosso delle iniziative a sostegno della liberazione di Gilad Shalit: “Sarebbe molto bello se decideste di inviare una lettera ai governi di Israele e Palestina per chiedere la liberazione di Shalit. - ha suggerito Pacifici durante l'incontro -  Voi potreste essere la prima scuola di Roma e d’ Italia che fa una cosa del genere”. La proposta di Pacifici è stata prontamente raccolta dagli alunni e dagli insegnanti della Scuola che ha deciso di dedicare l'ultimo mese di scuola a questo progetto. Le lettere dei ragazzi insieme a quelle di sostegno alla famiglia del soldato rapito, sono state esposte in una sala di Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma.
Sarebbe molto bello se le lettere e i lavori che i ragazzi hanno svolto per spronare la liberazione di Gilad aprissero una breccia nel cuore dello squalo che non ha avuto voglia di giocare con il pesciolino e che lo tiene in ostaggio da tre anni.

Lucilla Efrati
 
 
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  noterelleNoterelle - Stolti paragoni

Qualche settimana fa giocando con il telecomando mi è capitato di vedere la stella gialla cucita sul vestito di Emma Bonino, mentre Monica Guerritore, con solennità grave, stava recitando, pensai, un brano del diario di Anna Frank . Invece erano passi delle lettere sul “ciarpame” di Veronica Lario. Quando i politici o i giornalisti televisivi si servono della storia, stupisce sempre la loro assenza di umiltà. “Ho parlato da stolto (Insipienter locutus sum)”, insegna Pier Vincenzo Mengaldo, un grande italianista, che si è saggiamente appoggiato a Giobbe (42, 3) prima di affrontare il tema dello sterminio: “Sono cose troppo alte e non le capisco” (et quae ultra modum excederent scientiam meam).

Sia chiaro. L’uso del giallo come colore dell’afflizione non l’hanno inventato Pannella o la Bonino. Ne siamo afflitti dall’inizio degli anni Novanta. Se ne era servito, in modo più soft, chi a suo tempo aveva manifestato per difendere l’innocenza di Adriano Sofri. Stesso discorso va fatto per le comparazioni riguardanti le leggi razziste. Era già “razziale” la Bossi-Fini. I paragoni storici sono sempre rischiosi, soprattutto quando a servirsene sono i politici o gli storici politicizzati. Raccogliendo i suoi ricordi sulla scuola italiana, Carlo Dionisotti non nascondeva il timore che quelle sue pagine risentissero dei “crucci provocati dagli eventi”. Sia fra chi sostiene che siamo ormai in pieno 1938, sia in chi lo nega, ben altri, temo, siano i crucci.

Non da oggi, gli ebrei sono considerati, in Italia più che altrove, il termometro delle sofferenze umane. Ricordo che a suo tempo il governo Prodi, insieme a giudici e militari, volle una presenza ebraica nella commissione che avrebbe dovuto giudicare le efferatezze dei nostri soldati in missione in Somalia. E’ l’idea di ebraismo dolente, che andrebbe capovolta, soprattutto quando si affrontano i problemi dell’immigrazione. Possiamo essere un esempio da imitare, non solo da compiangere. La storia degli ebrei italiani e la storia dell’emigrazione clandestina hanno un denominatore comune, che non è il Manifesto della razza, ma il modo attraverso cui gli ebrei, nel corso dei secoli hanno cessato di essere “clandestini”, “stranieri” e sono diventati cittadini. Proprio la Padania ebraica è il luogo che dovrebbe insegnare come sia tortuosa, ma attuabile l’integrazione. Mezzo millennio circa di coabitazione, in Piemonte, senza respingimenti.

Alberto Cavaglion
 
 
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La visita del premier israeliano Netanyahu in Italia sullo sfondo (in realtà il contesto emergente) della ancora magmatica situazione iraniana: questo in poche parole lo scenario sul quale soffermare oggi il nostro sguardo e la nostra riflessione. Dell’incontro Bibi-Papi, come qualcuno ha già irriverentemente definito il vertice di ieri a Palazzo Chigi, si potrebbe in realtà cercare sui giornali di stamane una linea interpretativa tutta in chiave di politica italiana (o di “politica all’italiana”): Berlusconi che coglie l’occasione offertagli dall’agenda diplomatica per sollevarsi dalla suburra politica a base di festini e di escort, e riprendere un ruolo istituzionale nella politica alta parlando di alleanze, di paese amico, di Iran, di trattative di pace. Ecco quindi i giornali più vicini alla maggioranza (Il Giornale, Il Foglio, Il Messaggero, Il Tempo) sottolineare il significato strategico dell’incontro, tratteggiare – fuori dalle “calunnie” di questi giorni – la bella improbabile immagine di Silvio come raffinato politico internazionale, rimarcare la stima che ha per lui Netanyahu quando lo definisce “campione di pace”. Ecco, dall’altra parte, i quotidiani più critici verso il nostro governo descrivere ironicamente questo impiego tutto in un’ottica interna degli affari di Stato, pronti però anch’essi a fare un uso di parte della politica mondiale (vedasi specialmente Umberto De Giovannangeli sull’Unità e Sandra Volandri su Liberazione, ma anche – tra le righe – Maurizio Caprara sul Corriere della Sera). Bassezze della nostra politica attuale, costretta a dipanarsi in mezzo a un pantano di scorie d’altro genere.
Per fortuna che, al di là dell’immagine odierna di Berlusconi, si parla anche e soprattutto dei contenuti reali dell’incontro romano tra i due leaders. Preoccupazione per l’Iran e per la sua corsa all’atomica, solidarietà con le sue proteste anti-regime, impulso in chiave europea e mondiale alle sanzioni anti-Teheran; apertura a uno Stato palestinese smilitarizzato e pronto ad accettare Israele come “Stato ebraico”; grande “Piano Marshall” per lo sviluppo economico del mondo palestinese come ricetta vincente verso la pace: Silvio e Bibi si sono trovati d’accordo praticamente su tutto, come due vecchi amici che parlano di progetti comuni. Tanto che Berlusconi ha persino colto l’occasione del clima da pacche sulle spalle per raccomandare con tatto e moderazione a Netanyahu di sospendere la realizzazione degli insediamenti nei Territori. Tanto che il premier israeliano ha invitato quello italiano a parlare alla Knesset, cosa non comune, nel quadro di futuri incontri bilaterali stabili tra i due Paesi.
I commenti della carta stampata a questa luna di miele politica sono naturalmente assai diversificati. Assai positivi quelli di Vincenzo La Manna sul Giornale e del Foglio (che parla di una “linea di alleanza unica in Europa”). Più critico e sottile il giudizio di Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore: con questo vertice italiano Netanyahu (verso il quale traspare un velo di disprezzo politico) riesce a sviare momentaneamente l’attenzione dall’imbarazzante questione delle colonie che lo contrappone ad Obama; quanto a Berlusconi, ha dato un appoggio “eccessivo” alla strategia israeliana della smilitarizzazione palestinese; e tutti e due poi, cercando il consenso di Obama al nuovo piano Marshall nella zona, tralasciano il fatto che per il Presidente americano esso può essere realizzato solo in presenza di uno Stato palestinese. Ma le critiche più nette all’accordo senza problemi tra i vertici italiano ed israeliano vengono, come è prevedibile, dai giornali più fortemente critici nei confronti di Israele e del suo atteggiamento internazionale. Così l’Unità denuncia il silenzio sulla “catastrofica situazione” di Gaza; così Liberazione disapprova la “linea di appoggio acritico a Israele”; così sul Manifesto qualifica i progetti di apertura di nuove trattative e l’idea di uno Stato palestinese smilitarizzato come “storielle” sovrapposte a uno scenario che rende ancora impossibile ogni incontro, mentre Michele Giorgio – implacabile con “La strana coppia Netanyahu-Berlusconi” – critica tout court i buoni rapporti tra Italia e Israele. Rilievi legittimi, per carità; l’appiattimento e la convergenza totali su linee maestre “indiscutibili” non sono mai un buon segno, meglio la discussione e lo stimolo politico. Quello che però amareggia di fronte a troppe penne di troppi giornali italiani è l’insuperabile pregiudiziale anti-israeliana che traspare dai loro articoli: al di là della situazione politica contingente in Israele, più o meno giustamente stigmatizzata in fasi diverse, parlare di Israele è sempre per costoro come parlare di qualcosa di estraneo e di non pienamente legittimato, quasi che a monte di tutto e al di là delle sue reali o presunte responsabilità Israele avesse una colpa originaria, probabilmente – colpa non apertamente denunciata – l’ esistenza stessa.
E’ sulla spinta di questa amarezza di fondo che la lettura di articoli come quelli di Daniel Pipes e di Riccardo Paradisi su Liberal costituiscono quasi una boccata d’ossigeno per chi, magari in modo critico, ha invece a cuore la situazione di Israele. Pipes traccia le ragioni della ricerca, da parte israeliana, di appoggi a uno Stato riconosciuto come “ebraico”; che sono poi le stesse per cui il mondo palestinese non vuole sentirne parlare: solo uno Stato ufficialmente “non ebraico” può essere la meta del ritorno dei profughi non ebrei, il luogo di un ipertrofico sviluppo demografico palestinese (la politica dell’utero), il bersaglio delle opposizioni politiche e delle ambizioni nazionali anche violente. Insomma, per gli israeliani solo uno Stato “ebraico” sarebbe sicuro; per i palestinesi solo uno Stato “non ebraico” sarebbe snaturabile dall’interno in vario modo. Sarà, ma non tutti la pensano così. Per esempio Yehoshua non vede la necessità di questa “sottolineatura ebraica” dello Stato. E comunque ciò non basta per sospendere ogni trattativa, come suggerisce Pipes. Paradisi parte da questo spunto di Pipes per intrecciare con alcuni interlocutori (Fiamma Nirenstein, Sergio Romano, Riccardo Di Segni) un ideale colloquio sull’identità “ebraica”, che pare da intendersi più in senso nazionale e culturale che non propriamente etnico-religioso. Questo noi lo sappiamo bene, attenti come siamo a non dare dell’ebraismo la unilaterale definizione di religione. Ma certo è su questo significato ambiguo che molti, intenzionalmente o meno, continuano ad equivocare.
Molto ci sarebbe da scrivere e da commentare sull’Iran, ancora nell’occhio del ciclone della protesta. Tutte le drammatiche cronache dei quotidiani parlano di un movimento intenso ma ormai in calo, tenuto a bada con metodi sempre più violenti e omicidi da parte del regime. E’ sul versante dell’interpretazione che emergono divergenze tra gli stessi iraniani. Mentre le interviste allo scrittore Majd e al mullah Kadivar pubblicate da Repubblica sottolineano con forza (e probabilmente con intenzione politica) che non si tratta di una rivoluzione, che in discussione non è la Repubblica islamica, che permane da parte del popolo la fiducia negli ayatollah, le parole del filosofo Jahanbegloo sembrano andare in tutt’altra direzione, delineando una chiara anche se lenta crisi di legittimità del sistema, avviato a un suo inevitabile tramonto. Parole convincenti, analoghe a quelle scritte qualche giorno fa da Vittorio Emanuele Parsi su La Stampa. Anche Il Foglio riflette sul tema Iran e soprattutto sui riflessi che la sua evoluzione potrebbe avere per l’Occidente. “Oltre la piazza” si intitola un significativo e anonimo articolo in cui si cerca di mettere a fuoco i mutamenti avvenuti nello scacchiere mondiale d’Occidente dopo l’11 settembre 2001 rispetto all’immagine dell’Islam.In questo quadro, la protesta dei verdi di Mousavi potrebbe divenire l’aristotelica “topica di riferimento” dello stesso Occidente.
Su un piano collaterale ma centrale per la situazione mondiale si colloca il mutato atteggiamento di Obama, ora finalmente critico in modo aperto e deciso nei confronti della repressione di Khamenei, Ahmadinejad e soci. Su questo sotto-tema intervengono molti quotidiani (Corriere della Sera, Messaggero, Unità, Avvenire e altri ancora). Persino Il Foglio, voce dei neocon americani, pare ravvedersi nei confronti del Presidente Usa, anche se giudica tardivo il suo cambiamento di linea. Ma sarà poi un cambiamento effettivo? Obama rinuncerà a trattare con Teheran, almeno con questa Teheran? C’è da dubitarne, vista la sua spinta all’intervento politico risolutivo. Vedremo. 

David Sorani

 
 
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Milano,  'Entebbe 1976' il libro che narra le imprese del fratello del Premier Netanyahu in uscita in questi giorni
Milano, 24 giu -
Esce in questi giorni, tradotto in italiano dalle edizioni Libreria Militare di Milano il libro 'Entebbe 1976', scritto dal più giovane dei tre fratelli Netanyahu, Iddo. Il 4 luglio 1976 più di cento tra israeliani e ebrei di varie nazionalità e i membri dell'equipaggio di un volo Air France, da una settimana ostaggi di militanti del Fronte di liberazione della Palestina all'aeroporto di Entebbe in Uganda, vennero liberati dalle forze speciali israeliane con una operazione considerata esemplare nella storia militare, guidata da Yoni Netanyahu, fratello dell'attuale premier israeliano Benyamin. Quella impresa, che costò la vita a Yoni Netanyahu e tutta la sua vita, vengono ripercorse nel libro. Basata su decine di interviste ai protagonisti e sulla consultazione di materiale d'archivio riservato, il libro è una ricostruzione tecnica accurata dal punto di vista militare dell'operazione, che ebbe risonanza mondiale, e nel contempo una storia avvincente con gli aspetti umani di tutti i protagonisti, a partire da Yoni, comandante del Sayeret Matkal, l'unità speciale che portò a termine decine di missioni rocambolesche, e che sacrificò la propria vita in quella che è finita negli annali come "l'impresa senza precedenti".


 
 
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