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L'Unione informa
 
    21 agosto 2009 - 1 Elul 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Roberto Colombo Roberto
Colombo,
rabbino
“Non arare un campo mettendo assieme un bue e un asino”. (Torà) “Da ciò si ricava che non è bene far lavorare assieme uno stupido e un intelligente”. (Chinukh) In caso contrario il lavoro non darà frutti non per colpa dello stupido ma dell’intelligente che a causa della boria che gli deriverà dal confronto con l’altro farà delle probabili sciocchezze. (Rebbe di Nemirov) 
E così, alla fine, gli afgani sono andati in molti a votare, nonostante le minacce dei talebani e gli attentati. In particolare le donne, le più minacciate. Le vediamo nelle foto, donne in burka e donne coperte solo dal velo, con il viso completamente scoperto, tutte insieme in fila ai seggi. Donne che esibiscono alto davanti al fotografo il dito macchiato di inchiostro indelebile, lo stesso dito che i talebani hanno minacciato di tagliare a quanti fossero andati a votare. Donne a viso scoperto dallo sguardo diretto e orgoglioso, o coperte dal burka, che copre loro il volto e lo sguardo ma non l’orgoglio del gesto. Nell’Afghanistan martoriato e tribale, ci vorrà forse molto tempo, ma alla fine la salvezza verrà dalle donne, da queste o dalle loro figlie e nipoti.  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Dudu TopazDudu Topaz, celebre presentatore israeliano,
muore suicida in carcere


Tragedia nel mondo dello spettacolo israeliano. David Goldenberg, in arte Dudu Topaz, celebre presentatore televisivo, si è infatti tolto la vita nella giornata di ieri nel carcere di Ramla. Topaz era stato arrestato nel mese di maggio, dopo aver confessato di avere pagato alcune persone per minacciare il suo agente, la produttrice e l’amministratore delegato del canale televisivo in cui lavorava. Colpevoli, secondo Topaz, di avere cancellato dal palinsesto televisivo il suo programma. Una carriera, quella del presentatore, che si stava avvicinando al declino, dopo che era stato uno dei volti più celebri della televisione israeliana. Nato ad Haifa nel 1946, aveva studiato recitazione a Londra. Tornato in Israele, dopo completato il servizio militare, aveva iniziato la carriera di attore in un teatro della sua città natale. La prima esperienza televisiva di Topaz fu la partecipazione ad un programma educativo, nel quale insegnava la grammatica inglese ai telespettatori. Dopo il successo ottenuto grazie ad alcuni sketch comici trasmessi nelle televisioni locali, divenne noto al grande pubblico all’inizio degli anni Ottanta, quando gli fu affidata la conduzione di uno show sul Canale 1. La consacrazione definitiva avvenne nel decennio successivo, grazie al programma di intrattenimento “Rashut Habidut”, considerato uno degli show di maggior successo nella storia della televisione israeliana. Nel 1981 aveva destato scalpore nell’opinione pubblica un suo intervento durante una manifestazione del partito laburista a Tel Aviv (nella piazza che sarebbe poi diventata Kikar Rabin). Topaz, rivolto alla folla, si era detto contento di non vedere in mezzo ai manifestanti persone provenienti dall’Europa dell’Est. Una provocazione, si sarebbe giustificato successivamente. Anche se non era più in televisione da un paio di anni, era ancora molto amato dal pubblico israeliano. Si sarebbe potuto accontentare di vivere una vecchiaia serena e priva di preoccupazioni economiche, ma non riusciva a vivere lontano dai riflettori. “Era malato di narcisismo”, secondo i suoi detrattori. Così ieri mattina alle sette è stato trovato dalla guardia carceraria, impiccato alla doccia della prigione, l’unica zona dell’istituto penitenziario non sorvegliata da telecamere. Il guardiano, una volta scoperto il corpo senza vita, ha chiamato lo staff medico del carcere, che ha provato inutilmente a rianimarlo per più di un’ora. Non si trattava del primo tentativo di suicidio per Topaz, che aveva già provato ad uccidersi all’inizio del mese di giugno, quando si era iniettato nelle vene una dose eccessiva di insulina. Il direttore della prigione aveva allora deciso di spostarlo in una cella di massima sicurezza, sorvegliata notte e giorno. Ma è stato inutile. Sconvolto il fratello di Topaz, al quale è toccato il triste rito del riconoscimento del corpo del defunto. “Ero andato a trovarlo ieri. Stava male, come al solito. Ma non sembrava che avrebbe cercato di uccidersi nel giro di poche ore.” Molto polemiche le dichiarazioni di Zion Amir, avvocato del presenttatore: “Avrebbe dovuto essere rinchiuso in un ospedale o in un istituto psichiatrico, non in prigione. L’avevo detto anche ai giudici che lo stavano processando, la sua vita in carcere sarebbe stata in forte pericolo”. Un indagine sulle cause del decesso (anche se non ci sono molti dubbi che si tratti di suicidio) è stata immediatamente predisposta. 


Adam Smulevich 
 
 
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  Ebreo di New YorkFumetto - L’ebreo di New York di Ben Katchor

Nel 1830 Mordecai Noah cercò di fondare uno stato ebraico a Buffalo. Noah era nato a Philadelphia nel 1785, giornalista, diplomatico, saggista, riteneva che gli indiani d’America fossero una delle dodici tribù d’Israele. Ben Katchor è nato a Brooklyn nel 1951. Opera sia nel mondo del fumetto che teatrale, con le scene dell’opera teatrale The Carbon Copy Building, insignita dell’Obie Award come “miglior nuova produzione 1999-2000”. Le sue opere fumettistiche sono pubblicate a puntate sui maggiori giornali statunitensi. Di particolare interesse è il blog grafico curato sulla rivista on line Slate nel 1997.

Nel 1998 per i tipi della Bantam Books esce questo fumetto, L’ebreo di New York, che la Mondadori ha proposto nella traduzione di Daniele Brolli. Si tratta di una intreccio di personaggi ebrei sullo sfondo degli Stati Uniti della metà del 1800. Personaggi di varia natura, di professioni diverse, che tessono una serie di racconti che si ricollegano alle teorie di Noah sugli Indiani d’America.

La storia centrale è quella di un uomo Nusin Khison che vive per quasi cinque anni con un cacciatore di pelli, che poi si scoprirà anche lui essere ebreo. L’uomo tornato a New York viene confuso per un indiano che parla in ebraico e si esibisce in un teatro della città. Questa presenza di indiani che sembrano essere di origine ebraica genera l’attenzione di molti ebrei newyorchesi, commercianti, linguisti, inviati dalla comunità ebraica tedesca. Ma in questo intreccio si presenta anche un uomo, Francis Oriole, che vuole trasformare in acqua frizzante il lago Erie e cerca finanziatori, tra i quali troviamo un nunzio palestinese che porta con sè un sacco di terra santa. Nel frattempo l’inviato della comunità ebraica tedesca, vestito da sub, legge brani di un libro dove si sostiene l’origine ebraica degli indiani d’America.

Confusi? Beh la storia è questo intreccio incredibile di racconti, flashback, incontri di uomini che sono sempre dinamici, attivi, pronti a fare qualcosa, perché infondo gli USA sono una terra di opportunità, a volte legali a volte no. Ben Katchor ripercorre così, secondo un sentiero tortuoso, ma avvincente, le speranze di uomini che cercavano una terra nuova dove prosperare senza progrom, dove si potesse più pensare a una vita tranquilla fatta di sacrifici, piuttosto che morte e distruzione.

KatchorKatchor (nell'immagine a fianco) ha dichiarato sulla rivista on line The New Jersey Jewish News di non sentirsi legato al mondo ebraico, con la cultura ebraica ha una relazione storica: “For me, Jewish culture is a piece of history rather than part of the modern world I live in.” Questa sensibilità storica appare ben chiara ne L’ebreo di New York, dove gli intrecci storici, spesso parziali e insignificanti nel contesto generale della Storia degli Stati Uniti, insaporiscono però le tavole e ci mostrano quella storia degli uomini comuni, che poi sono loro a fare realmente la storia della società civile.

Lo stile di Katchor è “in miniatura”, le vignette sembrano fotogrammi di un film, che racconta le vicende solo dei personaggi comprimari, quelli di cui non si ricorda mai il nome. E’ significativo il suo stile, gli spazi sono occupati da linee nere ben impresse nel foglio che determinano le figure su un piano bidimensionale, un bianco e nero piatto, se non che, come nello stile dei primi anni sessanta, una serie di pennellate o macchie d’acquarello danno tridimensionalità alle figure. Katchor ha la particolarità di lavorare per i quotidiani statunitensi proponendo uno stile che tutto ha tranne una proposta grafica semplice e lineare. L’occhio del lettore si educa a leggere gli effetti di pienezza e sfumatura tipica del fresh painting danno il senso di non trovarsi di fronte a una banale rappresentazione di una storia. D’altra parte proprio Katchor, sempre nell’intervista al The New Jersey Jewish News, spiega che “images are a corrective to the text, and the text is a corrective to the image. When you deal with one alone, there’s room for misconceptions”. Questa consapevolezza autoriale si riflette nella lettura de L’ebreo di New York, un fumetto non facile da leggere, dai cambi di ambientazione, ma soprattutto dei personaggi, tantissimi, che ruotano senza sosta e che generano un cambio di registro nella fitta trama creata da Ben Katchor. Ma soprattutto l’aspetto più bizzarro dell’autore newyorchese che, anche se sembra negare la sua ebraicità, se ne appropria proprio nel suo aspetto più vivo, quello storico, quello mnemonico.

Andrea Grilli 
 
 
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I musulmani entrano oggi nel mese di Ramadan, come ci ricorda Paolo Branca su il Corriere della Sera, osservando nelle ore diurne una serie di prescrizioni che impongono l’evitare di assumere cibo, bevande, il fumare e l’intrattenere relazioni sessuali. Un mese di rigorose rinunce, poiché dall’astensione consapevole, intesa come sacrificio delle abituali attività quotidiane, si alimenta il rapporto con l’Ente Supremo. Afferma lo stesso Branca che «sono molti i valori positivi che stanno alla base di questo precetto. Esso è innanzitutto rispettato per uniformarsi alla volontà di Dio, educa a dominare i propri desideri, rende partecipi alla sorte di chi è povero, allena alla pazienza e induce ad offrire le proprie rinunce a Dio, al quale ci si rivolge senza essere distratti da altro, in spirito di condivisione e quale espiazione per le proprie mancanze». Ma sulle frizioni che la presenza di un oramai corposo numero di musulmani nel nostro paese può ingenerare, soprattutto se il reagente è costituito dalle iniziative di alcune forze politiche particolarmente sensibili alle sollecitazioni del loro elettorato e proclivi a iniziative fuori dagli abituali schemi della mediazione, si sofferma con durezza di giudizio Mariuccia Costa su il Manifesto. Il casus belli, questa volta, è costituito dal divieto d’ingresso nella locale moschea che il sindaco di un paese del trevigiano avrebbe imposto per via amministrativa. La vicenda, nella sua singolarità di scarsa rilevanza, è tuttavia indice di una più ampia frattura che si sta consumando tra parte della popolazione autoctona e immigrati. Se da un lato l’impedimento, attraverso il ricorso alla norma legale, del pieno esercizio di una pratica di fede è di per sé sempre discutibile, dall’altro rimane il fatto che la trasformazioni che le nostre società stanno conoscendo, a causa dei robusti flussi immigratori, sono destinate a creare inevitabili tensioni così come conflitti difficilmente eludibili. La fede islamica, comunque la si intenda e la si pratichi, demanda a un universo di valori e di significati che investono la globalità dell’esistenza e la totalità delle pratiche dell’individuo. Non si tratta solo di un insieme di valori astratti ma di un complesso di convincimenti dai quali derivano abitudini, costumi, rituali e condotte per ogni giorno. Il confronto con le culture dei paesi europei non può non essere complesso, a tratti difficile, a volte impossibile, Il principio della secolarizzazione, che è alla base delle nostre società, laddove la religione è una sfera separata dalla politica, è assente nel pensiero musulmano classico. Gli immigrati portano con sé questa impostazione di fondo, che si riflette nel modo di intendere la vita quotidiana, le relazioni sociali, i valori così come le priorità alle quali uniformare le proprie scelte. Non basta quindi qualche gesto di buona volontà, come ad esempio il politically correct applicato alla sit com dei «Simpson», di cui parla Cristina Nadotti per la Repubblica, per permetterci di affrontare il rapporto con una civilizzazione, quella islamica, che può offrirci qualcosa solo se è disposta ad accogliere ciò che noi occidentali abbiamo maturato e sancito come la soglia invalicabile, quella dei diritti dell’uomo. Dal Medio Oriente ci giungono echi pressoché quotidiani. A titolo di sintesi valga la lettura dell’articolo di Paul Salem su l’Espresso dove, a partire dalla crisi iraniana, si svolgono alcune riflessioni di più ampio raggio. Una valutazione sul congresso di Al Fatah, conclusosi da poco, con non poche, prevedibili convulsioni intere è quella offertaci da Fiamma Nirenstein per Panorama. C’è da concordare con l’autrice che di nuovo da quella assise sia emerso ben poco se non nulla. D’altro canto il risorgere di atteggiamenti estremistici è il segno dell’incapacità di dare corso ad una innovazione intera, ad una trasformazione generazionale che sarebbe tanto più inderogabile dal momento che l’alternativa è il declino di quel che resta di quella che fu la maggiore organizzazione di militanza e lotta palestinese. E proprio sul versante palestinese, per cogliere la interiore vivacità così come la contraddittorietà che anima i sentimenti ma anche i risentimenti verso la propria parte, si vedano le riflessioni raccolte e sviluppate da Paola Caridi su l’Espresso a partire dalla autobiografia di Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds, uno tra i maggiori esponenti dell’intellettualità gerosolomitana. Speculare a questa lettura può essere l’intervita di Alain Elkann a Amos Oz per la Stampa.
 
Claudio Vercelli

 
 
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Israele – Svezia: articolo infamante e crisi diplomatica                
Gerusalemme, 21 ago -
Cresce di nuovo la tensione fra Israele e Svezia. La collera di Israele per la pubblicazione in Svezia, sul quotidiano Aftonbladet, di un articolo che accusava l'esercito israeliano di aver in passato trafugato organi palestinesi uccisi nei Territori sembrava essere calata due giorni fa quando l'ambasciatrice svedese in Israele, Elisabet Borsiin Bonnier, l'aveva duramente denunciato. Ma le sue critiche sono stato viste da Aftonbladet come un attacco inaccettabile alla libertà di stampa e lo stesso ministero degli esteri di Stoccolma ha preso le distanze dall'ambasciatrice. Da qui il rinnovarsi della polemica di che rischia - secondo la stampa israeliana - di avere gravi ripercussioni nelle relazioni fra Gerusalemme e Stoccolma. Il ministro degli esteri Avigdor Lieberman (Israel Beitenu) e il ministro della difesa Ehud Barak (laburista) hanno richiesto al ministero degli Esteri svedese di condannare apertamente quella pubblicazione che Israele considera infamante: "E' degna - secondo Lieberman - dei Protocolli dei Savi di Sion". Secondo il quotidiano Haaretz è adesso in forse la visita che il ministro degli Esteri svedese Carl Bildt ha in programma a giorni in Israele.

Fra gli israeliani è scarsa la fiducia in Barack Obama
Tel Aviv, 20 ago -
Un sondaggio sul tasso di fiducia e di simpatia che gli israeliani nutrono nei confronti del presidente americano, Barack Obama, è stato realizzato in cooperazione dall'istituto Truman dell'Università ebraica di Gerusalemme e dal Centro di sudi politici palestinese di Ramallah (Cisgiordiania). Risultato: solo il 12% degli intervistati considera il leader americano favorevole a Israele. La rilevazione attribuisce al 40% degli israeliani la convinzione che il nuovo leader della Casa Bianca sia invece ben disposto verso i palestinesi, a dispetto del fatto che nel giudizio dei palestinesi stessi l'attuale amministrazione americana - per quanto più gradita delle precedenti - resta al contrario prevalentemente filo-israeliana: come asserisce un 60% delle persone interpellate in Cisgiordania. Gli israeliani, in controtendenza con l'opinione pubblica di gran parte dei Paesi occidentali, hanno in maggioranza accolto Obama fin dall'inizio con scetticismo. L'amministrazione americana in carica si è impegnata negli ultimi mesi assai più che non le precedenti a far pressione su Israele per un congelamento di tutti gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme est (considerati illegali dalla comunità internazionale), funzionale al rilancio del processo di pace con i palestinesi. Pressioni che sembrano avere aperto negli ultimi giorni uno spiraglio di compromesso possibile con il premier Benyamin Netanyahu, finora riluttante sul tema, ma che hanno anche innescato la reazione di una fronda interna al partito di Netanyahu (Likud, destra), favorevole al movimento dei coloni e contraria ad ogni concessione nei confronti di Washington. Fronda cui in queste ore ha dato voce, irritando il premier, il ministro ed ex generale Moshe Yaalon.  
 
 
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