se non visualizzi correttamente questo messaggio, fai  click qui  
 
  logo  
L'Unione informa
 
    7 agosto 2009 - 17 Av 5769  
alef/tav   davar   pilpul   rassegna stampa   notizieflash  
 
Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  roberto colombo Roberto Colombo,
rabbino 
Disse Rabban Shimon ben Gamliel: "Non vi furono giorni festivi per Israel come il quindici di Av e come il giorno di Kippur. In questi giorni le fanciulle di Yerushalaim uscivano con abiti bianchi presi a prestito, per non causare imbarazzo a chi non ne ha”. (Mishnà Ta’anìt cap 4) Con questi abiti le ragazze trovavano il loro marito. Grande è
quella famiglia ebraica che si forma sulla base del rispetto per chiunque. 
A Roma, in quattro hanno pestato a sangue un bengalese, accusato di aver dato fastidio a una ragazza. Tra i quattro, un dodicenne. Possiamo suggerire al ministro Maroni di abbassare ulteriormente l’età per essere ammessi a far parte delle ronde, dai diciotto ai dodici, dati i risultati eccellenti che i giovanissimi (diciamola tutta, i bambini) possono dare in casi come questi? I ragazzini hanno per esempio dato ottima prova di sé negli assalti contro gli ebrei nel Medioevo, basti pensare alla cosiddetta Crociata dei Pastorelli, che nel 1320 distrugge intere comunità ebraiche della Provenza. E poi, sono stati utilmente impiegati nel Novecento nelle guerre, soprattutto in Africa.  Sì, è proprio una buona idea quella di abbassare l’età delle ronde. Voglia di pogrom e populismo, un sapore di déjà vu.
Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
  torna su
davar    
 
  Sotto le stelle con Marga, Anni e gli eroi nella notte
Locarno riaccende i riflettori sui Giusti

retterA Il buio è quasi completo, sulla riva settentrionale del Verbano, quando un sottile raggio bianco taglia l'aria e mette nel mirino l'orologio della torre. Sulla mitica piazza rinascimentale di Locarno, tramutata per 10 mila spettatori in un'immensa sala cinematografica a cielo aperto fra le Alpi e il lago Maggiore, è il momento della prima vera tornata di competizione per la sessantaduesima edizione del Film Festival. La scena fa sognare i cineasti di tutto il mondo e con oltre 300 proiezioni in programma, la macchina del Festival non può permettersi di perdere un minuto. Dopo la serata inaugurale, che ha visto fra i protagonisti l'enfant terrible del cinema israeliano Amos Gitai (lo scorso anno la giuria gli ha consegnato il premio più ambito, il Pardo d'onore e questa volta lui ricambia portando a Locarno la riduzione cinematografica appena uscita dal montaggio della sua ultima regia teatrale portata al Festival di Avignone dedicata alle pagine della Guerra giudaica dello storico Flavio Giuseppe), c'è voglia di passare nel vivo del grande spettacolo. Eppure, nonostante i divi e i grandi nomi del cinema internazionale che affollano la piazza, si torna a parlare di Memoria. Eppure i riflettori trascurano le attrici più amate e le troupe venute a proporre il loro ultimo lavoro. Tutte le luci stanno puntate su due vecchie. Messe assieme fanno quasi duecento anni. Ma quando salgono lentamente la rampa che le conduce al palco, sembrano spinte verso l'alto dall'oceano di applausi che si leva dalla grande piazza. Nessuna incertezza, nessuna paura per Marga Spiegel, 97 anni, che fiera mostra al collo un pendaglio con il simbolo dei rotoli della Torah. Nessun timore per Anni Richter, la sua amica del cuore, di poco più giovane e protagonista di un libro di memorie firmato dalla Spiegel che ha fatto epoca (“Retter in der Nacht”, Difensori nella notte). Il racconto di come una famiglia di contadini della Westfalia salvò lei, la figlioletta e il marito dalla Shoah, lanciando la sfida, dal cuore della Germania, contro l'orrore che sommergeva l'Europa.

Retter bAd attenderle sul palco il regista Ludi Boeken e il direttore artistico Frédéric Maire, gli attori, i produttori di una coproduzione francotedesca che raccontando in modo non artefatto una storia vera vuole rilanciare il dibattito sulla Memoria.
Due testimoni. L'orrore, la dignità umana da riconquistare. Una battaglia per la libertà. Tutta una vita da raccontare.
Il film di Boeken, fedele fino ai minimi dettagli alle memorie dei protagonisti, non cerca gli effetti, non ha bisogno di drammatizzare. Non vuole nemmeno far spettacolo. Quasi il documentario di una vita troppo grande e troppo difficile per essere vissuta, la prima mondiale di “Unter Bauern – Retter in der Nacht” sono cento minuti con il fiato sospeso trascorsi assieme a una manciata di Giusti che passeranno alla storia non solo per aver salvato alcune vite, ma soprattutto per aver scritto con la loro esistenza un terribile atto d'accusa nei confronti di milioni di europei (più ricchi, più colti e più influenti di questi contadini tedeschi), che sapevano tutto, ma non mossero un dito.
Veronica Ferres, che nel film impersona Marga, prende il microfono per ringraziare il pubblico. “Locarno, il festival del cinema non commerciale, è il posto ideale per lanciare un messaggio. La realtà supera di molto la fantasia, l'eroismo della gente comune fa più spettacolo dei supereroi. L'occasione di farci valere come cittadini conta di più di un battaglione di uomini armati”.
La Memoria torna protagonista. Per una volta fa a meno degli artifici hollywoodiani. E' nuda come le immagini senza commento, come le parole che non pretendono replica. Come le esistenze che non richiedono spiegazioni.
Le Memoria torna su uno schermo senza fronzoli e con Unter Bauern finisce in frantumi il mito secondo cui l'opposizione delle gente disarmata ai regimi autoritari è una missione impossibile o riservata a eroi leggendari, lontani dalle figure comuni che ci passano accanto ogni giorno.
Ludi Boeken, ebreo olandese e a sua volta figlio di sopravvissuti salvati da contadini dei Paesi Bassi, mette a frutto per la prima volta a favore del grande pubblico la sua esperienza di regista che fa del rigore il proprio strumento di lavoro. Diplomato alla London Film School e quindi all'Università di Tel Aviv, ha realizzato molti lungometraggi non commerciali e prodotto film indimenticabili come “Vincent&Theo” e “Train de vie”.
In attesa di sapere se un distributore coraggioso si assumerà il rischio di proporre il film anche sugli schermi italiani, il pubblico di Locarno, commosso, stretto sotto le stelle attorno a Marga e ad Anni, gli ha detto grazie per aver portato, senza piegarsi alle leggi dello spettacolo a tutti i costi, ancora una volta i riflettori sul dovere di ricordare e sulla facoltà di scegliere per il bene. E per aver riaffermato che la disfatta del buio dipende da piccoli gesti che tutti noi, se lo vogliano, siamo in grado di compiere.


Guido Vitale

Nelle immagini, Marga Spiegel e Anni Richter assieme al regista Ludi Boeken e alla protagonista di "Retter in der Nacht" Veronica Ferres durante la presentazione del film al Festival internazionale del cinema di Locarno.
 
 
 
  torna su
pilpul    
 
  actusFumetto – Jetlag, a Tel Aviv  non tutti i conigli
escono felici dal cappello del mago


 Jetlag è una antologia di racconti a fumetti pubblicata dalla Toby Press, editore statunitense specializzato nella pubblicazione di autori israeliani e classici dell’ebraismo, nel 2006 sulla precedente edizioni degli Actus Tragicus, etichetta editoriale dello stesso collettivo che ha illustrato i racconti di Keret.
Le storie che crea Keret si adattano magnificamente al fumetto, soprattutto allo stile degli Actus Comics. L’atmosfera onirica, fantastica, surreale delle storie si presta a essere interpretata e visualizzata dalla creatività di un fumettista, soprattutto degli Actus che, pur avendo stili diversi, hanno in comune la ricerca di una linea non banale o realistica, ma al contrario tesa all’interpretazione del reale. I loro segni richiamano le avanguardie artistiche dell’underground statunitense, Charles Burns, come le esperienze italiane dei Valvoline Comics.
Ogni autore ha una sua impronta, il racconto Margolis disegnato da Yirmi Pinkus, presenta l’amore di un bambino per il suo salvadanaio a forma di porcellino, che il padre vorrebbe rompergli per fargli comprare lo skateboard dei Simpson. Il figlio però gli si è affezionato e li ha dato anche un nome, Margolis appunto. Sullo sfondo il rapporto triste tra i genitori. Lo stile di Pinkus dal tratto spigoloso accompagnato da colori tenui ci introduce nel mondo del bambino dove non tutte le situazioni, i rapporti degli adulti sono comprensibili e dove molte immagini vengono archiviare nella mente, ma comprese solo in età adulta. Si vede la madre che non parla mai e esce la sera con un giovane, una donna anziana che in silenzio assiste alle dinamiche di famiglia, un padre esageratamente presente, di quelli che “faccio vedere io al ragazzo come si fa”.

jetlagIn HaTrick di Batia Kolton si raccontano le vicende di un mago che realizza piccoli spettacoli di magia nelle case di Tel-Aviv. Il momento decisivo è quando estrae dal cappello magico un coniglio. I problemi nascono quando una volta esce solo la testa del coniglio con tanto di sangue, e una seconda volta il corpo di un bambino morto. Sono evidenti gli effetti di un cambio di immaginario dei bambini che risultano veramente contenti ed eccitati da tutto quel macabro. Una storia che richiama il Grand Guignol parigino. Per questo motivo lo stile di Batia Kolton arricchisce la storia di un tocco di macabro e irreale che rafforza la guignolità della storia. I volti sono maschere di demoni, volti di esseri disumanizzati che perdono la loro umanità per ridere e compiacersi dell’orrore che li circonda. Il quotidiano che non si scandalizza per la morte di un bambino o di un animale, è un quotidiano disumanizzato. Anche in questo caso lo stile completa e arricchisce la storia di Keret.
Anche le altre storie di questa antologia rasentano il macabro o il farsesco in toni neri e tristi. Quasi come piccoli spettacoli di un circo di cui Keret è il direttore artistico e i fumettisti sono gli acrobati, giocolieri, e domatori di un mondo strano bizzarro, come si diceva macabro. Il punto è che il circo di Etgar Keret è uno specchio dove non vogliamo specchiarci, perché apparirebbero i nostri piccoli orrori, ed è uno specchio che, come tutti i veri specchi di un circo, distorce l’immagine che abbiamo di noi stessi per mostrarci quella vera, quella dell’anima.
Questo fumetto ha avuto anche una candidatura al prestigioso premio Will Eisner Comics Industry Award, mentre la stampa mondiale lo ha accolto trionfalmente.

Jetlag, di Etgar Keret & Actus Comics

Andrea Grilli
 
 
 
  torna su
rassegna stampa    
 
 
leggi la rassegna
 
 

Per una volta partiamo da uno sguardo dall’interno, ovvero rivolto prevalentemente alla situazione del nosto Paese. Ne abbiamo il tempo, prima che gli affanni autunnali e qualche evento-indice ci rubi di nuovo, catalizzandola, l’attenzione. Un informato articolo di Paolo Biondani e Mario Portanova su l’Espresso ci parla infatti della esplosiva situazione nelle carceri italiane. Del prevedibile effetto seguito all’indulto di tre anni fa quando, dopo avere aperto le porte a coloro che vi erano trattenuti, le prigioni italiane hanno ripreso a raccogliere un gran numero di detenuti, già sapevamo, più o meno bene, dalle notizie di stampa che in questi mesi ci hanno distrattamente raggiunti. Non di meno, siamo a conoscenza del fatto che dopo l’espulsione in massa di molte persone che vi erano imprigionate, ora siamo tornati alla originaria situazione che aveva indotto i legislatori a farli uscire repentinamente. Si sta rischiando l’esplosione, in buona sostanza. Le celle sono sovraffolate e la soglia dei “posti” effettivamente disponibili, poco meno di quarantamila (per l’esattezza 39.500), è stata già da tempo abbondantemente superata di ben 24.000 unità. Cosa questo comporti è facile immaginarlo: innumerevoli tensioni, violenze, suicidi così come, più prosaicamente, difficoltà nella gestione della vita quotidiana. Le carceri sono anche (e soprattutto) luoghi di incubazione della devianza, tanto più se ad esservi reclusi sono persone che condividono legami e affiliazioni comuni. Degli oltre 23.000 stranieri trattenuti nelle patrie galere il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia segnala che poco meno di 10.000 sono musulmani (a fronte di circa 8.000 cristiani e 88 ebrei). Non troppo diversamente da quanto successe più di trent’anni fa, quando l’immissione in cella di un elevato numero di detenuti politici fece lievitare le proteste tra i carcerati comuni che, galvanizzati dalla “nobilitazione” che di loro fu fatta dal radicalismo politico, si mobilitarono dando seguito a una lunga e difficile stagione di ribellioni (con occupazioni di interi penitenziari, violenze e così via), oggi la questione della corposa presenza di reclusi connotati da una appartenenza religiosa, intesa e declinata come identità etnico-politica, sta creando le premesse per future tensioni. Per gli islamici il carcere (nel quale finiscono, oltre che per reati comuni, a partire da quelli legati allo spaccio delle droghe, anche per la militanza nei movimenti terroristici) è spesso vissuto come la concreta manifestazione di una persecuzione religiosa. I trattamenti di massima sicurezza riservati ai soggetti più pericolosi sono da questi denunciati come vere e proprie torture comminate in ragione del loro credo. Il dato più inquietante non è mai la protesta del singolo recluso (che in particolari condizioni può anche trovare un qualche fondamento) ma il fatto che ancora una volta, come in un film già visto, questa solleciti le fibrillazioni dei suoi compagni di detenzione, che identificano così - per mezzo di essa - un elemento di autolegittimazione dei loro comportamenti, molto spesso di quelli stessi che li hanno condotti direttamente in galera. In altre parole, l’islamismo jihadista e salafita, quello dei radicali duri e puri, sta sostituendo il brigatismo comunista e quello neofascista nel coalizzare la protesta anche tra i detenuti abituali. Da ciò derivano due ordini di considerazioni: il primo è che l’autunno sarà di nuovo caldo per le nostre prigioni (cosa che non vedevamo da lustri); il secondo, e dovrebbe indurci a riflettere, è che ancora una volta l’integralismo islamico è divenuta l’ideologia dei «dannati della terra», la mitologia sociale alla quale fare richiamo quando ci si considera oppressi dalle circostanze come dagli uomini. Se non si prende in considerazione il potenziale di mobilitazione che questa esprime ben poco si può capire del perché continui ad avere un così nutrito seguito, alla faccia di chi a suo tempo celebrò la «fine della storia» così come la «morte delle ideologie».  Detto questo, spostiamo ora il baricentro dell’attenzione e rivolgiamoci ala scena mediorientale. Fatah è andato faticosamente e stancamente a congresso, in quel di Betlemme. Lo ha fatto nel nome di una rivoluzione, quella sociale, che non c'è più, neanche nelle pallide speranze degli illusi, dei velleitari dell’ultima ora, dei narcisi della barricata non meno che invocando uno Stato che non c'è mai stato, che tarda a venire e che forse mai ci sarà. La nazione palestinese, che pure esiste, osserva perlopiù distratta quello che potrebbe essere il capitolo di una lunga e dolorosa agonia. Ne fa un primo bilancio Riccardo Radaelli per Avvenire, sottolineando la sostanziale inconsistenza degli iniziali esiti dell’assise. Peraltro da essa, in una sorta di banale ancorché offensiva litania, sono partiti strali contro Israele, così come ci raccontano Europa, il Giornale, la Stampa e la Repubblica. In un ridicolo empito unitario, un congresso altrimenti diviso su tutto ha approvato all’unanimità una mozione nella quale si indica in Gerusalemme il mandante della morte di Yasser Arafat. Per meglio dire, la formula adottata attribuisce a Israele «in quanto potenza occupante, l’intera responsabilità per l’omicio del martire». Il linguaggio ancora una volta tradisce la condizione di grave stallo in cui versa il movimento «moderato» e «laico», che sta ancora celebrando la faida con i “parenti/serpenti” di Hamas. Fatah, il cui nome significa, a detta di certuni, «giovane» (ma che è anche e soprattutto l’acronimo inverso di Falstin Tahrir Harake, ossia «Movimento di liberazione palestinese» e che demanda, nei suoi significati impliciti, all’idea di «apertura», cioè alla conquista araba dopo la morte di Maometto, in un’ottica egemonica che mai è venuta meno), è il partito che fondò un allora per davvero giovane Yasser Arafat. Era il lontano 1959 e l’intenzione era quella di dare una scrollata alla politica palestinese, completamente soggiogata ai voleri delle grandi famiglie e ai calcoli d'intesse dei paesi arabi. In una decina d'anni Fatah divenne l'azionista di maggioranza nella Organizzazione per la liberazione della Palestina, costituita dal notabiliato gattopardesco mediorientale per discutere di tutto affinché nulla mutasse. Arafat la traformò in un movimento politico, capace di imporsi all'attenzione dell'Occidente e, soprattutto, dei media internazionali, usando il ricorso alla lotta armata come una sorta di strumento per tenere costantemente orientata l’attenzione su di sé e la sua fazione. Gli anni sono passati, il Rais di Ramallah è trapassato ma Fatah rimane. O ne rimane l'icona, sarebbe meglio dire. Delle divisioni che il congresso, il primo ad essere celebrato dopo vent’anni di silenzio, ha evidenziato (soprattutto della contrapposizione irricomponibile tra il vecchio notabiliato, i «giovani» che si raccolgono intorno a Marwan Barghouti e l’ala militarista) avremo ancora modo di discorrere poiché gli effetti delle scelte (o delle non scelte) in campo mediorientale si misurano nell’arco del lungo periodo. Quel che è certo è che Fatah rivela la sua difficoltà nel continuare a proporsi come protagonista della scena locale. Nessun auspicato ricambio generazionale si consumerà, mentre Abu Mazen, “oca azzoppata” della politica palestinese, massimo esponente di un potere autoreferenziato, stretto d’assedio a Ramallah dai suoi stessi sostenitori, continuerà a campeggiare, osservando dalla collina la disfatta delle sue truppe ma ripetendosi che il “morale è alto e il rancio è buono”. Da ultimi, nella rassegna di oggi, segnaliamo sia l’articolo di fondo, al solito decisamente critico nei confronti di Gerusalemme, di Sandro Viola per la Repubblica, dedicato a «Israele e l’America di Obama», che il reportage di Roberto Bongiorni per il Sole, dedicato ai difficili rapporti tra un anziano palestinese e le famiglie di un insediamento ebraico a Gerusalemme Est.

Claudio Vercelli

 
 
  torna su
notizieflash    
 
 
Da Ekev a Ree                                                                                           
                                                              
Il commento del Rav Riccardo Di Segni apparso nell'Aleftav pubblicato ieri faceva riferimento alla Parashà di Ree ed è apparso per errore nella settimana dello Shabbat precedente, dedicato alla Parashà Ekev. Ce ne scusiamo con l'autore e con i lettori.

MO - Secondo un rapporto di Human Rights Watch,
il lancio di missili di Hamas è un crimine di guerra
Gerusalemme, 7 ago -
Un rapporto di 31 pagine dell'organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw), afferma che il lancio di missili dalla Striscia di Gaza contro obiettivi civili israeliani rappresenta un crimine di guerra. Il rapporto ha esaminato il lancio di razzi fra il novembre 2008 e il gennaio 2009, cioè giusto prima e durante l'operazione militare israeliana "piombo fuso" nella Striscia di gaza."Gli attacchi missilistici di Hamas diretti ai civili israeliani sono illegali e ingiustificabili, e rappresentano crimini di guerra"- afferma Ian Levine, dirigente di Hrw - come autorita' di governo a Gaza, Hamas deve rinunciare pubblicamente agli attacchi missilistici contro i centri abitati israeliani e punire i responsabili". "Le forze di Hamas -continua - hanno violato le leggi di guerra sia lanciando missili deliberatamente e indiscriminatamente contro le città israeliane che lanciandoli da aree popolate mettendo a rischio i civili di Gaza". Durante il periodo preso in considerazione, dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati migliaia di missili verso Israele, che hanno causato la morte di tre civili, il grave ferimento di decine di altri e danni alle proprietà, oltre ad aver costretto la popolazione a lasciare le proprie case. Missili caduti dentro Gaza hanno ucciso due ragazzine palestinesi e ferito altri civili. Questo è il quinto rapporto dedicato all'invasione israeliana scattata il 27 dicembre e Hrw, ricordando di aver documentato violazioni delle leggi di guerra compiute dalle forze israeliane a Gaza, sottolinea che "le violazioni di una parte in conflitto non giustificano mai le violazioni dall'altra".

Haifa, uomo chiede il divorzio perché la moglie,
dopo un corso di coaching, lo riduce in schiavitù
Haifa, 7 ago -
Una singolare richiesta di divorzio è stata formulata da un marito israeliano che accusa la moglie di schiavizzarlo applicando in casa i metodi di duro allenamento per migliorare le prestazioni fisiche e mentali, appresi durante un corso di 'coaching'.  "Mi ha ridotto in schiavitù, sono al suo servizio" si lamenta l'uomo di Haifa nella domanda di divorzio presentata al Tribunale rabbinico, secondo quanto riferisce il quotidiano Maariv. "E' diventata ancora più autoritaria dopo aver seguito uno stage di 'coaching'", precisa il marito riferendosi al severo allenamento personalizzato, molto diffuso tra gli aspiranti leader, volto a sviluppare le potenzialità del corpo e della mente. La pratica, ispirata al mondo sportivo, ha riscosso notevole successo in Israele.
 
 
    torna su
 
L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili.
Gli utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste, in redazione Daniela Gross.
Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”.