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L'Unione informa
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27 luglio 2009 - 6 Av 5769 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma |
Nella
stampa, anche ebraica, si fanno in questi giorni degli inviti alla
lettura. E' tempo di vacanze, per molti, e il tempo libero può essere
degnamente usato per leggere. Ma questi giorni, fino a giovedi, sono
per noi speciali, è la settimana del 9 di Av. L'invito alla lettura
allora si trasforma in un invito speciale. Questi sono i giorni da
dedicare alla nostra storia negativa, alle persecuzioni, alla shoà.
Invece di cadere nel tranello e nella malefica e patologica seduzione
di pensare sempre, tutti i giorni, in tutte le possibili giornate della
memoria, al male storico che ci riguarda, concentriamo questi pensieri
in un periodo specifico dell'anno, questo qua. E poi possibilmente
diradiamo quanto è possibile i pensieri cattivi e le memorie
angoscianti. Proposte pratiche? C'è solo il dubbio della scelta. Ma si
potrebbe cominciare con la Guerra Giudaica di Giuseppe
Flavio, nelle parti che raccontano l'assedio di Gerusalemme.
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Quali
sono i libri pericolosi? Non i manuali di esplosivi, non i libri
pornografici, non i libri politicamente eversivi. I testi più
pericolosi, nella storia, sono stati quelli fondativi delle
religioni: per i cattolici, la Bibbia, che anche nella sua
versione ufficiale è stata per molto tempo un testo rischiosissimo, da
controllare attentamente; e poi, contrariamente al Tanach che agli
ebrei era lecito leggere, il Talmud, che nell'Italia dei ghetti la
Chiesa ha bandito per tre secoli. E via discorrendo, a significare che
il rapporto con il sovrannaturale è sempre stato quello più complesso,
più gravido di rischi. Dopo la Rivoluzione francese, che anch'essa con
la religione non aveva certo un atteggiamento tollerante, pensavamo che
si potesse leggere i sacri testi delle religioni senza rischiare la
pelle, tranne che nelle zone di fondamentalismo islamico. Non è così.
Una donna è stata pubblicamente giustiziata in Nord Corea per aver
donato una Bibbia. Le guerre di religione non finiscono mai. |
Anna
Foa,
storica |
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Redazione aperta - Fra ricerca scientifica e una cena a casa Treves con i giovani iraniani
Ospiti del professor
Alessandro Treves (nella foto a fianco), insegnante del corso di
dottorato di neuroscienze cognitive alla Scuola internazionale
superiore di studi avanzati di Trieste (SISSA), due giovani studenti
iraniani, Arash e Atena, condividono con la redazione del Portale
dell’ebraismo italiano il loro appassionato punto di vista su quello
che sta accadendo nella Repubblica islamica. “I brogli sono una
realtà assodata, ci sono troppi elementi che non tornano, in caso
contrario non si spiegherebbe una reazione così forte da parte del
regime“. I guardiani della rivoluzione probabilmente erano consapevoli
che i brogli avrebbero avuto delle conseguenze sull’opinione pubblica,
ma di certo non si aspettavano contestazioni di questa portata; non
avevano calcolato che, negli ultimi decenni, le crescenti possibilità
di accesso all’istruzione universitaria avevano orientato le nuove
generazioni verso posizioni sempre più critiche nei confronti del
regime. In Iran gli universitari sono andati a votare con la
speranza di un rinnovamento, riconoscendo in Mussavi il candidato
riformista con le maggiori possibilità di portare il cambiamento
in un establishment conservatore, il fulcro intorno a cui si sarebbero
concentrate le forze innovatrici. Speranza che si è scontrata con la
volontà del regime di impedire questo mutamento con qualunque mezzo, a
partire dal controllo sistematico dei media per arrivare all’utilizzo
di una violenza immotivata. Mentre nelle nostre televisioni
scorrono le immagini della brutale repressione contro i contestatori,
una domanda ha attraversato le coscienze di molti. L’Europa, il mondo,
possono aiutare l’Iran? Possono fare qualcosa per contribuire alla
risoluzione di una situazione che si fa ogni giorno più complicata?
Atena ci pensa bene prima di rispondere. La domanda non è banale, e sia
lei, che Arash, sono convinti che il popolo iraniano debba prima di
tutto aiutare se stesso, ma c’è un punto che la ragazza tiene a
sottolineare “C’è una questione su cui l’Europa, più ancora che gli
Stati Uniti, può apportare un contributo importante: insistere sul
rispetto dei diritti umani, che oggi nel paese sono drammaticamente
calpestati. Anche Obama su questo aspetto non ha assunto una posizione
forte, forse per non dare adito ad accuse di interferenza.” “Al regime
non serve una scusa per accusare i leader occidentali di interferenza.”
la interrompe Arash, “La realtà viene continuamente mistificata, c’è
chi viene arrestato con l’accusa di aver bevuto alcolici, per avere in
mano una bottiglia d’acqua. I diritti umani sono un terreno scivoloso,
il vero strumento per colpire il regime sarebbe l’interruzione dei
rapporti economici con l’Iran da parte di tutti i suoi partner
occidentali”. Anche se poi entrambi i giovani concordano che è
difficile che questo possa accadere in realtà, “andrebbe contro
l’interesse di troppi”. Poi entrano in gioco ragioni di orgoglio
nazionale, che, secondo loro, giocano un ruolo cruciale anche nella
questione del nucleare. “Penso che la maggior parte della popolazione
iraniana rimanga contraria all’idea di attaccare Israele come continua
ad auspicare Ahmadinejad, ma probabilmente se domandassimo loro quanti
vogliono il nucleare, avremmo una netta maggioranza a favore.” spiega
ancora Atena, “perché pensano che solo così il paese potrà rendersi del
tutto indipendente dal punto di vista energetico e raggiungere uno
status di potenza pari a quello dei molti altri stati che ne sono
dotati. Dobbiamo anche considerare che in Iran una larga parte della
gente rimane a un bassissimo livello di istruzione e perciò del tutto
esposta all’influenza del regime, tanto sul nucleare, quanto nei
sentimenti di ostilità verso Israele. Ma io sono convinta che nel
momento in cui ci sarà un governo diverso e la politica comincerà a
cambiare, anche le posizioni del popolo cambieranno.”
Esiste
un modo per sconfiggere il pregiudizio razziale? Questo il tema
dell'incontro con un’altra docente della Sissa, la professoressa
Raffaella Rumiati (nella foto a fianco), responsabile del settore di
neuroscienze cognitive, che analizza il problema da un punto di vista
scientifico. La Psicologia sociale pone particolare attenzione
alla differenza tra giudizi impliciti cioè inconsapevoli, e giudizi
espliciti, mediati dalla riflessione. Da tempo è infatti nota agli
psicologi la tendenza a mostrare, a livello inconscio, una reazione
negativa nei confronti dei membri di un gruppo etnico diverso da quello
a cui apparteniamo noi. La Neuroscienza, dal canto suo, consente di
indagare tale fenomeno in laboratorio e di scoprire quali siano i
meccanismi neurali che intervengono in questi giudizi, innati, ma non
per questo inevitabili. I ricercatori hanno localizzato
nell'Amigdala, nucleo di sostanza grigia facente parte del lobo
temporale, la sede del giudizio implicito. In uno studio del 2000,
Elizabeth Phelps e collaboratori hanno cercato di identificare i
correlati cerebrali dei pregiudizi razziali impliciti di donne e uomini
europeo-americani nei confronti degli afro-americani. Presentando loro
immagini di volti afroamericani e caucasici, è stato dimostrato come, a
livello implicito, i pregiudizi siano diffusi, mentre tali pregiudizi
non si ripetono a livello esplicito, nel momento in cui i soggetti
studiati hanno modo di mettere in atto una sorta di meccanismo di
autocensura di pensieri, che sono stati educati a considerare
scorretti. Tale risultato cambia totalmente se alle fotografie di
afroamericani sconosciuti vengono sostituite immagini di personaggi
caratterizzati da un'ampia riconoscibilità sociale. La scienza ci
conferma quindi un dato importante: la familiarità con il diverso, la
sua riconoscibilità sociale, riescono a indebolire il pregiudizio. La
redazione ha poi incontrato il professor Claudio Luzzatti,
neuroscienziato dell'Università Bicocca di Milano, dando così un
seguito alla lezione della scorsa settimana a proposito delle teorie
cognitive. Nulla sarebbe comunicabile col mezzo scritto tra gli
uomini se questi non fossero in grado di rielaborare, alla luce delle
pregresse conoscenze lessicali e ortografiche, gli input sensoriali
ricevuti dall'esterno. È quindi importante, per chi scrive, avere delle
conoscenze, anche se elementari, dei meccanismi mentali che sono alla
base delle abilità linguistiche specificamente umane. L'attenzione è
rivolta in particolare allo studio dell'interazione di facoltà
sensoriali e cognitive, condizione indispensabile a consentire la
scrittura e la lettura. È solo il vaglio del sistema cognitivo che
conferisce senso alle nostre conversioni fonologiche o ortografiche, e
che in ultima analisi è condizione necessaria di ogni forma di
comunicazione.
Michael Calimani, Manuel Disegni, Valerio Mieli e Rossella Tercatin
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pilpul |
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Il
senso dell'esilio e la patria portatile
del popolo ebraico
L’esilio sembra essere diventata oramai la
condizione di ciascuno in un mondo dove i confini si fanno sempre più
labili. Si può dire forse finita l’età sedentaria della storia. Le
potenti ondate migratorie che attraversano il globo hanno un risultato
evidente: il sé non coincide più con il luogo, e il luogo non coincide
più con il sé.
I luoghi di nessuno e di tutti sono quei deserti del transito, come
aeroporti, villaggi turistici, asili notturni, alberghi la cui
esistenza non dipende più da un sé radicato. Dall’altra parte si
profila con sempre maggiore chiarezza un sé che non si sente più a casa
in un solo luogo, e che, proprio perché può abitare in molti luoghi,
non si sente più a casa da nessuna parte del mondo.
I filosofi che esplorano la globalizzazione e riflettono sulla
condizione umana nel tempo dell’esilio potrebbero imparare molto da un
precedente fondamentale nella storia: quello del popolo ebraico la cui
“patria portatile” – secondo la famosa espressione di Heinrich Heine –
è un Libro. L’esilio ebraico è stato per secoli una provocazione perché
ha tenuto sotto gli occhi dei popoli l’apparente paradosso e
l’effettivo scandalo di un sé che poteva esistere senza luogo.
Donatella
Di Cesare, filosofa |
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rassegna stampa |
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Fra gli scarsi materiali della rassegna di oggi,
meritano di essere seguite le tracce dell'attività diplomatica
americana. L'ultima intervista di Hilary Clinton, concessa alla NBC e
pubblicata in Italia dalla Stampa, reitera l'offerta di uno
"scudo" ai paesi dell'area mediorientale, che dovrebbe rendere
"inutile" l'atomica iraniana, definita "inaccettabile", dice che solo
gli iraniani possono decidere sul loro governo e cerca di dare
rassicurazioni a Israele. Zakaria Fareed, in un'opinione sul Corriere sui problemi iracheni,
approva invece una politica americana che rappresenterebbe un
"contenimento" della potenza iraniana, come accadde a suo tempo per
l'Urss e anche ora per la Corea del Nord, il che significa
sostanzialmente accettare che il regime iraniano si fabbrichi le sue
armi nucleari e cercare di evitare che possa influenzare troppo i suoi
vicini. C'è insomma una pericolosa ambiguità nei messaggi
dell'amministrazione. Allo stesso modo è ambiguo il senso
della visita in Medio Oriente di Mitchell, che ieri ha visto Assad,
oggi incontrerà Barak e Abu Mazen, domani vedrà Netanyahu (notizie su Repubblica e La Stampa). Con quali obiettivi?
"Rilanciare il processo di pace nella regione," si dice. Ma che cosa
voglia dire concretamente non è chiaro.
Ugo
Volli
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notizieflash
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MO,
oltre trecentomila i coloni nei Territori
Tel Aviv, 27 lug -
Secondo un
rapporto dell'amministrazione militare israeliana in Cisgiordania il
numero dei coloni ebrei in quella regione ha superato nel giugno scorso
la cifra dei 300 mila. Il rapporto sostiene che l'incremento demografico annuale dei
coloni è stato nel 2008 del 2,3 per cento, tre volte quello nazionale
israeliano. Questi dati sono stati divulgati mentre a Gerusalemme i
dirigenti israeliani sono impegnati in colloqui con esponenti degli
Stati Uniti incaricati dal presidente Barack Obama di discutere i tempi
e i modi di un congelamento delle attività di colonizzazione ebraica
nei Territori, allo scopo di rilanciare negoziati di pace con i
palestinesi. Il segretario alla difesa Robert Gates, giunto oggi in
Israele ha dichiarato ai giornalisti: "Penso che che il Presidente
certamente prevede un qualche genere di risposta entro l'autunno, forse
in occasione della Assemblea generale delle Nazioni Unite". Ieri era
giunto per una breve missione George Mitchell (emissario personale di
Obama). Nei prossimi giorni è atteso anche James Jones, il Consigliere
per la sicurezza nazionale. "Gli americani cominciano a comprendere che
la colonizzazione non può essere fermata", ha detto il ministro
dell'industria Benyamin Ben Eliezer (laburista). Per oggi il movimento
dei coloni progetta peraltro a Gerusalemme una manifestazione contro
"il diktat degli Stati Uniti". "Le colonie sono una realtà che non può
essere cancellata" ha affermato un dirigente del movimento. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili.
Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per
concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross.
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