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    26 giugno 2009 - 4 Tamuz 5769   
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo rabbino Roberto
Colombo,

rabbino 
Viviamo in un mondo dove, come all’epoca di Korach,  i grandi parlatori sono sempre più apprezzati. Si narra che un giorno un povero rabbino parlava ad una platea svogliata. “Scusate”  - disse il rav - “So bene che il mio discorso non è un granché. Ma la colpa non è mia. Ero in carrozza e stavo ripassando lo splendido sermone che avevo scritto par voi. Purtroppo i fogli mi son caduti e l’asino se li è mangiati. Ho dovuto quindi improvvisare e me ne scuso. Dunque, cari fratelli, è probabile che in futuro arrivi qui un asino con grandi capacità oratorie. Non fatevi incantare, sappiate che quel discorso non è suo”.   
A tre anni dal suo rapimento, il caporale israeliano Ghilad Shalit è ancora prigioniero di Hamas. Dopo Parigi, ieri anche Roma gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Il primo luglio, la sua famiglia ritirerà la pergamena dalle mani del sindaco Alemanno. Ma l'Italia si è impegnata ieri anche attraverso la Commissione Diritti Umani del Senato, con la lettera che il suo presidente Pietro Marcenaro ha scritto al padre di Shalit, invitandolo in Italia e manifestandogli piena solidarietà. "Il rapimento di suo figlio, ha scritto, costituisce un
atto efferato e insopportabile, che ripugna alla coscienza", E che sia anche la Commissione dei Diritti Umani del Senato a prendere così posizione mi sembra importante e significativo. Perché colloca il caso del caporale Shalit in un contesto più generale di intollerabili violazioni dei diritti umani, come quelle che avvengono nelle strade di Teheran, in Cina, a Cuba. Perché colloca il rapimento e la presa di ostaggi fra le violazioni più intollerabili dei diritti, alla pari delle torture, delle esecuzioni capitali, della repressione di ogni genere.
Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  shalit Libertà per Ghilad Shalit:
per Roma è un impegno

La gigantografia con l'immagine di Gilad Shalit campeggia al centro del balcone del Campidoglio, affissa subito dopo la votazione del Consiglio comunale della capitale, che ha conferito la cittadinanza onoraria al soldato israeliano, rapito il 25 giugno del 2006 da Hamas e di cui non si hanno notizie certe. Dopo la votazione, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, alla presenza di alcuni consiglieri comunali e del Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici promotore dell'iniziativa e visibilmente commossso,  ha dichiarato: "Sono tre anni che questo ragazzo è prigioniero fuori da ogni logica dei trattati internazionali; non c'é stato verso di poterlo riconsegnare. Questa è una condanna forte di tutte le forme di fondamentalismo e intolleranza". Il primo luglio la famiglia del soldato sarà a Roma e, ha concluso Alemanno, "in quell'occasione saremo onorati di conferire concretamente ed ufficialmente la cittadinanza onoraria consegnando la pergamena". Poco dopo la cerimonia il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici hanno incontrato in Campidoglio il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e gli hanno espresso il loro auspicio affinché la famiglia di Shalit sia ricevuta in quell'occasione al Quirinale. Anche Fiamma Nirenstein, giornalista e vicepresidente della Commissione Esteri della Camera, ha ricordato il soldato Gilad Shalit attraverso un comunicato nel quale ha invitato tutti ad aderire al desiderio del padre di Gilad, Noam Shalit, "a tenere gli occhi chiusi per tre minuti, per figurarsi l'oscurità, l'isolamento, la pena in cui si trova suo figlio da tre anni. Tre minuti contro tre anni di oblio totale".

gattegna e pacifici"Durante questo lunghissimo periodo, - ha sottolineato la deputata PDL - né i genitori di Ghilad, né nessun altro ha mai potuto ricevere la minima informazione sulla salute del ragazzo. Neppure la Croce Rossa Internazionale, in contrasto con quanto stabilito dalla Convenzione di Ginevra, ha potuto visitare Ghilad per verificarne le condizioni di salute, fisica e psichica, o semplicemente per potere certificare che sia ancora in vita. Ci rivolgiamo quindi oggi alla Croce Rossa Internazionale - aggiunge Nirenstein - affinché si impegni con ogni mezzo per visitare Ghilad Shalit, rinnovando così l'invito formulato nello scorso dicembre dal confine con la Striscia di Gaza con una lettera sottoscritta da 24 parlamentari italiani in visita in Israele".
Nel frattempo il secondo canale della televisione israeliana ha riferito che secondo non meglio precisate fonti diplomatiche europee Ghilad Shalit, sta per essere trasferito in Egitto. Il trasferimento potrebbe essere questioni di giorni, forse di ore. Questa sarebbe la prima fase di un accordo, mediato dall' Egitto, che si dovrebbe concludere col ritorno a casa di Shalit in cambio della liberazione di centinaia di palestinesi detenuti in Israele. Fonti del ministero della difesa in Israele, citate dalla Tv, hanno accolto con scetticismo la notizia. Nei giorni scorsi informazioni di analogo contenuto erano state diffuso anche dall'agenzia palestinese Maan senza però trovare conferma né da parte israeliana nè da quella palestinese.

l.e.


sharanskyE' Nathan Sharansky il nuovo presidente dell'Agenzia Ebraica

 "Finalmente l'Agenzia Ebraica ha un nuovo chairman dell'esecutivo - Nathan Sharansky, un eroe d'Israele e del popolo ebraico. Una persona che tiene molto all'identita' ebraica, al sionismo, sia in Israele che nella diaspora" ha dichiarato in un breve messaggio Johanna Arbib, quarantenne presidentessa della Keren Hayesod Italia, che ha fatto parte della commissione dei 10 rappresentati  che hanno eletto all'unanimità Nathan Sharansky chairman dell'Agenzia Ebraica.
Nathan Sharansky, (ritratto a sinistra nella foto in alto al momento della sua liberazione) che guidò la resistenza dei refusniks ebrei in Unione Sovietica, è responsabile dell'Istituto di Studi Strategici dello Shalem Center (istituto di ricerca  di Gerusalemme) e nel corso degli ultimi anni ha ricoperto molti ruoli istituzionali. Ministro senza portafoglio con delega su Gerusalemme e la Diaspora ebraica da marzo 2003 a maggio 2005, è stato precedentemente Vice primo ministro di Israele, Ministro per l'edilizia fino al marzo 2001, Ministro degli interni (dal luglio 1999 fino alle dimissioni date nel luglio 2000), Ministro per l'industria ed il commercio (1996-1999). Nell'aprile 2005 per protestare contro il piano di ritiro degli insediamenti israeliani dalla Striscia di Gaza, ha dato  le dimissioni dalla compagine governativa. È stato rieletto alla Knesset nel marzo 2006 nelle file del Likud dando poi le dimissioni il 20 novembre successivo.
Anatoly Borisovich Shcharansky è nato a Doensk, in Unione Sovietica, nel 1948 dove si è laureato in matematica applicata all'Istituto di Fisica e Tecnologia di Mosca.
Dopo che nel 1973 gli fu negato il visto di espatrio per Israele per ragioni di sicurezza nazionale, ha lavorato come interprete per l'inglese del famoso fisico e dissidente Andrei Sakharov, divenendo a sua volta attivista per i diritti umani. Sharansky è stato anche tra i fondatori oltre che portavoce dell'Helsinki Watch Group di Mosca, un movimento costituito da ebrei e Refusenik, noto anche come gruppo di Yuri Orlov.
Nel marzo 1977 fu arrestato e condannato a 13 anni di lavori forzati per tradimento e spionaggio a favore degli Stati Uniti. Dopo una detenzione di 16 mesi nella prigione Lefortovo fu trasferito nel gulag siberiano Perm 35 dove rimase nove anni. La sorte di Sharansky e di altri prigionieri politici fu ripetutamente portata all'attenzione pubblica da parte di diplomatici e difensori dei diritti umani occidentali creando imbarazzo ed irritazione alle autorità sovietiche. Finalmente nel 1986 fu trasferito in Germania orientale e a Berlino ovest. Famoso per la resistenza opposta durante la detenzione, non si smentì neppure in occasione della liberazione: gli venne chiesto di camminare diritto verso la sua libertà e lui avanzò invece zigzagando come ultimo atto di sfida. Sharansky emigrò, quindi, in Israele dove prese il nome proprio ebraico di Natan.
Nel 1988 Sharansky é stato eletto presidente dello Zionist Forum, un'organizzazione sionista che raccoglie ex dissidenti sovietici,ha anche collaborato con il The Jerusalem Report ed é un membro direttivo di Peace Watch.
La rivista Time nel 2005 lo ha elencato all'undicesimo posto della sua lista delle 100 persone più influenti nella categoria "scienziati e pensatori".
Il suo libro The Case For Democracy: The Power of Freedom to Overcome Tyranny and Terror, che parla della libertà politica come un elemento essenziale per la sicurezza e la prosperità, affermando che ogni popolo ed ogni nazione merita di vivere libera ed in una società democratica scritto in collaborazione con Ron Dermer, è divenuto una lettura obbligata ad Embassy Row, l'area che ospita le ambasciate di Washington. 

 
 
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  anna momiglianoRotschild Boulevard - Moshe Kai, 11 anni
e un futuro fra le stelle 

 
Si chiama Moshe e ha gli occhi a mandorla. L'ultimo “genietto d'America” ha un padre israeliano e una madre tailandese. Alla tenera età di undici anni, Moshe Kai Cavallin si è appena laureato in astrofisica presso l'East Los Angeles College, dove si era iscritto quattro anni fa - fate voi il calcolo.
E' il secondo più giovane laureato americano: prima di lui ci fu Michael Kearney, che nel 1995 terminò gli studi universitari a soli dieci anni, in Alabama. Il piccolo Moshe – che ha anche un nome cinese, Kai Hasiao Hu, “tigre obbediente” - ha spiegato in passato che il suo interesse principale è lo studio del cunicolo spazio-temporale, o ponte di Einstein-Rosen. Ma se vi immaginate un secchione imbranato e indifeso, sbagliate di grosso: in barba alle apparenze, Moshe è pure cintura nera in diverse arti marziali: un amore ereditato dal padre, che, secondo quanto riporta la stampa israeliana, era nelle forze speciali di Tsahal.

Anna Momigliano
 
 
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Nella giornata che celebra il lutto mondiale per la prematura dipartita di Michael Jackson, la cui morte segna, a modo suo, il declino di un’epoca culturale, quella contrassegnata da una filosofia di vita tanto narcisista quanto fragile, affermatasi al seguito del declino degli anni della contestazione collettiva e dei grandi movimenti sociali, l’Iran, le sue viscere, i sommovimenti popolari dei quali ci giungono echi tanto lontani quanto, al medesimo tempo, persistenti, continuano a tenere per noi banco. Fonte di residua conoscenza sono i canali del web, come ci ricorda Thomas Friedman, intervistato da Gigi Riva per l’ Espresso. Fatichiamo a capire cosa stia veramente succedendo, con il blocco della libera circolazione di notizie e informazioni che fa da corredo ai drammatici eventi in corso soprattutto a Teheran, una città di quindici milioni di abitanti, che da sé fa già un paese a parte, nel più generale novero dei circa settanta milioni di cittadini iraniani. Uno spaccato della situazione c’è fornito da Noushin Mirshokraei su Panorama, un’iraniana trasferitasi in Italia ed ora tornata nel suo paese, del quale descrive lucide angosce e tormentati desideri. C’è un conflitto in corso, tra poteri come tra grandi segmenti di popolazione, tra di loro contrapposti. Chi è andato alle elezioni, il 12 giugno, aveva senz’altro calcolato la possibilità di un tale scenario di confusione e tensioni, avendolo messo in conto come esito altamente probbaile. La scelta, voluta da Khamenei e dai suoi uomini, di attribuire un ampio margine di voti a Mahomud Ahmadinejad, evitando che risultasse sì vincitore ma di stretta misura, è infatti una provocazione che ha ad obiettivo quello di costringere l’intera opposizione a scendere in piazze sempre più insanguinate, così letteralmente svenandosi, o peggio ancora a dissentire silenziosamente, suicidandosi moralmente e politicamente. Nell’uno come nell’altro caso le risposte erano già state preparate da tempo, in tutta probabilità. Poiché appena dietro le quinte, venuti meno i due “fantocci” della situazione, il truce ex sindaco della capitale, investito per un secondo mandato del ruolo di Presidente della Repubblica islamica dell’Iran, e l’incolore leader dell’opposizione, Mir Hossein Moussavi, uomo peraltro anch’egli di apparato e non certo di innovazione - del quale, con approcci opposti sia Magdi Cristiano Allam su Panorama che Gabriel Bertinetto su l’Unità parlano oggi - emergono gli inquietanti interessi che sono in gioco. Sull’ideologia di fondo ci paiono puntuali le considerazioni di Bernard-Henry Lévy, riprese da Cecilia Zecchinelli per il Corriere della Sera, quando parla di «fascismo» commentando un’arringa apocalittica del Calimero di Teheran, rivolta a un selezionato gruppo di religiosi. Un quadro disincantato dello stato delle cose,  a  iniziare dal dato del consenso, che pure c’è, per parte di gruppi consistenti della popolazione iraniana verso gli ultraconservatori, è quello offertoci dall’articolo di Francesco Ruggeri per Libero, la cui lettura consigliamo vivamente. Sul versante politico, più prosaicamente, la «guida spirituale della Rivoluzione» (della Rivoluzione, si badi bene, e non dello Stato) Ali  Khamenei ha deciso di tagliare le ali al suo nemico giurato, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, a capo quest’ultimo di una vera e propria casta che all’ombra di trent’anni di Iran khomeinista ha costruito le sue esorbitanti fortune economiche. Insomma, la «rivoluzione» è stata per certuni un buon affare, per altri una speranza, per i più anche e soprattutto una delusione. Come però si possa e si debba giudicare la natura e la misura dello sconforto dei delusi, sono e saranno solo le piazze a potercelo dire di qui in avanti. Perché l’esplosione di questi giorni ci segnala una frattura secca, ovvero nettissima. L’Iran odierno, politicamente parlando, è un paese giovane dominato da una gerontocrazia sacerdotale il cui collante di potere sono gli interessi economici. L’unitarietà dell’amministrazione è una chimera, trattandosi di uno Stato diviso al suo interno da una pluralità, in sé conflittuale, di gruppi tra di loro contrapposti. Non è infatti un caso se il punto di non ritorno è stato ingenerato dalla immediata controversia sul modo di misurare il partecipatissimo voto popolare, dai riformisti letto come inquinato da clamorosi brogli perpetuati dagli sgherri dei «principialisti», raccoltisi dietro l’icona Ahmadinejad. In realtà, prima ancora che di un qualche riscontro tra dati diversi si è avuto a che fare con un conflitto tra modi distinti di contare le schede e i loro risultati. Rafsanjani aveva fatto predisporre un sistema e un circuito di rilevazioni alternativo a quello del Ministero degli interni, considerato inattendibile o comunque inaffidabile poiché controllato dagli ipertradizionalisti di Khamenei. Sulla base di questa premessa si è poi innescato il conflitto fisico, combattuto tra le piazze, che sta vedendo contrapposti due universi umani e sociali: da una parte i giovani urbanizzati, secolarizzati e scolarizzati, appartenenti alle classi sociali medie ma esclusi da una ricchezza che va solo verso certe mete non meno che angosciati dalla crisi economica che blocca ogni forma di mobilità; dall’altra, il sottoproletariato dei basiji e dei pasdaran, vere e proprie camicie nere della rivoluzione khomenista, un insieme di gruppi, estesissimo, molto radicato nella realtà delle periferie metropolitane e in quelle rurali, dove milioni di individui si riconoscono nelle parole d’ordine di Ahmadinejad. L’Iran di oggi sconta un tasso di disoccupazione che colpisce il 20 per cento della forza lavoro maschile così come il doppio tra le donne; l’inflazione è al 30 per cento mentre quasi la metà del suo fabbisogno petrolifero è soddisfatto da importazioni e da un oneroso razionamento interno. Fiamma Nirenstein, su Panorama, ci spiega, come di sua abitudine, quale sia la posizione di Israele rispetto alla situazione iraniana mentre sempre sulla stessa testata Giovanni Porzio passa in rassegna il comportamento dei paesi arabi e musulmani, le cui leadership sono come sospese tra la minaccia della dirompenza delle pretese dei capi di Teheran e la paura che gli eventi in corso nel paese sciita mettano in movimento la protesta anche tra le popolazioni locali. Più in generale, per fare un pò il punto della situazione, si legga allora quanto Segre va scrivendo, con il suo puntuale acume, per il Giornale. Il suo articolo ci aiuta a mettere insieme i pezzi di un mosaico tanto articolato quanto scosso da costanti movimenti tellurici, dei quali non sempre abbiamo piena cognizione. Sulla falsariga degli scenari planetari in divenire è invece orientato Ferdinando Salleo per la Repubblica, dove ancora una volta l’Iran viene ricondotto alla partita nucleare, vero punto dolente di tutto il quadro regionale e internazionale.
Per cambiare discorso sollecitiamo l’attenzione dei lettori alla lettura dell’articolo di Danilo Taino, pubblicato dal Corriere della Sera, sul destino delle opere d’arte, almeno centomila, trafugate durante la guerra dai nazisti e mai restituite ai loro legittimi proprietari, tanto più se enti pubblici e amministrazioni statali. A sessantaquattro anni dalla sconfitta di Hitler e dell’esercito tedesco, la pemanenza di una miriade di contenziosi aperti sulla legittimità del possesso e sulle rivendicazioni dei titoli di proprietà, al di là delle vicende civilistiche che evoca, è indice della sussistenza, nel corpo stesso dell’Europa, di cicatrici mai sanate e che, anche per le generazioni a venire, demanderanno ancora ad un passato che «fatica a passare». L’eredità del Novecento si presenta, per ognuno di noi, anche come un fardello oneroso, tanto difficile da affrontare poiché continua a mettere in tensione e in cortocircuito quelli che sono stati gli ideali e le speranze di emancipazione collettiva con le concrete esperienze di sofferenza subite durante quello che è stato chiamato il «secolo breve». Al riguardo, ancora una volta sul Corriere della Sera, si colgano e declinino così le considerazioni di Stefano Bucci. Da ultimo, ma non certo per importanza, il soldato Gilad Shalit (visto che abbiamo appena parlato di una guerra da tempo trascorsa, dove milioni di donne e uomini sono stati ferocemente inghiottiti nella voragine della tragedia totalitaria). Ieri, terzo anniversario del suo rapimento per opera di Hamas, il Consiglio comunale di Roma, con un gesto significativo, che ci sentiamo non solo di condividere ma di corrispondere affettuosamente, ha approvato all’unanimità la mozione con la quale gli è stata conferita la cittadinanza onoraria. Tra gli altri ne parlano il Tempo e
E Polis Roma
. Noi, peraltro, ci impegniamo a continuare a parlare di questo ragazzo, per adesso e per sempre, poiché nella sua vicenda umana ci identifichiamo come esseri umani, volendo che la sua famiglia, i suoi cari sentano la nostra vicinanza non solo formale ma concreta. Nella solitudine dell’indifferenza muore la speranza, nella pluralità delle voci ritorna la vita.

Claudio Vercelli

 
 
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notizieflash    
 
 
Tel Aviv e Ramallah le tappe del concerto di Leonard Cohen    
Tel Aviv, 26 giu
Nella sua prossima tournée il celebre cantante canadese Leonard Cohen (75 anni) ha incluso due concerti: uno per i suoi numerosi fans israeliani, a Tel Aviv, e un altro per quelli palestinesi, a Ramallah. Secondo la stampa odierna, Cohen si esibirà nel campo di calcio di Ramat Gan (Tel Aviv) il 24 settembre e due giorni dopo si recherà in Cisgiordania. In Israele è gia iniziata la vendita dei biglietti per l'atteso concerto di Tel Aviv. La richiesta è molto elevata, anche se nelle stesse settimane Tel Aviv offrirà altri appuntamenti con la musica pop internazionale: due concerti di Madonna e uno di Suzanne Vega.
 
 
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