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    17 agosto 2009 - 27 Av 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Il brano profetico "consolatorio" che abbiamo letto questo sabato come haftarà è preso dal cap. 54 di Isaia. Al verso 17 è detto: "ogni strumento costruito contro di te non avrà successo e ogni lingua che sorgerà contro di te in giudizio la renderai colpevole". Già nell'antichità lo strumento militare delle armi non era considerato sufficiente per attaccare l'avversario, ma doveva essere accompagnato dalla "lingua", una buona dose di propaganda diffamatoria. Il profeta Isaia ci assicura che né l'uno né l'altro avranno successo. Speriamo.
Sto leggendo il Diario di Hélène Berr. Ebrea francese, studentessa di letteratura alla Sorbonne, Hélène fu deportata ad Auschwitz nel 1944, e poi a Bergen Belsen dove morì poco prima della liberazione del campo. Come Anna Frank, a cui somiglia nel volto che ci appare nelle vecchie foto riprese nel libro. E come Ettie Hillesun, Hélène si prodigò, tanto nel campo di raccolta di Drancy tanto a Parigi prima della deportazione, nell’aiutare i più deboli del suo popolo martoriato, vecchi, bambini. Il suo diario, pubblicato in Francia e poi in molti altri paesi (in Italia, da Frassinelli), dopo essere stato chiuso per sessant’anni in un cassetto, è un testo bellissimo, scritto con grande vivacità, pieno di poesia e di immagini di vita. Mi hanno colpita più di ogni altra cosa le pagine che Hélène, ancora libera nella sua Parigi, dedica ai momenti in cui è costretta ad attaccare ai suoi vestiti la stella gialla, a girare con quel segno d’infamia addosso, che la isola e la separa dai suoi simili, che la relega nell’ultima carrozza del metro. “Ho tenuto la testa alta e ho guardato dritta in faccia le persone finché non hanno abbassato gli occhi. Ma è stato duro”. Era il 9 giugno 1942.  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Il Cinema indipendente, i sortilegi della Massada di Amos Gitai
e i veleni dei filmati di guerra che giocano sulle emozioni 
  

Piazza grandeC'è ancora spazio per il cinema indipendente, per le produzioni concepite fuori dai confini dei grandi studiosi? E c'è ancora spazio per esprimere culture minoritarie, storie fuori dal comune, pellicole che non riempiranno mai le grandi sale? Il Festival del Film di Locarno che ha appena chiuso i battenti ha dato una risposta vivace alla crisi di idee e di risorse economiche che flagella l'industria cinematografica e alle sfide poste dalle grandi mutazioni tecnologiche.
Da un punto di vista ebraico, non sono mancati momenti significativi e occasioni stimolanti. Ma anche occasioni di riflettere come la grande macchina dello spettacolo continui a creare mostri pericolosi che forniscono una visione distorta soprattutto della situazione mediorientale.
La proiezione in Piazza Grande davanti a 10 mila persone di Unter Bauern - Retter in der Nacht dell'ebreo olandese Ludi Boeken, che racconta la storia di Marga Spiegel, ebrea sopravvissuta alla Shoah grazie alla resistenza spontanea di una famiglia contadina della Westfalia. Marga 97 anni e Anni Richter, la sua amica del cuore, di poco più giovane e protagonista di un libro di memorie firmato dalla Spiegel che ha fatto epoca, sono salite sul palco del Festival per regalare all'immensa sala a cielo aperto un'emozione tutta particolare.
Un piccolo dono prezioso, che testimonia, se ci fosse ancora bisogno di conferme, della vitalità del nuovo cinema israeliano, è venuto dallo “Siyur Mudrach” del ventottenne Benjamin Freidenberg, prodotto dalla celebre Sam Spiegel Film & TV School di Gerusalemme e interpretato da Shir Shenar, Isaac Shwartz, Assia Vilenkin, Alfred Roitberg, Benjamin Abraham e Billal Awawi.
Poche sequenze per raccontare di Eitan, che vive solo a Gerusalemme. Il suo lavoro consiste nel tracciare linee bianche sulle strade della città. Tra immaginazione e realtà, l’uomo cerca di rompere gli schemi del suo isolamento.

GitaiMa a testimoniare di una cinematografia aspra, difficile, talvolta geniale, altre volte difficilmente digeribile, ha pensato l'enfant terribile del cinema israeliano, Amos Gitai (nell'immagine a fianco), che l'anno dopo aver ricevuto un Pardo d'onore sulla piazza nella passata edizione, è tornato portando il suo lavoro più difficile: una riduzione filmata della versione teatrale della “Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre” tratto dai testi dello storico romano Flavio Giuseppe e andato in scena al Festival teatrale di Avignone solo pochi giorni prima.
Spettacolo impossibile e insostenibile (ovviamente siamo a Massada, con tutte le ammonizioni e le allusioni di un provocatore di professione e di un artista dalla genialità farneticante che ci possiamo attendere). Ma tutto sommato anche in questo caso appuntamento importante per comprendere quello che la cultura degli israeliani proietta verso l'esterno e che il mondo esterno vuole raccogliere. Ad Avignone lo hanno definito un oratorio polifonico di lingue e di destini. Proiettato sullo schermo rischia forse di perdere un poco della grandiosità della tragedia greca che Gitai ha voluto mettere sotto i riflettori sul palcoscenico. Ma se il titanismo dello spettacolo caleidoscopio, dove tutte le lingue, tutte le arti, tutti i destini di tutti i popoli che hanno fatto le civiltà del Mediterraneo sono costretti al confronto e al conflitto, resta in ogni caso una preziosa testimonianza di un'intelligenza scomoda e fuori dal comune.
Note dolenti, che sarebbe un grande errore ignorare con sufficienza, invece, sul lavoro di un altro premiato, il documentario televisivo di Stefano Savona dedicato all'operazione militare su Gaza dello scorso gennaio e intitolato “Piombo fuso”. Il filmato (realizzato in collaborazione con il corrispondente di Repubblica Guido Rampoldi), che sarà trasmesso dalla terza rete della Rai a breve, è stato realizzato sulla base di materiale girato all'interno d Gaza nei pochi giorni delle operazioni mirate a fermare il continuo lancio di razzi sulla popolazione civile israeliana.
Savona, che non è nuovo a imprese del genere, è riuscito a penetrare nella Striscia mentre molti altri reporter sono stati tenuti a distanza per motivi di sicurezza. Le sue immagini, apparentemente imparziali, ma ovviamente (e come poteva essere altrimenti) dolorose, suggestive e suggestionanti, si susseguono senza commenti. Chi ha una conoscenza anche solo parziale della situazione reale, chi ha preso visione delle migliaia di missili criminalmente lanciati per anni e anni contro la popolazione civile israeliana dai terroristi palestinesi (che nessuno ovviamente si è preso la briga di filmare), potrà forse trarvi qualche motivo di ulteriore conoscenza. Ma il grande pubblico non farà altro che cercare appigli e conferme alle ricette pronte e ai pregiudizi, a una ripartizione di fantasia dei torti e delle ragioni. Quando lo spettacolo pretende di fare informazione e di distribuire giudizi riesce solo, purtroppo, a manipolare rozzamente le emozioni.
Certo, solo una pellicola sulle oltre 300 in programma al Festival, ma non a caso una delle premiate. E non a caso una delle più amate da certa stampa italiana, che va continuamente a caccia di pezze d'appoggio per puntellare vecchie tesi precostituite.
Il Festival di Locarno, intanto, si è concluso con la vittoria della regista e scrittrice Xiaolu Guo, Pardo d’oro 2009 per She, A Chinese. La sessantaduesima edizione ha risentito della difficile congiuntura economica degli ultimi mesi, anche se le ripercussioni sono state minori del previsto. Le presenze sono diminuite del 12,7% (con un totale di oltre 157 mila spettatori). Un segnale ancora per confermare che il cinema indipendente, i film prodotti dalle piccole realtà, dalle etnie e dalla culture minoritarie, sono importanti per comprendere come si muove il mercato culturale globale, ma anche come evolvono i gusti del pubblico e di coloro che alla creazione dedicano le loro energie.

Guido Vitale
 
 
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  Donatella Di Cesare"Le affermazioni di Benedetto XVI sul nazismo
mettono in grande imbarazzo proprio i tedeschi"

 

In un’intervista rilasciata il 9 agosto a La Stampa, e ripresa dal Portale dell'ebraismo italiano moked.it, Rav Riccardo Di Segni ha giustamente sottolineato che, per quanto Benedetto XVI torni a parlare della Shoah, e a condannare il nazismo, lo fa tenendo separata la responsabilità dei tedeschi da quel che è accaduto. Come se dunque “una banda di delinquenti” – così Di Segni – avesse tenuto in pugno tutta la nazione. Questa tesi, più o meno implicitamente sostenuta dal Papa, è più diffusa di quanto non si ammetta. E affiora ogni volta che si parla, a esempio, di “follia” del nazismo. Ricondurre il nazismo alla follia di uno, o al crimine di pochi, vuol dire evidentemente ridurne la portata.

È questo d’altronde l’obiettivo perseguito dallo storico tedesco Ernst Nolte, il maggiore rappresentante del “revisionismo”. In un articolo intitolato Il passato che non vuole passare, pubblicato nel 1986, Nolte ha presentato i crimini nazisti come una reazione a quella che ha chiamato la “barbarie asiatica” del bolscevismo; minacciata di annientamento, la Germania avrebbe reagito decidendo di “eliminare” gli ebrei ritenuti colpevoli del comunismo e comunque “elemento destabilizzatore” dell’Europa. L’interpretazione di Nolte è stata attaccata a chiare lettere dal filosofo Jürgen Habermas in un articolo pubblicato l’11 luglio del 1986 nel settimanale Die Zeit. Ne è nato un grande, talvolta feroce, dibattito – chiamato Historikerstreit – che lascia aperti i baratri che dividono i tedeschi. La riunificazione non ha voltato pagina e lo scontro sulla Shoah resta in Germania un elemento di ridefinizione dell’identità tedesca.

Le polemiche suscitate dal libro di Daniel J. Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler del 1996, l’impatto della mostra organizzata dall’Istituto di scienze sociali di Amburgo dedicata ai crimini commessi dalla Wehrmacht, l’acceso confronto avvenuto nel 1998 tra Ignaz Bubis, allora Presidente dello Jüdischer Zentralrat (l’Unione delle comunità ebraiche tedesche) e lo scrittore Martin Walser a proposito dell’utilità di ricordare Auschwitz, indicano con chiarezza che in Germania il nazismo è un passato che non passa. Almeno finché non ci si interrogherà davvero sulle effettive responsabilità del popolo tedesco.

Come molte indagini hanno messo in luce, in Germania l’opinione pubblica era al corrente di quanto stava accadendo. I convogli dei deportati attraversavano le città tedesche. La popolazione non conosceva e forse neppure condivideva il progetto nazista di sterminare gli ebrei d’Europa; ma certo era al corrente dei massacri e accettava – anche sommessamente – l’esclusione degli ebrei e la loro progressiva, definitiva scomparsa.

Nel 1946 il filosofo Karl Jaspers, rimasto per anni a Heidelberg sotto sorveglianza della Gestapo perché aveva sposato un’ebrea, pubblicò il libro La colpa della Germania. Tra le rovine della guerra auspicava un “atto di contrizione” dei tedeschi, che avrebbero dovuto assumere anche “le colpe dei padri”, si augurava che proprio la “colpa” sarebbe stata il fondamento della nuova identità tedesca. Ma si sbagliava. Perché nel dopoguerra i tedeschi presero piuttosto a considerarsi vittime. Lo dimostra la storia della cosiddetta “denazificazione”, voluta dagli alleati e subita dai tedeschi. Certo le cose sono cambiate in seguito. E le nuove generazioni, a partire dal 1968, hanno voluto capire, interrogare e interrogarsi.

Ma si intuisce facilmente perché le affermazioni di Benedetto XVI sul nazismo mettono in grande imbarazzo proprio i tedeschi (basterà ricordare le decise prese di posizioni di Angela Merkel e le critiche veementi, ma anche ben articolate e motivate, che riempiono la stampa tedesca). Com’è possibile parlare della Shoah ancora in questi termini? Com’è possibile pensare che si sia solo trattato di una “negazione di Dio”, di una ideologia anticristiana? Come se tutto si risolvesse nel condannare il “nichilismo” o il “relativismo”, termini ambigui per indicare la pattumiera in cui versare sbrigativamente i peccati di ieri e quelli di oggi. E i peccati dei cristiani? E le responsabilità della Chiesa?

Donatella Di Cesare, filosofa 
 
 
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Una piccola notizia viene dal riconteggio dei voti del congresso di Fatah a Betlemme: fra gli eletti del comitato centrale dell'organizzazione vi è anche un israeliano ebreo di origine britanniche, Uri Davis, naturalmente favorevole alla "resistenza palestinese" e alla lotta armata (Rolla Scolari sul Giornale). Non è solo una bizzarria, è un esempio di quanto lontano possa portare l'"odio di sé" di una parte piccola ma non insignificante del popolo ebraico. Da leggere ancora sulla conferenza un'intervista autoelogiativa di Erkat, negoziatore capo dell'Autorità Palestinese, eletto nella nuova direzione dell'organizzazione (L'Unità). Il Jerusalem Post mette in guardia dalla "Berghouti-mania" che si è scatenata dopo la conferenza: liberare il dirigente palestinese condannato per cinque omicidi significherebbe premiare le tendenze più regressive del congresso.
Sempre dal Medio Oriente, c'è ancora qualche eco dello scontro armato che ha opposto l'altro ieri nel sud di Gaza Hamas e un gruppo forse vicino ad Al Queida (Guido Olimpio sul Corriere), ma secondo Hamas forse finanziato da Fatah.
Fra le notizie da casa nostra (e dintorni), diversi giornali (per esempio Roberto Nepoti su Repubblica), citano il premio che il festival di Locarno ha assegnato a "Piombo fuso", documentario di Stefano Savona, a quel che si capisce con un accentuato carattere anti-israeliano.
 
Ugo Volli 

 
 
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Israele: il quotidiano Maariv attacca Joe Stork,                       l'autore del rapporto del Human Rights Watch
Tel Aviv, 16 ago -
"Occorre portare alla luce le radici ideologiche di una parte dei dirigenti del Human Rights Watch ed esigere che quella organizzazione espella quanti sostengono il terrorismo e l'odio verso Israele", così l'editorialista del quotidiano israeliano Maariv, Ben-Dror Yemini, motiva il suo duro attacco all'attendibilità del più recente rapporto del Human Rights Watch. In questo rapporto l'esercito israeliano è stato accusato di aver ucciso undici palestinesi di Gaza che esponevano bandiera bianca. Un'intera pagina del giornale è dedicata alla formazione ideologica dell'autore del rapporto Joe Stork, vice-direttore del Human Rights Watch per il Medio Oriente. Maariv sostiene che Stork, negli anni Settanta, ebbe parole di elogio per la strage degli atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco (1972), e aggiunge che in quegli anni Stork era dirigente del gruppo di estrema sinistra (Merip), secondo cui quella strage aveva "dato un importante impulso morale ai palestinesi dei campi profughi". Nel 1976, ancora secondo il quotidiano israeliano, Stork accettò un invito del presidente iracheno Saddam Hussein per celebrare il primo anniversario della dichiarazione delle Nazioni Unite che qualificava il sionismo come una forma di razzismo.

Al Fatah, Uri Davis: "Non chiamatemi israeliano"
Tel Aviv, 16 ago -
"Sono un palestinese di stirpe ebraica ('Ivrì ', in ebraico), antisionista, cittadino dello stato di apartheid di Israele nonché del Regno Unito della Gran Bretagna, che è una monarchia costituzionale", così Uri Davis, professore di antropologia, nominato membro del Consiglio rivoluzionario di Al Fatah, si definisce in un'intervista rilasciata alla radio militare israeliana. Non ama essere qualificato come israeliano anche se il suo passaporto lo contraddice. Davis infatti è nato a Gerusalemme in una famiglia di ebrei sionisti immigrati dall'Europa negli Anni Trenta. In seguito avrebbe maturato una ideologia fortemente antisionista che lo avrebbe portato dal piccolo gruppo israeliano di ispirazione trotzkista 'Matzpen' fin nelle fila di Al-Fatah. Attualmente insegna in una università britannica e in una palestinese. Alla radio militare Davis ha comunque confermato di non essere più ebreo. Un anno fa, per sposare una donna palestinese, si è fatto registrare come musulmano dal ministero israeliano degli interni. Ma oggi - ha chiesto la radio militare - Uri Davis è favorevole alla lotta armata dei palestinesi contro la occupazione israeliana in Cisgiordania ? "Al-Fatah - ha risposto il professore - non fa appello alla lotta armata, ma si limita a rilevare che quella è una opzione legittima per i popoli sottoposti a occupazione militare e a pulizia etnica". Davis non è l'unico israeliano ad aver raggiunto posizioni di responsabilità ai vertici di al-Fatah. Negli anni Ottanta l'israeliano Ilan Halevi fu attivo in quel movimento a Parigi. Negli anni Novanta inoltre un rabbino ortodosso antisionista, Moshe Hirsch, fu scelto da Yasser Arafat come ministro per le questioni ebraiche nel primo governo dell'Autorità nazionale palestinese.
 
 
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